Francesco Cosentino “Da questa crisi possiamo uscire migliori o peggiori” Quale Chiesa dopo la pandemia?
Lunedì 6 settembre
“Da questa crisi possiamo uscire migliori o peggiori” Quale Chiesa dopo la pandemia?
FRANCESCO COSENTINO – Docente di teologia fondamentale presso la Pontificia Università Gregoriana e la Pontificia Università Lateranense
La prima parte del
titolo di questo mio intervento riporta alcune parole importanti di Papa Francesco,
che ci aiutano a interpretare il momento storico che stiamo vivendo, ci offrono
cioè una chiave di lettura fondamentale per discernere la crisi invece che
subirla semplicemente. Era il 26 agosto del 2020 e Papa Francesco, durante
l’Udienza Generale, affermava a proposito della pandemia: “Noi stiamo vivendo una crisi. La pandemia ci ha messo tutti
in crisi. Ma ricordatevi: da una crisi non si può uscire uguali, o usciamo
migliori, o usciamo peggiori. Questa è la nostra opzione”.
Dunque, la crisi non è una catastrofe
da subire senza speranza, ma è un “luogo” fondamentale dell’esistenza umana in
cui siamo de-stabilizzati dalle nostre certezze, vengono messe sotto accusa le
nostre consuetudini e il nostro conformismo – anche ecclesiale – e siamo invitati
a prendere una decisione e a cambiare.
La crisi, allora, per quanto difficile e drammatica, è anche sempre
un’opportunità.
La pandemia è una crisi che è scoppiata
dalla città cinese di Wuhan. Il presidente americano John Kennedy una volta
disse che proprio nella lingua cinese la parola crisi è composta da due
caratteri: uno significa pericolo, l’altro significa opportunità. La prima cosa
cui siamo chiamati è questa: uno sguardo credente, uno sguardo “teologico”
sulla crisi, laddove teologico non significa una qualche speculazione astratta,
ma una lettura della crisi a partire da Dio e con lo sguardo di Dio. Non
possiamo semplicemente subire il destino che ci capita, dobbiamo affrontare
coraggiosamente la vita con tutti ciò che ci mette davanti e chiederci cosa Dio
ci sta dicendo e indicando, anche nella crisi.
La crisi, nella nostra vita,
semplicemente arrivano e, talvolta, come ha scritto la scrittrice francese
Christiane Singer, arrivano per evitarci il peggio, cioè per liberarci da una
vita senza passione e senza naufragi, che rimane in superficie e galleggia
nelle paludi della superficialità[1].
Senza crisi, infatti, non ci sono sfide. La vita diventa una stanca routine o
una lunga agonia della normalità, senza brezze, senza sussulti, senza domande,
senza quelle inquietudini che ci tirano fuori dalla zona di comfort e ci
spingono a cambiare, a trasformare la nostra vita.
1. Una
lettura “teologica” della crisi
Se proviamo a leggere così la crisi,
come un’occasione che a volte Dio stesso ci da per cambiare, allora siamo
portati a chiederci quale lezione, anche come Chiesa, possiamo imparare dalla
crisi scatenata dalla pandemia e quali opportunità percorrere per un nuovo annuncio
del Vangelo.
La pandemia ha sconvolto e messo in
crisi l’ordinaria attività ecclesiale e pastorale: le chiese chiuse al
pubblico, le Messe sospese, i sacramenti non celebrati, la presenza relazionale
e caritatevole attiva intorno alle comunità parrocchiali di fatto annullata.
Sorpresi e spiazzati da un eccesso di male, siamo stati costretti a fermarci[2].
Peraltro, le reazioni sono state contrastanti, anche nel mondo cattolico, visto
che qualcuno ha covato una certa riluttanza nei confronti dei provvedimenti
governativi ed episcopali. In tal senso, la pandemia è stato anche un momento
di grande «rivelazione», che ha portato alla luce alcune visioni di fondo del
nostro modo di essere cristiani e di organizzare l’agire pastorale ed
ecclesiale, mostrandone evidenti punti deboli.
In generale, però, la cosa che ci
interessa di più è la consapevolezza di come la crisi della pandemia e alcune
questioni liturgiche e pastorali emerse durante il lockdown, siano soltanto
delle spie, che rivelano una crisi ben più ampia e profonda, presente già da
tempo nel mondo occidentale. E ciò ci pone davanti ad sfide, per abbandonare
con coraggio un certo stile di cristianesimo e ricominciare a credere in modo nuovo[3].
La recente pandemia, secondo le
profetiche parole di Papa Francesco, ci ha fatto vedere come fino ad oggi
abbiamo creduto di essere sani in un mondo che in realtà era ammalato. La
scontata e presuntuosa fiducia riposta nel paradigma tecnico-scientifico è
venuta meno, la velocità del progresso e della modernità secolarizzata è stata
messa sotto accusa, gli squilibri e le ingiustizie sociali ed economiche che
feriscono il nostro pianeta sono emerse in tutta la loro drammaticità, la
società dei consumi imperniata su un capitalismo iniquo è stata definitivamente
messa sul banco degli imputati. Ma anche dal punto di vista spirituale ed
ecclesiale, la crisi ha rivelato quanto da tempo si fa strada nella relazione
tra l’annuncio della fede e le donne e gli uomini del nostro tempo: in fondo,
quelle chiese vuote sono state anche il simbolo di quanto accade e accadrà
sempre di più nella vecchia Europa e, perciò, una sfida che – come afferma il
teologo e filosofo ceco Tomáŝ Halik – viene direttamente da Dio[4].
Oggi,
in molte aree del mondo, assistiamo a un declino dell’esperienza cristiana, nelle
forme in cui l’abbiamo conosciuta e tramandata per secoli. Le nostre comunità
ecclesiali sono attraversate da una crisi profonda; molte persone faticano a
integrare la parola liberante del Vangelo nelle sfide quotidiane della loro
esistenza, col rischio che la potenza della fede si riduca alla debolezza di un
credere superficiale, puramente religioso o folkloristico; molte persone hanno
abbandonato la fede, non già in forza di un’idea e di un pensiero contrario e
ostile, ma per apatia e indifferenza alla domanda su Dio; altre persone si sono
comunque allontanate dalla Chiesa.
