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Del vivere e del morire

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I rapporti degli adulti con i bambini.
Il diverso senso del tempo, le relazioni

Tra i bambini e gli adulti può prendere forma, di nuovo, il tempo. Ma sono gli adulti che, anzitutto, devono apprendere. Devono

impararle ad aspettare una risposta, invece che pretenderla immediatamente. Imparare a spiegare e spiegarsi ciò che si vuole davvero. E domandarsi se ciò è giusto o semplicemente dà gioia: le domande in questo caso valgono molto più delle risposte”.[1]

Crescere in relazione con l’altro

Tra bambini e adulti, se così si può  dire, si può imparare a pensare.

La relazione educativa è sempre incontro, è cercare e prendere forma del pensiero, è parola scambiata, è posizione via via assunta nel mondo.  Tutta l’attività di pensiero, che apre al gioco della libertà e della responsabilità, viene guadagnata è sviluppata nel proprio mondo della vita. E’ crescere in consapevolezze sul mondo e la vita, leggere e controllare le passioni, le risorse culturali o le condizioni economiche e sociali.

Una sapienza di vita può crescere solo in un rapporto intenso tra generazioni, e in relazione con l’altro. Pensare è un movimento: comunicare con se stessi si intreccia al comunicare con altri, in interazioni simboliche incessanti, concrete o virtuali. Questa azione comunicativa va appresa e praticata. Va ben controllata perché non si costruisca il pensiero su autopersuasioni difensive, sull’adattamento gregario a fonti d’autorità rassicuranti o su autoreferenzialità.

Educare chiede di stare esposti, vulnerabili, al raccontarsi dell’altro. Anche quando sembra di non essere capaci e presenti, di non avere una consistenza e un ruolo. Serve una “scintilla di vulnerabilità” perché l’altro possa essere, perché sia “lasciato essere”. Per Korczak “ogni progetto pedagogico è e deve essere un processo auto-educativo. Così come ogni rapporto bambino-adulto (e non solo adulto-bambino) è e deve essere una relazione di solidarietà intergenerazionale” (vedi il mio articolo) .[2]

Il tempo degli adulti e il tempo dei bambini

Tra bambini ed adulti si dá l’incontro tra tempi diversi. E non solo nel senso che al bambino “manca” molto del tempo che l’adulto ha vissuto e che l’adulto compirá il suo tempo “mancando” del tempo futuro che ancora sará del bambino. Pur se questo è importante e se questa “diversità” può essere esperienza interessante d’incontro, ospitalità reciproca e offerta, confronto esigente su responsabilità e dedizione.

Tra bambini e adulti vi è una profonda differenza circa la esperienza vissuta del tempo, l’esperienza della presenza, del racconto e della visione, del lascito e del debito, della melodia del tempo propria d’ogni biografia, e del ritmo del tempo.[3]

Il tempo del bambino non é solo tempo del gioco. Annota Dario Arkel, sulla scia del Vecchio Dottore, che

il bambino trattiene il tempo dentro di sé, l’adulto è schiavo (…) il bambino lo dilata, l’adulto lo restringe”.

I bambini si fan cogliere in osservazioni, meditazioni, ascolti dei ritmi e delle cose, sogni ad occhi aperti che richiedono il tempo necessario

Il tempo del bambino é fatto di momento, di dettagli, di nicchie, di emozioni folgoranti”.[4]

Per gli adulti incontrare il tempo dei bambini, rispettandolo, è uno dei modi per ritrovare l’infanzia, il senso dell’origine e di un mondo che a noi si offre. E le dimensioni dell’interioritá dell’entusiasmo, della riflessione, della meditazione. E offrire, con rispetto e senza imposizioni, scoperte e parole del passato, dialoghi e gusto di pratiche e progetti che “serbino” sogni e visioni.

Anche la scoperta della bellezza del tempo per l’altro, della cura, del servizio. Sostenendo il conoscere, il comprendere, e un sentire che si fa vicinanza e ricerca, condivisione.[5]

La morte integrata nella vita

L’incontro tra tempi diversi non puó eludere la realtá della morte. Grande rimozione nell’incontro tra i bambini, i ragazzi e gli adulti.

