Francesco Savino "L’umanesimo della carità"
“Non dite voi: Ci sono ancora quattro mesi e poi viene la mietitura? Ecco, io vi dico: Levate i vostri occhi e guardate i campi che già biondeggiano per la mietitura” (Gv 4,35).
Prendo lo spunto di questa mia riflessione dalla stessa immagine: le spighe al vento ammirate e dipinte artisticamente da Franco Azzinari e, molto prima di lui, accarezzate amorevolmente dallo sguardo di Gesù, che rievocava di certo anche qualche Salmo, come ad esempio quello che descrive il frumento già maturo che ondeggia sulle cime dei monti (Sal 71,16).
Immediatamente, tuttavia, mi viene in mente ciò che già nei testi più antichi della Bibbia si diceva delle stesse spighe: chi le raccoglieva ne doveva lasciare una parte a disposizione dei poveri che, pur senza razziare, avevano diritto di entrare nei campi altrui per ricavarne il loro nutrimento (Dt 23,26; cf. Rt 2,16).
Il grano è dunque per gli uomini, è per tutti e ciò mi porta più lontano, ma anche più in profondità. Mi riporta a Cristo, la cui vita, i cui sogni di una nuova umanità, mi appaiono come quel chicco di grano, che caduto in terra muore e non rimane solo, germina molto frutto e nuova vita (cf. Gv 12,24).
Grano e vita, dunque a disposizione degli altri, perché il grano è vita e la vita richiede risorse e cibo, ma ciò significa saperli condividere, prima ancora di utilizzarli, richiede un sapersi accontentare del necessario per dare spazio e vita anche all’altro. Richiede un ethos della sobrietà e pertanto una conseguente radicalità di impostazione della nostra esistenza e dello stesso pensare umano, per una diversa consuetudine utile e necessaria ad affrontare il deserto del nichilismo. È un deserto causa e frutto della fame di intere popolazioni di una parte dell’umanità (gli impoveriti del mondo) ed è il deserto della fame di senso della vita soprattutto di futuro nell’altra parte ad essa simmetrica (noi, più ricchi di beni e di consumo e sempre più poveri di futuro).
Vi è un dato imprescindibile dal quale partire, l’adesso del mondo che abitiamo: è lo shock del risveglio da tante catastrofi che ci hanno toccato da vicino e da lontano. La sola via d’uscita sin qui tentata, quella palliativa appunto, sembra essere la possibilità di rendere questi traumi condivisi e accettabili, puntando su una maggiore empatia per comprendere l’importanza di attraversare la crisi, di interiorizzarla e smaltirla. Una buona raccolta differenziata del dolore, insomma, che ce lo faccia metabolizzare senza temerlo, affrontandolo con fiducia e coraggio.
La pandemia da Covid-19 ci ha dimostrato questo: ogni disastro porta con sé lo sconvolgimento della normalità dentro e fuori di noi, al punto che ogni riferimento di senso sembra incrinarsi. È come un’onta di immeritata miseria che ci trasforma inconsapevolmente, riplasmando anche le cornici (che ci sembravano nettissime) di significato.
In particolare quel nesso uomo-luogo che, attraverso simboli, riti ed abitudini, ha rinforzato per secoli il delicatissimo margine tra homo e humanus. Oggi il venir meno di quel nesso tra noi e la casa comune appare come una resa all’homo barbarus, rozzo, incivile e selvaggio.
Per non correre il rischio di essere stigmatizzati come barbari, allora, abbiamo assunto la tendenza, piuttosto auto-conservativa, di attribuire a qualsiasi cosa un posto, un senso, una natura comprensibile, anche quando evidentemente non ne abbia. Alle volte persino con un funzionamento sacrificale: siamo disposti a tutto, a qualsiasi cosa ci consenta di circumnavigare il senso primo della crisi e la renda tollerabile, attraverso motivazioni, sistemi di credenze (non fede ma credenze!) che garantiscano l’interpretazione più “reale” e tranquillizzante possibile. Un’analisi empirica e, se necessario, anche scientificamente condivisa.
