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Alle radici del messaggio cristiano nel mondo degli eterni adolescenti

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Alle radici del messaggio cristiano nel mondo degli eterni adolescenti. Conversazione con don Armando Matteo.

Rocca n° 3/2022

Difficoltà e incertezze sembrano il comune denominatore di questo scorcio di secolo, dominato da disorientamento e paura del futuro. La scienza progredisce, ma il comune sentire ristagna sulla superficie delle cose, soffocato da paradigmi e superstizioni. Il mondo è pieno di risentimento, aggressività, diffidenza e come incapace di produrre immagini di un avvenire positivo. Armando Matteo, teologo e studioso delle cose umane, da tempo si interroga sulla precarietà del presente. 

Don Armando, la religione è sempre stata per l’uomo una chiave per dare un senso alla realtà, specie nei periodi di crisi come quello che stiamo attraversando. Ma cosa significa essere cristiani oggi? 

Il nostro è un tempo di crisi sanitaria, economica e sociale, e soprattutto è un tempo di grandi e profondi cambiamenti che, nella vita quotidiana, moltiplicano le opportunità a nostra disposizione, ma possono anche scaraventarci in situazioni totalmente inedite e disorientanti. Noi siamo umani e viviamo il nostro mondo in modo completamente diverso da come erano umani e vivevano il loro mondo i nostri padri e i nostri nonni. E per una religione come il cristianesimo, che vuole essere al servizio di una vita piena, feconda e generativa, questo mutamento di prospettive rappresenta una grande sfida: non si può oggi essere cristiani nello stesso modo in cui lo erano i nostri predecessori. Il loro era un cristianesimo della consolazione, dell’illuminazione, e aprendo a tutti la prospettiva della trascendenza offriva una via d’uscita da esistenze segnate da tanti limiti, da tabù, da malattie e da una morte spesso prematura. Quello di oggi invece è un cristianesimo che, per poter parlare alle donne e agli uomini di un mondo radicalmente diverso, ha bisogno di trovare nuovi stimoli, nuovi linguaggi. 

Come cambia il modo di comunicare il messaggio evangelico? 

Di fronte a un mondo nuovo, occorre ritrovare l’essenza del cristianesimo, viverne il messaggio e portarne l’esempio. Ci aiutano a capire la direzione le parole che costellano il pontificato di papa Francesco: in particolare penso a gioia, donazione, fraternità. Sono queste le chiavi per diffondere il messaggio evangelico con rinnovata efficacia e nuovo entusiasmo. 

Nelle sue esternazioni, papa Francesco esorta spesso a reagire, a cogliere i segnali della crisi della Chiesa: crisi di vocazioni, di pratica, di coerenza rispetto al nucleo della visione cristiana della vita. Quali sono il significato e il valore di questo messaggio accorato? 

Papa Francesco ha una lettura molto chiara di ciò che sta accadendo alla Chiesa e al mondo. Non a caso spesso dice che non ci troviamo in un’epoca di cambiamento, ma in un cambiamento d’epoca: per effetto di mutamenti mai così veloci e rivoluzionari (nello stile di vita, nelle possibilità di movimento e di conoscenza, nel progresso della scienza e della tecnica, nella compromissione delle risorse naturali del pianeta) gli umani abitano il mondo in modo qualitativamente diverso rispetto agli umani che li hanno preceduti. La cristianità, così come è stata per secoli e fino a qualche decennio fa, non esiste più. Fino alla fine degli anni Settanta del Novecento il cristianesimo riusciva a trovare dei canali di comunicazione e di osmosi fra la vita quotidiana delle persone e il messaggio di Gesù, grazie a categorie come la verità, la consolazione, la salvezza eterna. Oggi il pontefice riconosce che quell’epoca è finita e quindi dobbiamo fare un cambio di passo. Per questo parla di conversione pastorale: bisogna che la Chiesa torni a essere il luogo in cui le persone possano incontrare Gesù e conoscere la proposta di umanizzazione e di gioia contenuta nel Vangelo. Detta così sembra una soluzione di semplice attuazione, ma la parabola del buon samaritano, ovvero la pratica della misericordia e della compassione cristiana nei confronti del prossimo, non va d’accordo con l’immanenza di un apparato ecclesiale che nel corso dei secoli si è molto ingigantito, «incrostando» le radici più autentiche e primigenie della Chiesa. Ciò che serve è un vero e proprio processo di «dimagrimento», di essenzializzazione del messaggio cristiano. 

Nel suo ultimo libro, Convertire Peter Pan. Il destino della fede nella società dell’eterna giovinezza (Ancora Ed., 2021), lei sostiene che, per comprendere il problema delle chiese vuote, è giunto il momento di interrogarsi «sulla vetusta categoria teologico-pastorale dei credenti non praticanti». 

