Ludwig Monti "GESÙ INSIDE OUT 2. Tristezza, paura, rabbia e disgusto"
Dossier
su “Le emozioni e i sentimenti di Gesù”, settembre 2021
Biblista
GESÙ INSIDE OUT
2. Tristezza, paura, rabbia e disgusto
L’umanità di
Gesù, narrazione del volto di Dio
Proseguendo
il nostro itinerario alla scoperta delle emozioni e dei sentimenti di Gesù, in
questo secondo contributo ci dedichiamo a quelle a prima vista percepite come
negative: tristezza, paura, rabbia e disgusto. In realtà si tratta di emozioni
ambivalenti, come vedremo.
Ci
introduciamo a questo percorso con una splendida apertura di orizzonte
disegnata da Bruno Maggioni:
L’umanità di Gesù è la “trasparenza” del volto di Dio,
non l’involucro che lo nasconde. I tratti umani di Gesù – la storia
concreta e precisa che egli ha vissuto, le sue scelte, i suoi comportamenti e i
suoi sentimenti – sono importanti non soltanto per conoscere l’uomo Gesù (in
altre parole, se così posso dire, il lato umano della sua persona divina), né
soltanto per conoscere il progetto di uomo che gli ci ha offerto, ma per
conoscere – e non è un paradosso – il lato divino della sua persona. Non basta
credere che Gesù è Messia e Figlio. Quale Messia? Quale Figlio? La novità del volto del Dio cristiano è
rivelata dall’umanità di Gesù. Su questo punto i primi cristiani non avevano
dubbi.
Tristezza
secondo Dio e secondo il mondo
La
tristezza è un sentimento ambivalente, come si legge in un passo di Paolo, avvio
di una lunga tradizione spirituale: “La tristezza secondo Dio produce un
pentimento irrevocabile che porta alla salvezza, mentre la tristezza secondo il
mondo procura morte” (2Cor 7,10). Non è un caso che questa seconda forma
di tristezza sia stata annoverata dalla tradizione cristiana orientale tra gli
otto “pensieri malvagi” (da cui discendono i sette “peccati capitali” della
tradizione occidentale): si tratta di quell’ombra che ci paralizza e ci
deprime, spegnendo poco per volta in noi la voglia di vivere.
D’altra
parte esiste anche una tristezza buona: quell’afflizione dovuta alla sofferenza per la propria lontananza da Dio, che può
condurre fino alla compunzione, al sentire il proprio cuore trafitto da Dio
stesso che ci invita a ritornare a lui. A tale proposito, una sana tristezza
può contenere tesori inattesi: ci insegna a riconoscere ciò che non è più ma un
tempo ci ha resi felici; ci aiuta a divenire consapevoli delle nostre colpe,
ammaestrandoci a discernere il bene dal male; ci rende umili, attestando che
nella vita ci manca qualcosa e, nel contempo, ci rende disponibili a incontri
non previsti, chiamandoci fuori dalla mortifera autosufficienza.
Quanto
a Gesù, la forma radicale di tristezza che egli ha sperimentato è stata quella della
notte del Getsemani, quando, “preso da paura e angoscia” (cf. Mc 14,33 e par.),
ha dovuto dare un senso alla sua fine ignominiosa. Egli ha lottato e vinto
quella tristezza mediante un pieno abbandono alla volontà del Padre (cf. Mc
14,36 e par.), riuscendo a intravedere nella passione ormai prossima una logica
di amore per Dio e per gli tutti gli umani. In tal modo ci ha insegnato che
solo quando si percepisce che
l’amore può essere la ragione del vivere e del morire, allora cessa la
tristezza e si fa strada la beatitudine, la gioia profonda, dono dello Spirito
santo (cf. Gal 5,22). Ma è interessante notare due particolari del racconto di
Luca, che testimoniano la radicalità di tale tristezza: Gesù, in agonia, cioè
nella lotta, è sconvolto così intensamente che il suo sudore assume la forma di
gocce di sangue; i tre discepoli, poco distanti da lui, quasi per contagio sono
“assopiti a causa della tristezza” (cf. Lc 22,44-45).