Tuttavia,
più importante della crisi è sempre la domanda su di essa. Come affermava il
Cardinal Martini, non ci viene chiesto di
non aspettarci questo tempo di crisi, ma, «piuttosto, ci è detto che è un tempo
provvidenziale, che è tempo di rivelazione del mistero di Dio, che è
apparizione di Cristo sulla via di Damasco»[5], in cui scoprire qual è il disegno misericordioso
di Dio nella situazione che viviamo.
La
crisi può essere un tempo provvidenziale, un invito a scoprire una nuova strada
nel deserto che viviamo, l’occasione per trovare una «buona notizia» anche nel mezzo del dolore. Come ha affermato Papa Francesco, «il tempo
della crisi è un tempo dello Spirito”, in cui i nostri occhi vedono una fine ma
in quella fine si manifesta un nuovo inizio: infatti, “sotto ogni crisi c’è
sempre una giusta esigenza di aggiornamento»[6]. Più
importante della crisi, dunque, è la domanda con cui ci poniamo dinanzi a essa.
Come stiamo davanti alla crisi? Qual è il messaggio che la crisi porta con sé?
Come Chiesa siamo chiamati a
chiederci: si è trattato di una parentesi nell’attesa che tutto ritorni come
prima oppure c’è una lezione da imparare? Come sta la nostra fede davanti alla crisi? Come sta la Chiesa davanti
alla crisi? Quali opportunità? Quale lezione imparare per la nostra
relazione con Dio, il nostro modo e stile di essere Chiesa, la nostra
spiritualità?[7]
Vorrei indicare tre grandi sfide,
all’interno delle quali ovviamente sono contemplate molte e diverse
declinazioni pastorali, su cui si può riflettere con creatività:
1. Ripartire da Dio, con uno sguardo
alle vittime;
2. Immaginare un nuovo modo di
essere Chiesa;
3. Risvegliare l’annuncio del
Vangelo e la spiritualità della vita quotidiana
2.
Ripartire da Dio, con uno sguardo alle vittime
Una prima questione, di natura
strettamente teologica, riguarda la
stessa domanda su Dio. Un tempo di crisi – come quello della pandemia –
certamente può essere provvidenziale anche nella misura in cui fa emergere il
bisogno di spiritualità, risvegliando la questione di Dio; allo stesso tempo,
però, la crisi, poiché ci rende instabili e semina spesso angosce e paure
dentro di noi, può essere rischiosa: dobbiamo cioè chiederci «di
quale Dio stiamo parlando» e, cioè, verificare se il Dio cercato,
pregato o semplicemente nominato, sia davvero il Dio di Gesù Cristo.
Ciò che è emerso nella pandemia
riguarda quel rischio costante che accompagna il cristianesimo, cioè la
possibilità di coltivare una falsa e idolatrica immagine di Dio: dal Dio che
dovrebbe risolvere il problema sanitario dall’alto e con un evento straordinario,
al Dio addirittura additato come responsabile della sciagura, magari per
lanciarci un avvertimento se non proprio per punirci a causa del nostro
peccato. Appare evidente che siamo in presenza di una vera e propria blasfemia
del volto e del nome di Dio.
Come pensare e nominare Dio nel tempo della
pandemia, allora? La domanda su Dio va situata sempre nel contesto reale,
esistenziale e culturale in cui è possibile il darsi e il dirsi della fede. Il
nostro contesto è segnato dalla pandemia e, perciò, non potremo fare a meno,
come accadde per la riflessione teologica dopo Auschwitz, di mettere in
connessione la fede cristiana in Dio con la sofferenza, la morte, la fragilità
psicologica e le angosce generate dall’evento pandemico. Tra Dio e le vittime del
Covid – e vittime lo siamo tutti, magari economicamente o psicologicamente –
occorre stabilire una connessione. Bisogna parlare di Dio a partire dai
sofferenti e dagli oppressi, coltivando quella che il teologo tedesco Metz
chiamava la «mistica dagli occhi aperti»[8]: non una
religione ascetica fine a se stessa, una religione intimista e consolante, una
religione che fugge dal mondo, ma, al contrario, l’accoglienza del mistero di
Cristo crocifisso e risorto che diventa nella nostra vita una «memoria
pericolosa» che si riattualizza: attraverso la stessa compassione di Gesù noi
rendiamo attuale l’azione “pericolosa” del Cristo, che sovverte il sistema del
male e ci libera da esso.
Metz affermava che davanti a chi
soffre, non siamo noi a dover prendere per primi la parola, ma le vittime.
Questo significa certamente, da un punto di vista pastorale, una maggiore disponibilità all’ascolto delle
persone e uno stile di Chiesa ospitale, dove le persone si sentono realmente
accolte non in modo formale, ma perché possono trovare spazi di ascolto e
incontro, in cui possono anche raccontare e raccontarsi. Ma, ancor più,
significa rinnovare i nostri linguaggi teologici e pastorali – penso anche alla
catechesi e all’omiletica – perché parlare di Dio dopo il Covid non potrà
significare dispensare qualche frase o preghiera consolatoria, ma assumere
tutto il dramma e la fatica della domanda di Gesù sulla Croce e cioè chiederci
nuovamente e in modo nuovo: come sta il nostro dolore davanti a Dio? Perché
l’amore di Dio ci lascia soffrire?
Si tratta di un passaggio
fondamentale perché il rischio che emergano immagini parziali e perfino
distorte di Dio è sempre in agguato. David Neuhaus ne ha parlato in modo
approfondito su La Civiltà Cattolica,
stigmatizzando i molti profeti di sventura che estrapolano versetti biblici
per proclamare che la pandemia
che stiamo vivendo è una punizione di Dio adirato contro un mondo peccatore.
Essi citano versetti contro qualsiasi cosa urti la loro sensibilità e
infieriscono a colpi di Scritture su un’umanità già ferita e sanguinante.
Talvolta sembra quasi di avvertire la soddisfazione con cui citano passi che
descrivono piaghe e catastrofi scagliate da un Dio permaloso su un mondo che ha
bisogno di essere punito. Sullo stesso palcoscenico, accanto a questi sedicenti
profeti animati dall’ira divina, si stagliano i moralisti del «te l’avevo
detto», che a loro volta hanno setacciato le Scritture in cerca di testi che
consentano di predicare con autorità le loro convinzioni circa ciò che è giusto
a un mondo che finalmente dovrà riconoscere che la loro è davvero la ricetta
per un domani migliore[9].