Si tratta di una provocazione. Con questo concetto intendo semplicemente dire che non si può più pensare, come cinquant’anni fa, che la maggioranza di chi non viene in chiesa sia in realtà composta da credenti che non praticano. Un tempo era certamente vero che molte persone, pur permeate di autentico spirito religioso, non potevano essere assidue praticanti a causa di difficoltà oggettive legate alla loro situazione economico-sociale, ai tempi del lavoro e della famiglia, all’età o a condizioni psico-fisiche non ottimali. Ma oggi che le possibilità di spostamento sono alla portata di tutti e il tempo è diventato una risorsa sempre più gestibile, la nuda verità, forse difficile da accettare per chi è ancorato a vecchie categorie di analisi, è che chi non pratica la religione in realtà non è nemmeno credente. Ci sono intere categorie di persone che non vengono, o non vengono più, in chiesa: non solo e non tanto i giovani o i giovanissimi, ma soprattutto i quarantenni e i cinquantenni, che vediamo solo in occasione del matrimonio e tutt’al più del battesimo del figlio. Il vero problema è che il sistema economico, culturale e sociale in cui viviamo non facilita certo l’incontro dell’uomo con il cristianesimo, perché non fa che produrre falsi desideri e confina gli adulti a un’eterna giovinezza del tutto priva di consapevolezza, di senso di responsabilità e di capacità di introspezione. Nelle cosiddette terre del benessere, ossia in tutto il mondo occidentale, è stato dimostrato che la popolazione adulta è quella che prega di meno. Ecco perché le chiese sono vuote. 

La nostra società è ormai incapace di affrontare il tema della morte, e prima ancora quello della vecchiaia: c’è disagio persino nel parlarne e si cerca di esorcizzarle, di allontanarne il pensiero, di trasformarle da componenti naturali dell’esistenza, quali sono, a fasi estranee alla vita. Si preferisce coltivare l’illusione dell’eterna giovinezza e spesso i figli hanno genitori immaturi, eterni Peter Pan, appunto… 

Siamo di fronte a una vera e propria rivoluzione antropologica. Mai come oggi abbiamo a disposizione agi e prerogative che i nostri padri, e tutte le generazioni che li hanno preceduti, potevano soltanto sognare: vite più lunghe e più sane, abitazioni più belle e vivibili, un tenore di vita soddisfacente, infinite possibilità di conoscenza e di circolazione… Si pensi che, fatta salva la pandemia che ci affligge, nel prossimo futuro il problema più grande delle società ricche sarà l’obesità, cioè l’eccessiva nutrizione. Siamo tutti innamorati delle nostre vite fantasmagoriche e piene di possibilità, siamo la vera incarnazione del superuomo di Nietzsche, che vive la dimensione dionisiaca dell’esistenza superando la morale del cristianesimo e sopportando la scomparsa di Dio e delle certezze assolute. L’invecchiamento e la morte non sono accettati perché sono la negazione, l’antitesi di tutto lo splendore del mondo terreno, di cui ci precludono il godimento. L’aggettivo ‘vecchio’ non si trova più nemmeno su Wikipedia. E in inglese l’espressione classica con cui si chiedeva l’età (‘How old are you?’) è ormai soppiantata da ‘How young are you?’. La stessa regina Elisabetta, alla bella età di 95 anni, ha da poco rifiutato il riconoscimento di ‘persona anziana dell’anno’, come se l’anzianità fosse una cosa indicibile, da evitare come la peste. Quando invece vivere nell’illusione di un’eterna giovinezza, oltre che innaturale, è anche deleterio quando si hanno responsabilità educative. Meno gli adulti riescono a fare i conti con l’idea della finitezza, dei limiti dell’umano, meno sono all’altezza della loro funzione pedagogica nei confronti dei bambini e dei ragazzi. L’idea della morte viene rimossa perfino dal lessico quotidiano: si preferisce dire che una persona è scomparsa, è venuta a mancare, si è spenta, utilizzando forme verbali che indicano un’azione del soggetto, una sua capacità di decisione che invece, nel momento della morte, non c’è. 

La pandemia sta mettendo a nudo fragilità e contraddizioni del nostro sistema di vita. All’improvviso l’uomo si è scoperto vulnerabile, in balìa di forze che sfuggono al suo controllo e alla sua capacità di previsione. In breve tempo, la ricerca scientifica ha fornito una soluzione terapeutica, seppure non risolutiva, ma esiste una medicina che curi il senso di precarietà e di insicurezza che ci affligge? 