Commenta
con la solita intelligenza di fede Bruno Maggioni:
Gesù
non si è perso nella nostra tenebra, ma ha innalzato fino a sé la nostra
angoscia. Ecco una rivelazione inattesa e
capovolta: proprio questo uomo sbigottito è il Figlio di Dio. Non si è posti di
fronte a un uomo che si manifesta con la gloria di Dio (come nell’episodio
della trasfigurazione), ma a un Figlio di Dio che si manifesta nella debolezza
dell’uomo. Tuttavia anche nel Getsemani Gesù manifesta di essere Figlio. Non
però nei gesti della potenza, ma nel miracolo della obbedienza e della fede
nuda, che anche nell’angoscia più profonda riconosce la paternità di Dio,
invocandolo con confidente tenerezza: “Abbà”.
Lungo
tutta la sua vita Gesù ha sperimentato la tristezza anche di fronte al peccato
della “durezza di cuore” dei suoi interlocutori, soprattutto gli uomini religiosi
che lo avversavano e non lo comprendevano. Ma ci torneremo tra breve, poiché
tale sentimento si fonde con quello della giusta collera…
Infine,
Gesù ha manifestato la sua vulnerabilità anche mediante quel linguaggio più
eloquente di ogni parola che sono le lacrime. Come dimenticare che, alla
notizia della morte del suo caro amico Lazzaro, “Gesù scoppia in pianto”, tanto
che i presenti commentano: “Guarda come lo amava!” (Gv 11,35-36)? Non solo,
alla vista di Gerusalemme, subito dopo il suo trionfale ingresso messianico,
egli piange, lamentandosi del fatto che la città santa non abbia riconosciuto
l’ora della sua visita: venuto per portarle la pace, egli è stato rigettato e
crocifisso come un malfattore (cf. Lc 19,41-44).
Comprendiamo
dunque perché lo stesso Gesù abbia potuto coniare la paradossale beatitudine:
“Beati quelli che sono nel pianto, perché saranno consolati” (Mt 5,4); “Beati
voi, che ora piangete, perché riderete” (Lc 6,21). Si piange per la tristezza;
si piange per l’ingiusta sofferenza; si piange per i propri peccati. Lacrime
non inutili, ma raccolte da Dio in un otre (cf. Sal 56,9), perché lui stesso
nel Regno porrà
fine alla morte e a tutto ciò che contraddice la vita in pienezza, con un gesto
semplicissimo e così carico di amore: asciugherà le lacrime da
ogni volto (cf. Ap 21,4).
Perché avete
paura?
Stando
alla lettera dei vangeli, Gesù non ha mai propriamente sperimentato la paura (phobós/phobéomai, in greco). È ancora Maggioni
a venirci in aiuto, mettendo in evidenza come, sempre nell’ora del Getsemani,
si
parla dell’angoscia di Gesù. Marco utilizza due verbi che denotano l’emozione
più intensa possibile: ekthambéisthai
e ademonéin. Il primo ha come
significato base lo sbalordimento, che rende attoniti, impietriti e
sconcertati, come quando qualche cosa di terribile accade di colpo davanti agli
occhi; fissa soprattutto quel momento in cui per la sorpresa si resta come
impietriti, incapaci di reagire. Il secondo verbo denota uno stato di grande
ansietà, di irrequietezza e di angoscia. Smarrimento, angoscia e tristezza
mortale: questi i tre sentimenti di Gesù.
Pur
in preda a tale sgomento, Gesù non cede però alla paura.
Paura
che, certamente, in alcuni casi può anche essere positiva, perché denota il
giusto amore per sé e può essere il “carburante” del coraggio: per esempio, ci
induce spontaneamente a difenderci dai pericoli di morte, a sottrarci a chi
vuole compiere gesti violenti nei nostri confronti.
D’altra
parte, per tutte le Scritture la paura, in senso negativo, è la grande nemica
della fede/fiducia. Fin dal giardino dell’in-principio, quando Adamo, alla voce
di Dio che lo chiama nella brezza del giorno, chiedendogli: “Dove sei?” (Gen
3,9), risponde: “Ho avuto paura e mi sono nascosto” (Gen 3,10). Oltre ad avere
come destinatari alcuni volti sbagliati di Dio, la paura è anche, in ultima
analisi, paura della morte, definita da Giobbe “il re delle paure” (Gb 18,14).