Una coincidenza che rende questa mia riflessione più lineare sussiste nel constatare come la parola “crisi” derivi dal greco κρίνω: “separare”. E il riferimento pare sia proprio alla cernita del grano durante la trebbiatura. Siamo abituati a pensare la crisi con l’ansietà tipica del nostro sentirci finiti, quindi con scoraggiamento e paura: non, invece, come momento essenziale da vivere, come l’opportunità del discernimento, l’attimo non di un equilibrio interrotto ma di un cambiamento salvifico. In questo scenario barcollante che il post Covid sta palesando sento materializzarsi con urgenza una nuova inquietudine: la crisi che poteva essere discernimento salvifico, setaccio del male, sta diventando l’altoparlante che lancia slogan su una carità sempre più evanescente e inconsistente: il paradigma di una vicinanza diventata indifferenza perché “sono forse io il custode di mio fratello?” (Gen 4,9).
Come osserva papa Francesco nel suo messaggio per la giornata odierna, la pandemia “continua a bussare alle porte di milioni di persone e, quando non porta con sé la sofferenza e la morte, è comunque foriera di povertà. I poveri sono aumentati a dismisura e, purtroppo, lo saranno ancora nei prossimi mesi. Alcuni Paesi stanno subendo per la pandemia gravissime conseguenze, così che le persone più vulnerabili si trovano prive dei beni di prima necessità. Le lunghe file davanti alle mense per i poveri sono il segno tangibile di questo peggioramento”.
Quello che i numeri ci restituiscono in questo momento storico è un aumento sostanziale di nuove povertà causate dalla perdita del lavoro e delle fonti di reddito in generale, con annesso effetto-domino che determina nuovi disagi e attecchisce su quelli preesistenti. Non esistono nuovi poveri, nuovi invisibili (perché, vi assicuro, io queste fragilità le vedo benissimo) ma esiste, come suggerisce il professor Zamagni, una società interventista capace di attuare politiche (a breve termine) sulla fragilità senza operare sulla vulnerabilità. Per cui i prossimi invisibili potremmo essere noi perché portatori, anche solo per ragioni anagrafiche, di una fragilità potenziale di cui nessuno si prenderà cura, nessuno che sia una Istituzione, uno Stato o anche solo quel fratello di cui non ci sentiamo più i custodi.
L’indifferenza ci acceca: non siamo come il bambino che, con le sue manine sui nostri occhi, ci prepara alla sorpresa e, allo stupore, ma più facilmente come l’attore sul palcoscenico, che inganna il pubblico fingendosi cieco. Ecco rischiamo di vivere come i Tartuffe di Molière, gli ipocriti di quella commedia tragica che è la vita. E non solo della nostra ma anche di quella dei nostri figli, dei nipoti e, perché no, anche dei nostri genitori, dei nostri anziani. Eppure già dalla seconda metà del Novecento sembrava essere divenuta definitivamente chiara la soluzione al contrasto delle disuguaglianze: la tutela dei diritti umani. Dopo Auschwitz, secondo Theodor W. Adorno, non sarebbe stato più possibile scrivere poesia, eppure è stato possibile scrivere la Poesia tra le poesie, quella nostra Costituzione che è (o dovrebbe essere) la più alta forma di tutela dei più deboli e la maggiore garanzia per le pari opportunità e un’equa distribuzione dei diritti (mi piacerebbe immaginare un mondo che distribuisca anche equamente le ricchezze).
Quando penso alla nostra bellissima Carta Costituzionale, mi viene in mente quella storia dell’antropologa americana Margaret Mead che alla domanda di un suo studente su quale riteneva fosse il primo segno di civiltà in una cultura, rispose, contro ogni logica previsione: un femore rotto. Perché un femore rotto che guarisce è la prova che qualcuno se n’è preso cura, ne ha avuto la competenza e ha trovato il tempo, la voglia, la tenerezza di aspettare la guarigione e la pazienza della ripresa. Ecco allora che la pratica della cura è un segno di civiltà: non serve l’intelligenza artificiale per comprendere che la sofferenza individuale ha bisogno di espiarsi nella cura collettiva.
Non si tratta del Metaverso dell’ultima realtà virtuale ma della carne sofferente di un ammalato, costato di Cristo che sanguina. Nessun iperuranio tecnologico può raccontare la verità di una ferita, né di una carne che si fa carne per l’altro. Sotto questo aspetto, aveva forse ragione Karl Marx quando suggeriva che sarebbe arrivato un tempo in cui tutto ciò che gli uomini avevano considerato inalienabile, sarebbe diventato merce di scambio: tutto, comprese quelle cose che abbiamo sentito, provato, pianto e sofferto come l’amore, l’opinione, le virtù, perfino la scienza e la coscienza. Il tempo della venalità universale, svendita delle emozioni, delle passioni, dell’eros.