Il senso di precarietà e di insicurezza che avvertiamo non è il frutto della pandemia, ma l’essenza stessa di una società fondata sulla continua creazione di modelli consumistici, che alimenta l’eterna insoddisfazione dei cittadini-clienti. C’è sempre un prodotto da desiderare o un’esperienza cui aspirare, e si finisce con il passare la propria esistenza a rincorrere una felicità esogena, artificiale. Non sto dicendo che la pandemia non sia una sciagura, ma che di fatto non abbia assunto la rilevanza che poteva avere, quella dell’occasione di ripensamento, di riflessione profonda, di sostanziale cambiamento. Tranne che per i più giovani, che stanno vivendo un grave disagio esistenziale, non mi sembra che per gli adulti ci sia stata la consapevolezza di una svolta autentica, di un trauma che mette in discussione l’ordine costituito. Una crisi che non è vissuta fino in fondo è sprecata. Il vaccino e la capacità di produrlo in grandi quantità sono arrivati talmente in fretta che ora il Covid non fa quasi più paura e ha smesso di essere quel cambiamento di direzione su cui tutti spergiuravano. Soltanto un anno fa la parola d’ordine era ‘ricominciare’, cioè cominciare da basi diverse, nuove; ora invece si parla di ‘ripartire’, cioè di tornare allo status quo senza bisogno di rivoluzionare niente. 

Padre Armando, lei si è spesso occupato del difficile rapporto fra i giovani e la fede. È indubbio che la Chiesa negli ultimi decenni stia pagando la progressiva disaffezione delle nuove generazioni. Quale strada percorrere per ridare linfa vitale a questo rapporto? 

La via è quella indicata da papa Francesco, quando dice che la Chiesa deve ritornare a fare l’unica cosa per la quale esiste: essere il luogo dove gli uomini e le donne possono incontrarsi con Gesù. Oggi parrocchie e comunità non devono adoperarsi nella miriade di opere di supplenza di cui un tempo c’era gran bisogno. Per questo dovrebbero concentrare la loro attività nell’implementare la parola di Dio, nell’istituire scuole di preghiera, nel recuperare l’essenza della liturgia domenicale: la messa deve essere il luogo della bellezza e non del precetto, il luogo in cui una comunità ha il piacere di incontrarsi e di riconoscersi. Il pontefice ci ammonisce: il problema non è la pastorale giovanile, ma la pastorale nel suo insieme. All’epoca dei nostri genitori e dei nostri nonni, tutto nella vita quotidiana delle persone parlava di Dio e la vita di ciascuno ne era permeata, sia nelle esperienze di sofferenza sia in quelle di felicità. Pensiamo soltanto al suono delle campane, che scandiva i momenti della vita. In quel tipo di mondo, in armonia con i tempi della pratica religiosa, lo sguardo verso il cielo era facilmente sollecitato. A differenza di quell’epoca, la chiesa oggi è svincolata da tutta una serie di compiti accessori, e ha «solo» il compito primario di far innamorare le persone, non solo i giovani, del messaggio di Gesù. È su questo che si deve concentrare il suo operato. 

Da un anno lei fa parte della Congregazione per la dottrina della fede. Un tempo, questo organismo della Curia romana, ora incaricato di promuovere e tutelare la dottrina della Chiesa cattolica, si chiamava Sant’Uffizio, e prima ancora Santa Inquisizione. Nomi che evocano lo spettro di una religione assertiva, assolutista, punitiva. Oggi le cose sono certamente diverse. Ci può spiegare in sintesi in cosa si sostanzia l’attività della Congregazione? 

La Congregazione consta di tre sezioni: dottrinale, disciplinare, matrimoniale. La prima ha il compito di tenere in conto – senza alcun intento inquisitorio – ciò che viene prodotto in ambito cattolico (libri, riviste, prodotti audiovisivi, insegnamenti nelle facoltà di teologia) per fare arrivare al popolo santo di Dio il giusto nutrimento. La sezione dottrinale ha anche il compito di redigere pronunciamenti e indicazioni da rivolgere a vescovi, sacerdoti e fedeli circa questioni di particolare contenuto dottrinale. La sezione disciplinare si fa carico invece delle accuse di pedofilia rivolte a religiosi o diaconi. Si tratta di un compito molto delicato, che viene affidato alla Congregazione in virtù del fatto che nelle parrocchie e nelle comunità in cui accadono gravi episodi di pedofilia, oltre che nella vita delle vittime, si verificano veri e propri terremoti emotivi, che mettono in crisi la fede delle persone e quindi vanno trattati con sensibilità e saggezza. La sezione disciplinare aiuta le diocesi e le congregazioni religiose nelle fasi di indagine e di istruzione dei processi e assiste le vittime di abominevoli atti di abuso sessuale. L’ultima sezione, quella matrimoniale, assiste il Santo Padre in quello che si chiama privilegio paolino, che riguarda casi di matrimoni che possono essere sciolti in via di eccezione per favorire l’esercizio della fede cristiana del credente. In sintesi, si può dire che la Congregazione per la dottrina della fede aiuta il Santo Padre nel cammino di rinnovata evangelizzazione che la Chiesa ha intrapreso. Tutto il contrario, direi, dell’Inquisizione! 

Marco Bevilacqua

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