Sì, la morte è alla radice di ogni paura. Per questo, in un passo straordinario
della Lettera agli Ebrei si legge che “Gesù mediante la sua morte ha ridotto
all’impotenza colui che della morte ha il potere, cioè il diavolo, e così ha
liberato quelli [noi!] che per paura della morte erano soggetti a schiavitù per
tutta la vita” (Eb 2,14-15).
Si
comprende in tal senso il suo monito rivolto a numerose persone incontrate sul
suo cammino: “Non avere paura, non abbiate paura!”. Eco delle stesse parole
tante volte indirizzate da Dio a coloro con i quali è entrato in relazione di
alleanza, da Abramo fino a Maria. L’atteggiamento di Gesù trova una sorta di
sintesi definitiva in quella pagina straordinaria che consiglio di meditare a
te che mi stai leggendo, chiunque tu sia e in qualsiasi momento della vita ti
trovi: la cosiddetta “tempesta sedata” (cf. Mc 4,35-41 e par.). Al suo vertice,
durante una notte difficile in cui in mezzo al mare la barca dei discepoli e di
Gesù è travolta dalla burrasca, di fronte all’urlo stizzito dei suoi amici: “Maestro,
non t’importa che siamo perduti?”, egli reagisce con due domande: “Perché avete
paura? Non avete ancora fede?”. Ciascuno mediti, comprenda, risponda nel suo
cuore…
Non
posso però esimermi dal notare come si concludeva la versione primitiva del
vangelo secondo Marco, quello più antico. Nell’alba del primo giorno della settimana
le donne discepole si recano al sepolcro per ungere il corpo di Gesù. Entrate
nella tomba ormai vuota, “videro un giovane, seduto sulla destra, vestito d’una
veste bianca, e furono prese dallo sgomento (verbo ekthambéomai)” (Mc 16,5). Sconvolte, le donne non sono in grado di
accogliere l’annuncio di questo giovinetto: “Non vi sgomentate (verbo ekthambéomai)! Voi cercate Gesù
Nazareno, il crocifisso. È risorto, non è qui. Ecco il luogo dove l’avevano
posto” (Mc 16,6), né il successivo invito a portare la buona notizia della
resurrezione a Pietro e agli altri discepoli (cf. Mc 16,7). No, “esse uscirono
e fuggirono via dal sepolcro, piene di spavento e di stupore. E non dissero
niente a nessuno, perché avevano paura (verbo phobéomai)” (Mc 16,8). Assordante silenzio, pietra tombale ben più
pesante di quella appena rimossa dall’ingresso del sepolcro…
Eccoci dunque di fronte alla domanda
seria: siamo in grado di sconfiggere con la fede la paura, o almeno di lottare
contro di essa? Ovvero: la nostra adesione fiduciosa a Gesù Cristo, vincitore
della morte, cambia qualcosa nella nostra vita? In
estrema sintesi, la lotta contro la paura ha come arma fondamentale ciò che è
più forte anche dei nostri dubbi e della nostra incredulità, l’amore. “Forte
come la morte è l’amore” (Ct 8,6), più forte della morte è stato l’amore
vissuto e insegnato da Gesù, il quale ci ha aperto la
strada per la vita eterna, in quella fiducia gioiosa, anche se a caro prezzo,
che niente e nessuno ci potrà rapire. Ogni giorno la sua voce mormora nel cuore di chi si dispone ad accoglierla: “Coraggio,
io sono la resurrezione e la vita, non avere
paura!” (cf. Mc 6,50; Gv 11,25).
Anche Gesù si
arrabbia
Anche
la rabbia, l’ira su cui si apre la letteratura occidentale (“Cantami, o dea,
l’ira del Pelide Achille”: Iliade
I,1), è un’emozione ambivalente. Può essere uno dei peccati capitali: la
collera che si nutre di risentimento, che cova dentro di sé come una rabbia
sorda, fino a manifestarsi attraverso lo scoppio di atti di terribile violenza,
volti a cancellare fisicamente l’altro. Più in profondità, il sentimento della
collera è un male quando diviene una presenza costante nei nostri rapporti con
gli altri; quando è il segno del disprezzo e dell’odio nei loro confronti. La
collera è in tal caso la negazione dell’altro; è la contraddizione per
eccellenza alla comunicazione e al dialogo; è il terreno su cui germina
l’aggressività e si sviluppa la violenza. Essa corrisponde allora all’atteggiamento
giudicato da Gesù alla stregua di un omicidio (cf. Mt 5,21-22).