Dunque, la crisi mette in crisi Dio stesso, cosicché – come affermava
Meister Eckart – ci liberiamo di Lui per ritrovarlo in modo totalmente nuovo.
In tal senso, la crisi è un’opportunità: ci offre l’occasione di liberarci di
un Dio pre-moderno, che pur avendoci redento nel sangue del Figlio, adesso
punirebbe i suoi figli con un castigo per farli redimere; oppure un Dio che,
pur avendo viscere di compassione per la nostra sofferenza, rimane chiuso nella
sua impassibilità e indifferenza mentre il mondo soffre per una pandemia.
Questa è l’occasione per guardare a Gesù, che ci mostra il Dio dell’amore, che
non castiga né invia flagelli, ma ci ama fino a condividere, portare e
trasformare il nostro dolore.
Guardando alla Croce di Cristo
possiamo invece riscoprire il volto di Dio da annunciare e da tradurre poi
nello stile di Chiesa e nella pratica pastorale: il Dio che sta dalla parte della sconfitta, per risanare
i loro cuori spezzati; il Dio compassionevole che si commuove, raccoglie le
lacrime, scende nella storia per farsi offerta di liberazione, si lascia ferire
e toccare dal nostro dolore, fino ad assumere in sé la contraddizione della
morte[10]. Il Dio
crocifisso, che nella carne di Gesù inaugura una storia nuova in mezzo alla
storia di sofferenze di un mondo abbandonato[11], e chiama
anche noi a porre nel mondo segni di liberazione e giustizia.
Oggi siamo dinanzi a una nuova
possibilità, per riscoprire a partire da Gesù
Un Dio amico e amante,
innamorato “fino all’estremo” di ogni essere, servitore umile delle sue
creature […] Un Dio che non sta in nessuna religione né Chiesa perché abita il
cuore in ogni cuore umano e accompagna ogni essere nella sua disgrazia; un Dio
che soffre nella carne degli affamati e miserabili della terra; un Dio che ama
il corpo e l’anima, la felicità e il sesso; un Dio che sta con noi per “cercare
e salvare” ciò che noi roviniamo e mandiamo all’aria […] Un Dio che libera
dalle paure e vuole da adesso la pace e la felicità per tutti […] Un Dio di cui
uno si possa innamorare[12].
3.
Immaginare un nuovo modo di essere Chiesa
La
recente pandemia ha rivelato non pochi aspetti della nostra vita ecclesiale, su
cui non possiamo più permetterci di soprassedere.
Anche
se l’analisi non è esaustiva, in generale si può dire che la situazione
generata dal Covid 19 ha in qualche modo smascherato una debolezza strutturale
e anche una povertà spirituale che presiede alla nostra azione pastorale. È
emerso come la comunità cristiana, una volta interrotta l’esperienza delle
attività ordinarie, sia stata assalita dall’incapacità di pensare e immaginare
altro.
A
livello di esperienza ecclesiale, schematicamente sai possono evidenziare tre
cose, che sono ovviamente suscettibili di più ampie riflessioni.
La
prima è l’idea o l’immagine che ancora, quasi come di sottofondo, sostiene il
nostro modo di essere e di pensare la Chiesa, cioè l’idea che la Chiesa sia una super-potenza accanto
alle altre potenze mondane e politiche. Perciò, nonostante l’aggressività del
virus e il numero di contagiati e vittime, è andata crescendo in alcuni settori
una certa reazione alla decisione di sospendere le celebrazioni; alcuni hanno
parlato di sottomissione dei Vescovi e della Chiesa alla scienza e alla
politica o, addirittura, di limitazione della libertà di culto. C’è qui un’idea
di Chiesa intesa come una realtà “politica” che deve dimostrare e difendere il
proprio culto, la propria rilevanza e libertà, senza tener conto di ciò che
accade attorno, si trattasse anche di una pandemia.
La
seconda riguarda il modo in cui in questo tempo di sospensione e smarrimento
abbiamo vissuto la liturgia e in generale l’azione pastorale, scivolando nella
tentazione di concepire una Chiesa-spettacolo.
Enzo Biemmi ha giustamente affermato:
anche noi Chiesa, dopo essere
“andati avanti a tutta velocità, sentendoci forti e capaci in tutto”, siamo
stati obbligati a fermarci, a stare in casa, a sospendere le attività che tanto
ci hanno coinvolto e appassionato. E come abbiamo reagito? Ci ha preso l’ansia
della spogliazione. Quel vuoto è diventato insopportabile. Nei nostri ambienti
ecclesiali si è parlato spesso di «clausura forzata» e raramente di «tempo di
grazia» […] La reazione istintiva è stata quella di riempire. Siamo passati dall’ansia
di un’agenda troppo piena all’angoscia di un’agenda improvvisamente vuota.
Abbiamo cercato subito di tappare ogni fessura sostituendo alle attività in
diretta quelle in streaming e sui
social[13]
Presi
dall’ansia del vuoto, abbiamo dovuto riempirlo in diretta su streaming e sui
social e, accanto a proposte buone, inevitabilmente non sono mancati esempi di
spettacolarizzazione della liturgia e proposte pastorali in cui al centro c’era
sempre e solo il prete. Si è considerato
imprescindibile celebrare la Messa e, perciò, la si è fatta anche in streaming,
a prescindere dalla presenza del Popolo di Dio: il prete ha celebrato e il
popolo di Dio ha “assistito” davanti a
uno schermo. Ciò ha rispolverato l’idea della Messa come culto individuale e
privato, come atto del prete, come rito ancorato alla spiritualità tridentina,
con al centro il prete.
Se
allarghiamo la riflessione in generale sull’agire pastorale e sulla vita delle
comunità cristiane – ecco la terza questione – bisognerebbe riflettere su
quella che Papa Francesco, in Evangelii
gaudium ha chiamato il predominio della sacramentalizzazione sulle altre
forme di evangelizzazione. Nonostante i proclami, al centro non c’è ancora
l’annuncio del Vangelo e una nuova iniziazione alla Parola di Dio e alla
preghiera, ma la preoccupazione sulla data delle prime comunioni e sulla ripresa
degli orari delle Messe.
Abbiamo allora assistito a una
certa povertà spirituale, che ha rivelato come alla fine, tutta l’esperienza
liturgica e pastorale sia stata ridotta alla sola celebrazione della Messa,
trascurando altri elementi della ricca tradizione cristiana, altrettanto
importanti e forse, soprattutto oggi, propedeutici alla celebrazione dei
sacramenti.