Non dimentichiamo come, nell’enciclica “Deus Caritas est”, papa Benedetto XVI abbia tracciato una lungimirante riflessione sull’amore e sulle forme che lo stesso può assumere, consapevole che l’Amore è uno solo ma di come sia il suo stravolgimento a renderlo osceno: e nell’eccedenza e nella deficienza. Scrive bene papa Francesco: «Uno stile di vita individualistico è complice nel generare povertà, e spesso scarica sui poveri tutta la responsabilità della loro condizione. Ma la povertà non è frutto del destino, è conseguenza dell’egoismo. Pertanto, è decisivo dare vita a processi di sviluppo in cui si valorizzano le capacità di tutti, perché la complementarità delle competenze e la diversità dei ruoli porti a una risorsa comune di partecipazione. Ci sono molte povertà dei “ricchi” che potrebbero essere curate dalla ricchezza dei “poveri”, se solo si incontrassero e conoscessero! Nessuno è così povero da non poter donare qualcosa di sé nella reciprocità».
In questo periodo particolare della Chiesa Universale, come cristiani in Sinodo, siamo chiamati a ripensare responsabilmente all’amore, all’estasi come cammino: “L’amore comprende la totalità dell’esistenza in ogni sua dimensione, anche in quella del tempo. Non potrebbe essere diversamente, perché la sua promessa mira al definitivo: l’amore mira all’eternità” (Benedetto XVI). Cosa fare, dunque, per restituire un’anima di carità all’umanesimo?
Elogiamo la diversità. “La diversità mi fece stupendo.” Riprendo le parole di Pier Paolo Pasolini per esortarvi a ripensare alla diversità come ad una ricchezza; diverso non è diseguale, è la spiga più corta tra le spighe ma ugualmente feconda, non ostracizzata dalle altre ma in armonia col tutto che è il campo di grano.
Educhiamo alla sconfitta. Raccontiamo alle nuove generazioni che vi è una possibilità di godere di una comunanza di destini che includono il fallimento ma anche la ripartenza e la tacita forza del possibile che accantona la smania del potere e della riuscita. Educhiamoli a prendere le distanze da una antropologia del vincente che genera nevrosi e divisioni.
Coltiviamo la fiducia nella politica. Un dato allarmante che è emerso dalle ultime consultazioni elettorali in gran parte d’Italia è che esistono “diseguali senza partito”, figli di alcune contraddizioni sociali che nell’astensionismo hanno trovato una scelta di ulteriore radicalizzazione e a pagarne il prezzo più alto sono sempre le periferie contro città che ingannano, distruggono le campagne, le abbandonano, con il risultato che chi si sente decentrato diventa una lontananza che sempre più si allontana, una barricata che rimarca la disuguaglianza sulle spalle degli irraggiungibili, un divario che non è più solo sociale ma anche economico e culturale. Questa emarginazione che spesso è figlia anche di una volontà, nasce da una profonda sfiducia verso la politica, da uno smarrimento completo dei valori e dalla frustrazione del “tutto cambi perché nulla cambi”. Votare con la consapevolezza che nulla possa cambiare è triste, sì, ma non votare perché in nessuno si riesce a riporre fiducia, è una deriva di civiltà.
Alimentiamoci di generatività. Questa parola, ge-ne-ra-ti-vi-tà che voglio sillabare perché resti più impressa nella mente di ognuno di noi, ha in sé il verbo custodire, accogliere e crescere. È generativo il corpo di una donna, il suo ventre che accoglie e custodisce e fa crescere un’altra vita, una simbiosi d’amore che è difficilmente spiegabile in termini di sensazioni: ogni donna la sperimenta e vive a proprio modo ma ha sempre un fine ultimo ed uguale per ognuna: la vita.
Ripensare ad un umanesimo della carità, cum grano salis (ancora il chicco ci riporta al buon senso, al giusto discernimento), vorrà dire diventare come una madre, essere cioè capaci di sentirci appagati nel dare, esigenti e non compassionevoli: andare ben oltre il dono, la reciprocità e lo scambio. Non serve più raccogliere e distribuire, serve, proprio come una buona madre farebbe con ciascun figlio, ricercare in ognuno un talento e valorizzarlo in maniera responsabile. Questa è la sola accezione di capitale umano che tollero, pur nutrendo grossi dubbi sull’accostamento della parola capitale a quella umano, perché solo attraverso una politica di valorizzazione della competenza si ottiene una consapevolezza di responsabilità. Allora non solo raccogliere e redistribuire ma anche rivivificare e responsabilizzare. La carità può essere un dono ma se è generativa diventa welfare, diventa economia circolare, una molteplicità di risorse per cui da un solo chicco di grano che muore si può generare in concerto con il sole, con l’acqua, con il vento, i bellissimi colori d’autunno di Azzinari.
