Maria Teresa Milano "Fare il proprio mestiere"
di Maria Teresa Milano
Il polverone mediatico sollevato dalle recenti parole dello storico Alessandro Barbero mi ha fatta molto riflettere su cosa significhi “fare il proprio mestiere” e su come si possa dare un contributo utile ai dibattiti che animano la società. Mi si chiede spesso di intervenire sulla cosiddetta “questione donna” e ogni volta mi torna in mente la dichiarazione di Regina Jonas, la prima rabbina della storia: “Mi auguro verrà un giorno per tutti noi, in cui non ci saranno più questioni sul tema “donna”, perché finché ci saranno questioni, qualcosa non funziona”. Era il 1938.
Siamo nel 2021 e la discussione è quanto mai attuale, nella società civile come nella Chiesa e credo che chiunque si interessi per lavoro o per studio al tema possa mettere il proprio pezzetto di competenza insieme ai pezzetti di tanti altri, per provare a delineare quadri comuni. Credo sia questo il significato di “fare il proprio mestiere”.
Sono ebraista e intrattengo un rapporto molto stretto ormai da 25 anni con la Bibbia, a mio vedere una straordinaria enciclopedia dell’umanità, capace di suscitare domande importanti sulla vita ancora oggi, a secoli di distanza dalla sua redazione. Per ragionare sul ruolo della donna nella società e nella Chiesa, forse sarebbe utile ripartire proprio dalla lettura del testo, eliminando le sovrastrutture e quella patina moralistica che produce solo un forte senso di inadeguatezza, oltre a inculcare idee fuorvianti e infine dannose.
Il testo biblico è molto chiaro: uomo e donna sono creati diversi (maschio e femmina), ma anche uguali per dignità e sono indispensabili l’uno all’altra, tant’è che Dio ordina all’uomo di lasciare la propria casa e di “incollarsi” alla donna (così in ebraico) per divenire una carne sola. Uomo e donna sono creati in relazione stretta, questa è la prima grande dichiarazione di quel testo che per molti ha un valore sacro ed è “Parola di Dio”.
Ma quel breve passaggio di Genesi è solo l’inizio di una lunga narrazione che si svolge sempre all’insegna della dualità. Come ha ben evidenziato la filosofa francese Éliane Amado Levy, la Bibbia è una storia di coppie e mai di singoli e basti citare qui alcuni esempi eclatanti: il generale Barak rifiuta di scendere in battaglia se al suo fianco non c’è la giudice Deborah, Mosè conduce il popolo fuori dall’Egitto con la guida di Miriam, Salomone sale sul trono grazie alla madre Betsabea e moltissimi altri sono gli episodi significativi.
Citare le donne e collocarle accanto all’uomo con uguale importanza, non significa fare una “lettura al femminile” della Bibbia come molti sostengono, ma semplicemente leggere quel che c’è scritto per intero e non al 50%.
La Bibbia non parla mai di uomini che procedono soli e mai una sola volta accenna a una superiorità maschile e/o a una condizione di sottomissione femminile. Quel testo, che per molti di noi è oggetto di ricerca negli ambiti più svariati e per moltissimi funge da punto di riferimento per la vita e anche per la fede, propone l’idea di una storia che si realizza nel “camminare a fianco” di uomo e donna, ciascuno con le proprie peculiarità.
Mi fa sorridere che alcuni colleghi sentendomi dire queste cose mi accusino di essere femminista, un po’ perché a quanto ne so non è un insulto né una colpa, un po’ perché molte donne mi accusano esattamente del contrario.
La verità è che non ho bisogno di etichette e il mio unico interesse come studiosa e come donna è ritrovare in quel testo elementi utili a intessere un discorso proficuo e costruttivo a più voci, in cui non ci sono parti che rivendicano nulla per sé, ma che si riconoscono nella reciprocità. Ed è questo, credo, il concetto fondamentale che corre come un filo nel testo biblico, perché è molto chiaro che senza reciprocità non si fa la storia. E senza reciprocità non si è adulti.
Questo credo sia lo spunto fondamentale da cui ripartire per rivedere i rapporti tra uomini e donne, innanzitutto dal punto di vista umano e antropologico, perché diversamente mi pare molto difficile poter imbastire qualsiasi discorso su ruoli e istituzione.
Relazionarsi con rispetto e nella reciprocità significa innanzitutto non decidere tra uomini cosa è meglio per le donne, ma chiedere loro cosa pensano, cosa desiderano e quali sono i talenti che possono mettere in campo. Relazionarsi con rispetto e nella reciprocità significa parlarsi guardandosi negli occhi, con la volontà reale di ascoltarsi e di venirsi incontro, per quanto difficile possa sembrare all’inizio. Siamo persone e non oggetti, abbiamo un cervello e una facoltà di parola, non siamo una questione da studiare e da gestire nel modo meno traumatico possibile.
Ci sono ancora troppi uomini che si esprimono sulle donne e sul rapporto con le donne senza averne alcuna esperienza concreta, per non parlare di quelli che con sguardo compiacente dicono “Eh, voi donne avete una marcia in più”. Classico esempio di razzismo al contrario, alla pari con “I neri hanno la musica nel sangue”, tanto per tirare in ballo la biologia che affascina il professor Barbero.
Questi atteggiamenti mentali, che ovviamente poi creano azioni concrete e generano stili di vita, fanno male a tutti, ma soprattutto a quegli uomini, che così facendo e pensando, si privano della ricchezza di un incontro all’insegna della libertà e non godono della bellezza di guardarsi con occhi puliti, senza farsi soffocare dalle gabbie che, ci tengo a ribadire, non hanno nulla a che vedere con la Bibbia, testo letterario o “Parola di Dio” che dir si voglia.