Eppure,
nel tempo della pandemia sono nate interessanti sperimentazioni di preghiera in
famiglia, di liturgie della Parola
celebrate a casa, di celebrazioni domestiche preparate e
vissute con tanto di segni e di sussidi. Abbiamo vissuto la Pasqua nelle case,
in spazi liturgici e spirituali familiari e domestici. Per la prima volta, insomma,
finalmente la Chiesa è stata davvero “in uscita”: non si è potuti andare in
Chiesa, ma la Chiesa si è fatta spazio nelle case, è rifiorita nello spezzare
un pane azzimo appena sfornato mentre gli edifici di pietra erano chiusi, si è
manifestata come popolo sacerdotale dei battezzati mentre taceva la voce dei
preti, è apparsa lì dove dovrebbe essere sempre, cioè nella vita concreta della
gente e nelle loro case.
Questo
può insegnarci qualcosa e cambiare qualcosa. Ma chiediamoci: abbiamo educato il
Popolo di Dio all’ascolto della Parola di Dio? A pregare nella vita quotidiana?
A saper celebrare con la vita quella Messa che – come spesso pure diciamo nelle
prediche – inizia e si celebra nei travagli dell’esistenza e di ogni situazione
umana?
Tali interrogativi, oggi più che mai,
vanno affrontati:
chiediamoci: ed ora,
saremo migliori a messa? Dipende anche da come noi, vescovi e preti, ce la
giocheremo: se ci troveremo a celebrare come prima, se la nostra pastorale sarà
di nuovo solo la messa e non avremo imparato che bisogna offrire lectio sulla
Parola, momenti di riflessione comune e di confronto tra gli adulti, sostegno
alla fede nelle case…allora ce la giocheremo malissimo e condurremo la gente
alla fede devozionale, individuale, formale, astratta. E anche spesso triste[14].
4. Una nuova spiritualità e un nuovo
annuncio del Vangelo
Infine, si
può convenire sul fatto che il tempo sospeso e drammatico della pandemia ha anche
fatto emergere l’esigenza di una nuova spiritualità, in un tempo in cui i
sentieri e le forme tradizionali del vivere la fede in Occidente sono
profondamente in crisi.
Talvolta, rischiamo di abbracciare
la fede non per armarci di coraggio dinanzi alle sfide della vita, ma per
disarmare noi stessi, per cercare di placare le nostre angosce e di spegnere le
nostre paure. E di certo, la recente pandemia, che in qualche modo simboleggia
e sintetizza altre nostre crisi, ci chiede di fermarci a riflettere anche sul
significato della spiritualità cristiana, perché essa non venga scambiata per
una falsa pace che spegne le domande e le inquietudini.
Al contrario, il diffuso sentimento
di angoscia e di paura collettiva generato dalla pandemia, oltre naturalmente
al dolore fisico che ha procurato, ci invita a riconsiderare il cuore della
spiritualità cristiana come quella relazione fragile e carnale col Dio che in
Gesù si è fatto carne e, perciò, non già come una spiritualità che si risolve
in un sistema rigido di norme e precetti o in devozioni «celesti» staccate dalla storia, bensì in
una spiritualità della vita quotidiana, impregnata di domande, travagli,
angosce, sogni e speranze che ciascuno si porta nel cuore. Si tratta di una
spiritualità che si fa strada nella vita feriale, che avanza senza fare
rumore, nelle occasioni silenziose e anonime del vivere di ogni giorni, in
luoghi che non sono templi, in parole che non sono preghiere e in situazioni
che non sono eventi religiosi; sono quelle che Rahner definiva le «piccole, umili ed
evanescenti realtà della vita quotidiana»[15] nelle quali Dio si rivela
e ci parla e noi possiamo incontrarlo non nei grandi ideali religiosi, ma nei
frammenti delle nostre giornate e della nostra povera carne.
La pandemia – suo malgrado – ci invita a uscire dalle vecchie
forme di un vecchio cattolicesimo; più che la ripetizione di gesti
liturgico-sacramentali via streaming, che in certi casi possono apparire come
un surrogato grazie al quale si propongono le cose di sempre in un tempo
eccezionale, ritengo non siano da trascurare le altre iniziative pastorali che
hanno aiutato le persone a ritrovarsi nella preghiera, nell’ascolto della
Parola e nello spezzare il pane, incoraggiandole a diventare esse stesse
protagoniste consapevoli di questa esperienza. Abbiamo assistito a una
rinascita della Chiesa domestica che, forse, non andrebbe archiviata come
esperienza di passaggio dovuta all’emergenza pandemica; un esempio è stata la
preparazione della Veglia Pasquale in alcune famiglie, che hanno apparecchiato
la tavola in modo particolare, hanno acceso un cero, hanno collocato una
bacinella d’acqua vicino a una Bibbia aperta: veri e propri rituali attraverso
cui le persone, nelle loro case, hanno celebrato il passaggio di Dio nella
notte della vita e del mondo come fecero gli israeliti in quella notte in cui,
coi calzari ai piedi e il bastone in mano, si preparavano a uscire dalla terra
d’Egitto.
Per la prima volta, dopo anni di
diagnosi sulla crisi della fede, si è sperimentata la possibilità di altre
pratiche cristiane, oltre lo schema classico della pratica religiosa. Non
diciamo che la pratica non sia importante e necessaria, ma che per molte
persone di oggi abbiamo bisogno anche di altre vie, più creative e più legate
all’esperienza della vita, in cui esse possano almeno stabilire un contatto con
Dio e aprirsi alla vita spirituale. Queste stesse persone non sono sollecitate
se la nostra proposta si limita solo alle classiche attività che svolgiamo in
parrocchia.
La sfida che ci
attende è avvincente: invece di interpretare questa situazione come dettata
dall’emergenza, potremmo leggerla con intelligenza pastorale. Tutto ciò non
nasce spontaneamente, soprattutto considerando la seria situazione di crisi
della fede che imperversa nell’Occidente ormai da decenni. C’è bisogno di un
rinnovato annuncio del Vangelo per rendere possibile il messaggio cristiano in un’epoca
post-cristiana, oltre ogni irrilevanza. Di questa irrilevanza del nostro
linguaggio cristiano ha parlato Paul Tillich:
L’impossibilità della
persona moderna di comprendere il linguaggio della tradizione riguarda quasi
tutti i simboli cristiani. Essi hanno perso il potere di trafiggere l’anima: di
rendere inquieti, ansiosi, disperati, gioiosi, estatici, recettivi nei
confronti del significato. Spicca l’esempio del Gesù dalla voce flautata, emaciato,
sentimentale, la cui immagine è appesa nelle aule del catechismo e alle pareti
laterali delle chiese, Questo Gesù sentimentale non ha nulla da dire ai forti
della nostra epoca[16].