Nelle settimane prima della uscita dal ghetto, Korczak e i bambini riflettono sulla morte: adulti impazziti e violenti lo rendono urgente. Non è tema nuovo, aveva già scritto nel 1914 del Diritto del bambino alla morte, cioè dell’importanza di parlare di tutto con i bambini, che sui grandi temi portano un loro sapere e un loro sentire.

Un bambino orfano, che ha conosciuto separazioni, sa della vita, può riflettere con donne e uomini adulti. Integrare la morte nella vita, come direbbe Julia Kristeva[6], vivere una solidarietà, una comunione di fronte alla morte è via per trovare valore e bellezza della vita, qualcosa che neppure la morte può rompere. Qualcosa di essenziale e di bello.

Quale postura assumere per stare nel tempo che si spezza e finisce, e oltre la violenza e la morte, la morte precoce? Nella Casa conoscono quella del protagonista del testo di Tagore L’ufficio postale la cui rappresentazione viene allestita nell’estate del ’42 dai ragazzi e dai bambini. Il piccolo protagonista sta morendo nella sua stanza ma guarda fuori dalla finestra e immagina di recapitare una lettera ad ogni persona che vive lá fuori, lettere piene di speranza, di racconto, di promessa e augurio di vita e bellezza.

Postura eretta, dunque, con occhi aperti a vedere, certo, il male e l’ombra, ma capaci tenacemente di cogliere il dono di un gesto buono e giusto e la bellezza del cielo. A serbare un’umanità nuova, almeno la sua attesa.

Il bambino piú che fare cose nuove, fa nuove tutte le cose. In lui si vive, in principio, nel profondo: é seme di un “altrove del presente, che fa da istanza critica ad un tempo incapace di ripensarsi”.[7] Specie se intreccia il suo con il tempo dell’adulto.[8] 

Un lascito, necessario

Nei decenni  successivi alla morte di Korczak e dei suoi bambini, nel  mondo si incontrano sempre piú infanzie che portano percorsi distinti e storie ben differenziate, segnate da molteplici e diverse culture e da diverse esperienze pratiche.

Ci sono infanzie considerate e vissute (fatte vivere?) sempre piú  come periodi di “preparazione” alla vita adulta. Mentre molte altre sono segnate da stagioni, nelle diverse fasi di sviluppo, di sempre piú intensa “partecipazione” alla vita stessa, alle dinamiche familiari, allá vita comune.

Ci sono condizioni di vita e ambienti culturali nei quali molto presto le bambine e i bambini possono essere chiamati a partecipare alla vita familiare, sociale e lavorativa, in molte delle sue forme e con responsabilità e ruoli specifici.

È importante

che i bambini imparino a conoscere l’ambiente e a destreggiarsi in molte situazioni parentali e sociali, ed anche in molti tipi di lavoro condiviso con gli adulti stessi oltre che con i fratelli.

Vivendo, così, scambi di capacità e solidarietà tra le generazioni: così annota Rita Gay.[9] Altre bambine e bambini, invece, passano molta parte dei primi anni della vita limitati o impediti nel contatto con diversi  ambienti di vita, portati a vivere in strutture di formazione dove si fa esperienza di una vita protetta e segnata da addestramento e studio.

Dialogando con l’ultimo Zygmunt Bauman potremmo affermare che dare parola, spazio e proposta ai bambini e alle bambine potrebbe essere decisivo  per vivere bene l’età delle migrazioni. I bambini, i figli sono nati nel tempo degli incontri, delle relazioni tra diversità, di nuovi radicamenti e nuove immaginazioni. Per loro questo è un dato di fatto e una pratica quotidiana (se non la impediamo o rendiamo difficile). Scrive il sociologo polacco:

Le cose potrebbero cambiare grazie ai bambini, ai nostri figli. In un certo censo dovremmo acquisire la loro naturalezza rispetto a questo problema. Diversamente da noi, essi insieme agli stranieri vanno a scuola, insieme agli stranieri sanno che c’è gente diversa da loro e questo è un dato di fatto.