Esiste
però anche una rabbia positiva, segno di quel giusto pathos che deve contraddistinguere il rapporto con gli altri e con
la realtà, lungi dalla mortifera indifferenza: quando teniamo a qualcuno, lo
manifestiamo anche adirandoci e litigando. Si tratta di una sorta di zelo, di
impeto positivo che è necessario manifestare di fronte al male,
all’ingiustizia, alla sofferenza delle vittime: è la collera “santa”, causata
dall’amore. In questo senso, la Bibbia ci descrive la collera dei profeti di
fronte allo stravolgimento del culto reso a Dio o di fronte all’ingiustizia
(cf. Es 32,15-24; Ger 25,14-38); in questo senso si possono intendere i “Guai!”
pronunciati da Gesù (cf. Mt 23,13-32: attenzione però, non si tratta di
maledizioni!) o la rabbia che lo spinge a scacciare con decisione i venditori
dal tempio (cf. Mc 11,15-19 e par.; Gv 2,13-17).
Ma
ci sono due situazioni paradigmatiche della “rabbia vitale” di Gesù. Anzitutto
l’ira con cui reagisce alla vista di un uomo affetto da lebbra (cf. Mc 1,41:
verbo orghízomai), malattia che a quei tempi costringeva a
una vera e propria segregazione sociale. Egli
va in collera ribellandosi contro il male, contro la situazione di intollerabile
schiavitù che mina la dignità della persona e rende come morto l’essere umano. Di
seguito purifica e guarisce quell’uomo (cf. Mc 1,42-46), ma non può non fremere
per l’ingiustizia della sua condizione, muta preghiera che sale al cospetto di
Dio.
D’altra
parte Gesù prova rabbia, a più riprese, per la “durezza di cuore” dei suoi
interlocutori, sentimento di chiusura a Dio e alla vita, in nome dei propri
schemi umani e religiosi. Così avviene nei confronti dei suoi discepoli, quando
scacciano i bambini dalla sua presenza, credendo di interpretare il suo volere
(cf. Mc 10,14). Ma soprattutto è il caso della rabbia verso alcuni uomini religiosi
che, chiusi nell’osservanza legalistica del precetto del sabato, non vorrebbero
che Gesù in sinagoga guarisse un uomo dalla mano paralizzata. Allora egli, “volge intorno lo sguardo
su di loro con rabbia (orghé), rattristato
(verbo syn-lupéomai) per la durezza del
loro cuore” (Mc 3,5). E accompagna questo sguardo con una domanda
semplicissima, che pure non cessa di metterci in questione:
“È lecito in giorno di sabato fare il bene o fare il male, salvare una
vita o ucciderla?”. Elementare, si direbbe. “Ma essi tacevano” (Mc 3,4).
Perché? Perché pongono la legge religiosa al di sopra del bene dell’essere
umano, della vita. Preferiscono mettere in cattiva luce Gesù piuttosto che
riconoscere che ha ragione, cioè mettere in discussione sé stessi. In fondo,
non riescono a fare spazio in sé all’alternativa secca prospettata da Gesù, per
loro inconcepibile: non fare il bene possibile in favore dell’altro, significa
ucciderlo!
Non
sarebbe dunque lecito arrabbiarsi di fronte a tale chiusura alla vita? Necessario,
più che lecito. È così che potremo assumere anche il dis-gusto di Gesù, la sua capacità
di reagire a ciò che è contrario al gusto, ossia allo stile di una vita
pienamente divina perché pienamente umana. Cammino affascinante, quello per
giungere ad “avere in noi gli stessi sentimenti di Cristo Gesù” (cf. Fil 2,5),
per tendere all’“uomo
compiuto, alla statura della pienezza di Cristo” (Ef 4,13): cammino che
ci chiede di assumere la coscienza dei suoi sentimenti, che sono anche i
nostri.
* * *
BIBLIOGRAFIA MINIMA
G.
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