Non si tratta di un semplice
aggiornamento nella comunicazione, ma di rimettere al centro – come auspicato
da Papa Francesco – l’annuncio del Vangelo. Dobbiamo avere il coraggio di
lasciare andare molte altre cose nella nostra azione pastorale, per ritornare
ad annunciare con passione il Vangelo, concentrando tutte le energie per un
rinnovato annuncio della Parola e, soprattutto, per cercare di mettere le
persone a contatto con la figura di Gesù, uomo libero, appassionato, critico,
solidale. Per qualche tempo – è una provocazione – sospendere tutte le attività
pastorali e fare in modo che dai bambini agli anziani tutti possano dedicarsi,
nella preghiera e nello studio, al Vangelo. Bisogna ripartire dal Vangelo,
perché le persone anche oggi siano nuovamente raggiunte dalla freschezza
sorprendente dell’annuncio cristiano.
Conclusione
Concludendo, si può dire che la crisi può essere un’occasione importante per interrogarci
nuovamente sulle false concezioni di Dio che ancora presiedono alcuni nostri
discorsi e su un certo mondo devozionale attorno al quale giriamo. È al
contempo un’occasione per ripensare i linguaggi dell’annuncio. Sarà anche
un’occasione positiva per uscire da una
concezione pastorale, liturgica e più in generale spirituale, fondata
esclusivamente sulla celebrazione della Messa e, per di più, in una visione
tridentina che pone il prete al vertice. Al contempo, si può riflettere su
come, a fronte di numerose e spesso poco curate celebrazioni eucaristiche, ci
sia ancora poco spazio per l’annuncio, l’evangelizzazione, le altre forme della
preghiera cristiana, la centralità della Parola di Dio, la lectio divina.
Si può e forse si deve anche riflettere sulle tante possibilità
che l’uso dei social possono offrire all’annuncio del Vangelo e all’agire
pastorale, non però intendendo i social media come sostituzione di comodo nei
casi di emergenza, ma come vie e strumenti da abitare.
La pandemia ci ha anche fatto vedere una rinascita della Chiesa
domestica. Sono nate interessanti esperienze di preghiera in famiglia, liturgie
della Parola celebrate
nelle case, celebrazioni domestiche preparate e vissute con semplicità e
familiarità. Una Chiesa con al centro i battezzati. Una Chiesa viva laddove la gente
vive, cioè nelle case.
Tutto ciò impegna l’immaginazione pastorale ed ecclesiale perché
la pandemia sia una lezione da cui uscire cambiati anche come Chiesa, e non ci
si limiti a restare prigionieri del «si è sempre fatto così».
In tal
senso, la crisi attuale potrebbe anche
rappresentare un nuovo inizio. Non ci sembra fuori luogo riprendere
l’interrogativo che, anni fa, si pose il teologo canadese Tillard:
Siamo gli ultimi cristiani?
Una cosa è certa. Noi siamo inesorabilmente gli ultimi testimoni di un certo
modo di essere cristiani, cattolici. Coinvolti nelle grandi mutazioni delle
società umane in cui esse si incarnano, le chiese locali sono destinate
inevitabilmente a mutare il loro volto e già si vanno delineando certi tratti
nuovi. Non occorre essere profeti per immaginare che, in comunità cristiane
necessariamente ridotte, le relazioni tra ministri e laici non saranno più le
stesse, con un conseguente impatto profondo sulle forme stesse del ministero.
Si può anche prevedere, senza grosso rischio d’errore, che si cercherà di
recuperare (in modalità rinnovate) l’osmosi tra l’impegno in compiti civili
importanti e la testimonianza esplicita resa a Cristo. Perché sarà necessario
parlare di Cristo non solo dall’alto della cattedra […] In un mondo sempre più
laico, almeno in occidente, la chiese ridotte in piccoli resti di credenti convinti e praticanti la loro fede
saranno probabilmente indotte, dalla forza delle cose, a raccogliersi attorno
all’essenziale[17].
E alla domanda se siamo davvero gli
ultimi cristiani, Tillard rispondeva ancora: «Siamo
certamente gli ultimi di tutto uno stile di cristianesimo»[18].
Dobbiamo accogliere e salutare la
fine di un certo stile di cristianesimo, perché esso non soffochi quella nuova
figura di cristianesimo che lo Spirito Santo sta facendo germogliare già qui e
ora.
[1]C. Singer, Du bon
usage des crises, Albin Michel, Paris 1996, 41.
[2] Cfr. D. Albarello,
«Cattolici in diaspora. Tre variazioni pandemiche sul tema dell’uscire», in D. Olivero (a cura di), Non è una
parentesi. Una rete di complici per assetati di novità, Effatà, Padova
2020, 97.
[3]
Si possono leggere con frutto le interessanti analisi di A. Fossion, Il Dio desiderabile,
EDB, Bologna 2011; Id., Ri-cominciare
a credere, EDB, Bologna 2004.
[4]
T. Halík, Il segno delle
Chiese vuote. Per una ripartenza del cristianesimo, Vita e pensiero, Milano
2020, 9.
[5]
C.M. Martini, Le confessioni
di Paolo, Àncora, Milano 1982, pp. 73.
[6]
Papa Francesco, Discorso del Santo
Padre ai Membri del Collegio Cardinalizio e alla Curia Romana, per la
presentazione degli auguri natalizi, 21 dicembre 2020.
[7] Ho ampiamente
trattato il tema nel mio ultimo libro, cfr. F.
Cosentino, Quando finisce la notte.
Credere dopo la crisi, Dehoniane, Bologna 2021.
[8] Cfr. J. B. Metz, Mistica dagli occhi aperti. Per una spiritualità concreta e
responsabile, Queriniana, Brescia 2013.
[9] D. Neuhaus,
«Il virus è una punizione di Dio?», in La
Civiltà Cattolica, Vol II, Anno 2020, 238.
[10]
Cfr. S. Dianich, Il
Messia sconfitto. L’enigma della morte di Gesù, Cittadella, Assisi 1997.