Così, fin dai primi anni della loro vita, imparano questa difficile arte di essere amici, sanno che sono destinati a essere colleghi di gente diversa per una infinitá di aspetti, ma  eguale per altri. (…) Si inizia ad apprendere l’arte di vivere felicemente in compagnia di persone diverse da noi e di ciò si può essere in parte felici, anche perché (…) nuovo è il futuro per tutti noi.[10]

Lasciare maturare l’esperienza, lo sguardo ed il pensiero di Korczak in un tempo diverso e nelle sfide del passaggio che ci è dato di vivere può essere non solo fecondo, ma necessario.

Non è sempre una cura facile cogliere all’interno di una trama intergenerazionale le domande sulle radici e sul futuro che si fanno le bambine e i bambini: già nelle reti familiari il gioco delle generazioni non solo è incontro di  differenze, ma si arricchisce (o si impoverisce), a volte improvvisamente, di nuovi nodi, di nuove relazioni, della necessità d’accoglienza e del richiamo a nuove capacità di prossimità. E viene scosso da lutti, da abbandoni, e sollecitato da legami imprevisti e nuovi.[11]

La convivenza delle generazioni

Le reti vitali in cui si trovano i nostri bambini e le nostre bambine, non sono quasi mai composte da meno di tre generazioni, per periodi non brevi  anche di quattro generazioni. Questa convivenza prolungata di quattro generazioni modifica il modo di vivere, di educare, di abitare, di crescere, di stare in relazione, di educarsi e di leggere sé in una trama di cure e di attenzioni responsabili.

In un gioco di affidamento e di affidabilità che ridisegna la logica tradizionale dei ruoli, e della forza. I bambini devono essere capaci molto presto di accudimento, gli adulti, gli anziani devono essere capaci molto spesso di affidarsi.

Pare di cogliere qui una delle sfide antropologiche delicatissime dentro la quale abita una specifica sfida educativa: quella dell’estrema vicinanza, del legame profondo dei destini, e delle generazioni affidate le une alle altre, nella vulnerabilitá. È sfida, certo, antica: oggi, però, la si vive su una soglia inedita e complessa.[12]

Crescere le piccole ed i piccoli come soggetti morali chiede di attivare la loro possibilità di diventare soggetti morali, specie verso i più deboli ed i vulnerabili. Sperimentando relazioni nelle quali il riconoscimento delle proprie forze e delle proprie debolezza, e del proprio bisogno degli altri non sia vissuto come una pericolosa esposizione all’esercizio della forza e all’iniziativa di altri.

La sfida educativa è seria: nelle società “avanzate” si sta rischiando che le generazioni si rappresentino via via in estraneità le une alle altre. In un conflitto di interessi, in un conflitto di diritti.

Riusciremo a costruire il senso e, soprattutto, la pratica di una nuova alleanza tra le generazioni, senza restare invischiati in un gioco ambiguo di debiti, di riconoscenze, di risarcimenti, di meriti, di risentimenti? Riusciremo a non restare invischiati nel risucchio di rancori e paure per restare o entrare nella dimensione del ricevere, dell’esporsi, del morire un po’ nelle cose, negli esercizi pratici di prossimità? Per rendere abitabile la relazione fra noi?

 

[1] P. Perticari, “Prefazione”, in J. Korczak, Le regole della vita, cit, p 4.
[2] L. Giuliani, Korczak, l’umanesimo a misura di bambino, cit., p 20.
[3] D. Arkel, Etica dell’essenziale e oltrenero pedagogico, Ed Zeroseiup, Cittá di Castello, Perugia, 2021, pp 46-47.
[4] Ibidem, p 47.
[5] Ibidem, p 50.
[6] J. Kristeva, J. Vanier, Il loro sguardo buca le nostre ombre, Donzelli, Roma, 2011.
[7] A. Reginato, “Il nuovo é sempre in principio”, cit, p 23.
[8] I. Lizzola, Aver cura della vita. Dialoghi a scuola sul vivere e sul morire, Castelvecchi, Roma, 2021.
[9] R. Gay, Verso il futuro, Ed Sestante, Bergamo.
[10] Z. Bauman, “Immigrazione? Torniamo bambini”, in  Bambini, n 5/2011.
[11] I. Lizzola, Di generazione in generazione. L’esperienza educativa tra consegna e nuovo inizio, Franco Angeli, Milano 2009.
[12] G. Le Blanc, “Penser la fragilité”, in Esprit, 3-4, 2006.

Ivo Lizzola
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