Riqualifichiamo la giustizia. La giustizia è il fertilizzante di una nuova declinazione di umanesimo che è sinonimo di carità perché è “la misura intrinseca di ogni politica. […] L’amore – caritas – sarà sempre necessario, anche nella società più giusta” (Benedetto XVI), senza dimenticare l’amore-fonte primaria che è Cristo (Charitas Christi urget nos, è diventato il mio motto episcopale) perché il suo amore ci tiene uniti quando la nostra armonia è a repentaglio, ci sostiene di fronte alle debolezze del nostro essere umani, ci guida nelle scelte, ci sospinge nel nostro servire la sua Chiesa, ci abbraccia con e alla sua fedeltà e ci tormenta con la richiesta fondamentale che “non viviamo più per noi stessi ma per lui che è morto e risorto per noi”.
La giustizia per come sosteneva san Paolo VI è una misura minima della carità, minima perché si compie pienamente nel suo essere reversibile: “io do a te” non è una forma di assistenzialismo o di elemosina ma l’inizio di una circolarità per cui, un domani, quello che mi hai dato, attraverso il mio talento, diventi qualcosa che io posso dare ad un altro o restituirti nella necessità.
La carità ha bisogno di uno spazio, di una dimensione sociale per essere generativa e far maturare una nuova circolarità, Gesù chiedeva da bere perché assetato e del cibo perché affamato ma dissetava e sfamava egli stesso.
Diventiamo il fianco dei dimenticati. Il vero incontro con Gesù Cristo si consuma nelle ferite del mondo, negli occhi degli indigenti, dei periferici, i chicchi di grano dal guscio spento e secco. “[…] un guscio secco, spento e inerte, in realtà è una piccola bomba di vita. Caduto in terra, il seme non marcisce e non muore, sono metafore allusive. Nella terra non sopraggiunge la morte del seme, ma un lavorio infaticabile e meraviglioso, è il dono di sé: il chicco offre al germe (ma seme e germe non sono due cose diverse, sono la stessa cosa) il suo nutrimento, come una madre offre al bimbo il suo seno. E quando il chicco ha dato tutto, il germe si lancia verso il basso con le radici e poi verso l’alto con la punta fragile e potentissima delle sue foglioline. Allora sì che il chicco muore, ma nel senso che la vita non gli è tolta ma trasformata in una forma di vita più evoluta e potente” (p. Ermes Ronchi).
Una tale vicinanza agli ultimi esige un profondo rispetto che significa, come suggeriva il compianto cardinale Carlo Maria Martini, rispetto per il mistero dell’uomo che non si penetra mai totalmente e che possiamo solo accogliere e accompagnare perché solo a Dio è dato di conoscerne la più intima e vera natura.
Essere il fianco dei dimenticati implica riuscire a sviluppare una continua capacità di ascolto, anche del silenzio, del taciuto. La conoscenza dell’altro non passa necessariamente dalla richiesta ma dall’anticipazione del bisogno: se io entro nel fondo del tuo cuore, ne conosco tutte le necessità senza il bisogno che tu me le renda manifeste.
La carità è muta ma non sorda. Se tutto questo sarà compiuto avremo forse restituito alla carità la sua libera e selvaggia natura e ne avremo fatto un campo di grano attraversato dal vento, una semina copiosa d’amore che ingentilisce i paesaggi e regala ispirazioni agli artisti e, in momenti di grande dolore occorrerà solo osservarne il colore, come fece la volpe di Antoine de Saint-Exupery, nell’ora preannunciata dell’addio al suo piccolo principe.
E quando l’ora della partenza fu vicina:
“Ah!” disse la volpe, “… piangerò”.
“La colpa è tua”, disse il piccolo principe, “io non ti volevo far del male, ma tu hai voluto che ti addomesticassi…”.
“È vero”, disse la volpe.
“Ma piangerai!” disse il piccolo principe.
“È certo”, disse la volpe.
“Ma allora che ci guadagni?”
“Ci guadagno”, disse la volpe, “il colore del grano”. La carità assomiglierà sempre al colore del grano.
- Mons. Francesco Savino è vescovo della diocesi di Cassano all’Jonio.