[11] Cfr. J. Moltmann, Il Dio crocifisso, Queriniana, Brescia 2013, 195.
[12] J. A. Pagola, Annunciare Dio come buona notizia, EDB, Bologna
2017, 37.
[13] E. Biemmi,
«Non è una parentesi? Metafore per non dimenticare», in D. Olivero (a cura di), Non è una parentesi. Una rete di
complici per assetati di novità, 4-5.
[14]
D. Olivero, «Non è una parentesi», in Id., (a cura di), Non
è una parentesi. Una rete di complici per assetati di novità, 27.
[15] K. Rahner, Cose
di ogni giorno, Queriniana, Brescia 1966, 11.
[16] P. Tillich,
L’irrilevanza e la rilevanza del
messaggio cristiano per l’umanità di oggi, Queriniana, Brescia 2021, 51-52.
[17] J.-M.R.Tillard, Siamo gli ultimi
cristiani? Lettera ai cristiani del Duemila, Queriniana, Brescia 1999,
17-19.
[18] Ivi, 33.
Dunque, la crisi non è una catastrofe
da subire senza speranza, ma è un “luogo” fondamentale dell’esistenza umana in
cui siamo de-stabilizzati dalle nostre certezze, vengono messe sotto accusa le
nostre consuetudini e il nostro conformismo – anche ecclesiale – e siamo invitati
a prendere una decisione e a cambiare.
La crisi, allora, per quanto difficile e drammatica, è anche sempre
un’opportunità.
La pandemia è una crisi che è scoppiata
dalla città cinese di Wuhan. Il presidente americano John Kennedy una volta
disse che proprio nella lingua cinese la parola crisi è composta da due
caratteri: uno significa pericolo, l’altro significa opportunità. La prima cosa
cui siamo chiamati è questa: uno sguardo credente, uno sguardo “teologico”
sulla crisi, laddove teologico non significa una qualche speculazione astratta,
ma una lettura della crisi a partire da Dio e con lo sguardo di Dio. Non
possiamo semplicemente subire il destino che ci capita, dobbiamo affrontare
coraggiosamente la vita con tutti ciò che ci mette davanti e chiederci cosa Dio
ci sta dicendo e indicando, anche nella crisi.
La crisi, nella nostra vita,
semplicemente arrivano e, talvolta, come ha scritto la scrittrice francese
Christiane Singer, arrivano per evitarci il peggio, cioè per liberarci da una
vita senza passione e senza naufragi, che rimane in superficie e galleggia
nelle paludi della superficialità[1].
Senza crisi, infatti, non ci sono sfide. La vita diventa una stanca routine o
una lunga agonia della normalità, senza brezze, senza sussulti, senza domande,
senza quelle inquietudini che ci tirano fuori dalla zona di comfort e ci
spingono a cambiare, a trasformare la nostra vita.
1. Una
lettura “teologica” della crisi
Se proviamo a leggere così la crisi,
come un’occasione che a volte Dio stesso ci da per cambiare, allora siamo
portati a chiederci quale lezione, anche come Chiesa, possiamo imparare dalla
crisi scatenata dalla pandemia e quali opportunità percorrere per un nuovo annuncio
del Vangelo.
La pandemia ha sconvolto e messo in
crisi l’ordinaria attività ecclesiale e pastorale: le chiese chiuse al
pubblico, le Messe sospese, i sacramenti non celebrati, la presenza relazionale
e caritatevole attiva intorno alle comunità parrocchiali di fatto annullata.
Sorpresi e spiazzati da un eccesso di male, siamo stati costretti a fermarci[2].
Peraltro, le reazioni sono state contrastanti, anche nel mondo cattolico, visto
che qualcuno ha covato una certa riluttanza nei confronti dei provvedimenti
governativi ed episcopali. In tal senso, la pandemia è stato anche un momento
di grande «rivelazione», che ha portato alla luce alcune visioni di fondo del
nostro modo di essere cristiani e di organizzare l’agire pastorale ed
ecclesiale, mostrandone evidenti punti deboli.
In generale, però, la cosa che ci
interessa di più è la consapevolezza di come la crisi della pandemia e alcune
questioni liturgiche e pastorali emerse durante il lockdown, siano soltanto
delle spie, che rivelano una crisi ben più ampia e profonda, presente già da
tempo nel mondo occidentale. E ciò ci pone davanti ad sfide, per abbandonare
con coraggio un certo stile di cristianesimo e ricominciare a credere in modo nuovo[3].
La recente pandemia, secondo le
profetiche parole di Papa Francesco, ci ha fatto vedere come fino ad oggi
abbiamo creduto di essere sani in un mondo che in realtà era ammalato. La
scontata e presuntuosa fiducia riposta nel paradigma tecnico-scientifico è
venuta meno, la velocità del progresso e della modernità secolarizzata è stata
messa sotto accusa, gli squilibri e le ingiustizie sociali ed economiche che
feriscono il nostro pianeta sono emerse in tutta la loro drammaticità, la
società dei consumi imperniata su un capitalismo iniquo è stata definitivamente
messa sul banco degli imputati. Ma anche dal punto di vista spirituale ed
ecclesiale, la crisi ha rivelato quanto da tempo si fa strada nella relazione
tra l’annuncio della fede e le donne e gli uomini del nostro tempo: in fondo,
quelle chiese vuote sono state anche il simbolo di quanto accade e accadrà
sempre di più nella vecchia Europa e, perciò, una sfida che – come afferma il
teologo e filosofo ceco Tomáŝ Halik – viene direttamente da Dio[4].
Oggi,
in molte aree del mondo, assistiamo a un declino dell’esperienza cristiana, nelle
forme in cui l’abbiamo conosciuta e tramandata per secoli. Le nostre comunità
ecclesiali sono attraversate da una crisi profonda; molte persone faticano a
integrare la parola liberante del Vangelo nelle sfide quotidiane della loro
esistenza, col rischio che la potenza della fede si riduca alla debolezza di un
credere superficiale, puramente religioso o folkloristico; molte persone hanno
abbandonato la fede, non già in forza di un’idea e di un pensiero contrario e
ostile, ma per apatia e indifferenza alla domanda su Dio; altre persone si sono
comunque allontanate dalla Chiesa.
Tuttavia,
più importante della crisi è sempre la domanda su di essa. Come affermava il
Cardinal Martini, non ci viene chiesto di
non aspettarci questo tempo di crisi, ma, «piuttosto, ci è detto che è un tempo
provvidenziale, che è tempo di rivelazione del mistero di Dio, che è
apparizione di Cristo sulla via di Damasco»[5], in cui scoprire qual è il disegno misericordioso
di Dio nella situazione che viviamo.
La
crisi può essere un tempo provvidenziale, un invito a scoprire una nuova strada
nel deserto che viviamo, l’occasione per trovare una «buona notizia» anche nel mezzo del dolore. Come ha affermato Papa Francesco, «il tempo
della crisi è un tempo dello Spirito”, in cui i nostri occhi vedono una fine ma
in quella fine si manifesta un nuovo inizio: infatti, “sotto ogni crisi c’è
sempre una giusta esigenza di aggiornamento»[6]. Più
importante della crisi, dunque, è la domanda con cui ci poniamo dinanzi a essa.
Come stiamo davanti alla crisi? Qual è il messaggio che la crisi porta con sé?
Come Chiesa siamo chiamati a
chiederci: si è trattato di una parentesi nell’attesa che tutto ritorni come
prima oppure c’è una lezione da imparare? Come sta la nostra fede davanti alla crisi? Come sta la Chiesa davanti
alla crisi? Quali opportunità? Quale lezione imparare per la nostra
relazione con Dio, il nostro modo e stile di essere Chiesa, la nostra
spiritualità?[7]
Vorrei indicare tre grandi sfide,
all’interno delle quali ovviamente sono contemplate molte e diverse
declinazioni pastorali, su cui si può riflettere con creatività:
1. Ripartire da Dio, con uno sguardo
alle vittime;
2. Immaginare un nuovo modo di
essere Chiesa;
3. Risvegliare l’annuncio del
Vangelo e la spiritualità della vita quotidiana
2.
Ripartire da Dio, con uno sguardo alle vittime
Una prima questione, di natura
strettamente teologica, riguarda la
stessa domanda su Dio. Un tempo di crisi – come quello della pandemia –
certamente può essere provvidenziale anche nella misura in cui fa emergere il
bisogno di spiritualità, risvegliando la questione di Dio; allo stesso tempo,
però, la crisi, poiché ci rende instabili e semina spesso angosce e paure
dentro di noi, può essere rischiosa: dobbiamo cioè chiederci «di
quale Dio stiamo parlando» e, cioè, verificare se il Dio cercato,
pregato o semplicemente nominato, sia davvero il Dio di Gesù Cristo.
Ciò che è emerso nella pandemia
riguarda quel rischio costante che accompagna il cristianesimo, cioè la
possibilità di coltivare una falsa e idolatrica immagine di Dio: dal Dio che
dovrebbe risolvere il problema sanitario dall’alto e con un evento straordinario,
al Dio addirittura additato come responsabile della sciagura, magari per
lanciarci un avvertimento se non proprio per punirci a causa del nostro
peccato. Appare evidente che siamo in presenza di una vera e propria blasfemia
del volto e del nome di Dio.
Come pensare e nominare Dio nel tempo della
pandemia, allora? La domanda su Dio va situata sempre nel contesto reale,
esistenziale e culturale in cui è possibile il darsi e il dirsi della fede. Il
nostro contesto è segnato dalla pandemia e, perciò, non potremo fare a meno,
come accadde per la riflessione teologica dopo Auschwitz, di mettere in
connessione la fede cristiana in Dio con la sofferenza, la morte, la fragilità
psicologica e le angosce generate dall’evento pandemico. Tra Dio e le vittime del
Covid – e vittime lo siamo tutti, magari economicamente o psicologicamente –
occorre stabilire una connessione. Bisogna parlare di Dio a partire dai
sofferenti e dagli oppressi, coltivando quella che il teologo tedesco Metz
chiamava la «mistica dagli occhi aperti»[8]: non una
religione ascetica fine a se stessa, una religione intimista e consolante, una
religione che fugge dal mondo, ma, al contrario, l’accoglienza del mistero di
Cristo crocifisso e risorto che diventa nella nostra vita una «memoria
pericolosa» che si riattualizza: attraverso la stessa compassione di Gesù noi
rendiamo attuale l’azione “pericolosa” del Cristo, che sovverte il sistema del
male e ci libera da esso.
Metz affermava che davanti a chi
soffre, non siamo noi a dover prendere per primi la parola, ma le vittime.
Questo significa certamente, da un punto di vista pastorale, una maggiore disponibilità all’ascolto delle
persone e uno stile di Chiesa ospitale, dove le persone si sentono realmente
accolte non in modo formale, ma perché possono trovare spazi di ascolto e
incontro, in cui possono anche raccontare e raccontarsi. Ma, ancor più,
significa rinnovare i nostri linguaggi teologici e pastorali – penso anche alla
catechesi e all’omiletica – perché parlare di Dio dopo il Covid non potrà
significare dispensare qualche frase o preghiera consolatoria, ma assumere
tutto il dramma e la fatica della domanda di Gesù sulla Croce e cioè chiederci
nuovamente e in modo nuovo: come sta il nostro dolore davanti a Dio? Perché
l’amore di Dio ci lascia soffrire?
Si tratta di un passaggio
fondamentale perché il rischio che emergano immagini parziali e perfino
distorte di Dio è sempre in agguato. David Neuhaus ne ha parlato in modo
approfondito su La Civiltà Cattolica,
stigmatizzando i molti profeti di sventura che estrapolano versetti biblici
per proclamare che la pandemia
che stiamo vivendo è una punizione di Dio adirato contro un mondo peccatore.
Essi citano versetti contro qualsiasi cosa urti la loro sensibilità e
infieriscono a colpi di Scritture su un’umanità già ferita e sanguinante.
Talvolta sembra quasi di avvertire la soddisfazione con cui citano passi che
descrivono piaghe e catastrofi scagliate da un Dio permaloso su un mondo che ha
bisogno di essere punito. Sullo stesso palcoscenico, accanto a questi sedicenti
profeti animati dall’ira divina, si stagliano i moralisti del «te l’avevo
detto», che a loro volta hanno setacciato le Scritture in cerca di testi che
consentano di predicare con autorità le loro convinzioni circa ciò che è giusto
a un mondo che finalmente dovrà riconoscere che la loro è davvero la ricetta
per un domani migliore[9].
Dunque, la crisi mette in crisi Dio stesso, cosicché – come affermava
Meister Eckart – ci liberiamo di Lui per ritrovarlo in modo totalmente nuovo.
In tal senso, la crisi è un’opportunità: ci offre l’occasione di liberarci di
un Dio pre-moderno, che pur avendoci redento nel sangue del Figlio, adesso
punirebbe i suoi figli con un castigo per farli redimere; oppure un Dio che,
pur avendo viscere di compassione per la nostra sofferenza, rimane chiuso nella
sua impassibilità e indifferenza mentre il mondo soffre per una pandemia.
Questa è l’occasione per guardare a Gesù, che ci mostra il Dio dell’amore, che
non castiga né invia flagelli, ma ci ama fino a condividere, portare e
trasformare il nostro dolore.
Guardando alla Croce di Cristo
possiamo invece riscoprire il volto di Dio da annunciare e da tradurre poi
nello stile di Chiesa e nella pratica pastorale: il Dio che sta dalla parte della sconfitta, per risanare
i loro cuori spezzati; il Dio compassionevole che si commuove, raccoglie le
lacrime, scende nella storia per farsi offerta di liberazione, si lascia ferire
e toccare dal nostro dolore, fino ad assumere in sé la contraddizione della
morte[10]. Il Dio
crocifisso, che nella carne di Gesù inaugura una storia nuova in mezzo alla
storia di sofferenze di un mondo abbandonato[11], e chiama
anche noi a porre nel mondo segni di liberazione e giustizia.
Oggi siamo dinanzi a una nuova
possibilità, per riscoprire a partire da Gesù
Un Dio amico e amante,
innamorato “fino all’estremo” di ogni essere, servitore umile delle sue
creature […] Un Dio che non sta in nessuna religione né Chiesa perché abita il
cuore in ogni cuore umano e accompagna ogni essere nella sua disgrazia; un Dio
che soffre nella carne degli affamati e miserabili della terra; un Dio che ama
il corpo e l’anima, la felicità e il sesso; un Dio che sta con noi per “cercare
e salvare” ciò che noi roviniamo e mandiamo all’aria […] Un Dio che libera
dalle paure e vuole da adesso la pace e la felicità per tutti […] Un Dio di cui
uno si possa innamorare[12].
3.
Immaginare un nuovo modo di essere Chiesa
La
recente pandemia ha rivelato non pochi aspetti della nostra vita ecclesiale, su
cui non possiamo più permetterci di soprassedere.
Anche
se l’analisi non è esaustiva, in generale si può dire che la situazione
generata dal Covid 19 ha in qualche modo smascherato una debolezza strutturale
e anche una povertà spirituale che presiede alla nostra azione pastorale. È
emerso come la comunità cristiana, una volta interrotta l’esperienza delle
attività ordinarie, sia stata assalita dall’incapacità di pensare e immaginare
altro.
A
livello di esperienza ecclesiale, schematicamente sai possono evidenziare tre
cose, che sono ovviamente suscettibili di più ampie riflessioni.
La
prima è l’idea o l’immagine che ancora, quasi come di sottofondo, sostiene il
nostro modo di essere e di pensare la Chiesa, cioè l’idea che la Chiesa sia una super-potenza accanto
alle altre potenze mondane e politiche. Perciò, nonostante l’aggressività del
virus e il numero di contagiati e vittime, è andata crescendo in alcuni settori
una certa reazione alla decisione di sospendere le celebrazioni; alcuni hanno
parlato di sottomissione dei Vescovi e della Chiesa alla scienza e alla
politica o, addirittura, di limitazione della libertà di culto. C’è qui un’idea
di Chiesa intesa come una realtà “politica” che deve dimostrare e difendere il
proprio culto, la propria rilevanza e libertà, senza tener conto di ciò che
accade attorno, si trattasse anche di una pandemia.
La
seconda riguarda il modo in cui in questo tempo di sospensione e smarrimento
abbiamo vissuto la liturgia e in generale l’azione pastorale, scivolando nella
tentazione di concepire una Chiesa-spettacolo.
Enzo Biemmi ha giustamente affermato:
anche noi Chiesa, dopo essere
“andati avanti a tutta velocità, sentendoci forti e capaci in tutto”, siamo
stati obbligati a fermarci, a stare in casa, a sospendere le attività che tanto
ci hanno coinvolto e appassionato. E come abbiamo reagito? Ci ha preso l’ansia
della spogliazione. Quel vuoto è diventato insopportabile. Nei nostri ambienti
ecclesiali si è parlato spesso di «clausura forzata» e raramente di «tempo di
grazia» […] La reazione istintiva è stata quella di riempire. Siamo passati dall’ansia
di un’agenda troppo piena all’angoscia di un’agenda improvvisamente vuota.
Abbiamo cercato subito di tappare ogni fessura sostituendo alle attività in
diretta quelle in streaming e sui
social[13]
Presi
dall’ansia del vuoto, abbiamo dovuto riempirlo in diretta su streaming e sui
social e, accanto a proposte buone, inevitabilmente non sono mancati esempi di
spettacolarizzazione della liturgia e proposte pastorali in cui al centro c’era
sempre e solo il prete. Si è considerato
imprescindibile celebrare la Messa e, perciò, la si è fatta anche in streaming,
a prescindere dalla presenza del Popolo di Dio: il prete ha celebrato e il
popolo di Dio ha “assistito” davanti a
uno schermo. Ciò ha rispolverato l’idea della Messa come culto individuale e
privato, come atto del prete, come rito ancorato alla spiritualità tridentina,
con al centro il prete.
Se
allarghiamo la riflessione in generale sull’agire pastorale e sulla vita delle
comunità cristiane – ecco la terza questione – bisognerebbe riflettere su
quella che Papa Francesco, in Evangelii
gaudium ha chiamato il predominio della sacramentalizzazione sulle altre
forme di evangelizzazione. Nonostante i proclami, al centro non c’è ancora
l’annuncio del Vangelo e una nuova iniziazione alla Parola di Dio e alla
preghiera, ma la preoccupazione sulla data delle prime comunioni e sulla ripresa
degli orari delle Messe.
Abbiamo allora assistito a una
certa povertà spirituale, che ha rivelato come alla fine, tutta l’esperienza
liturgica e pastorale sia stata ridotta alla sola celebrazione della Messa,
trascurando altri elementi della ricca tradizione cristiana, altrettanto
importanti e forse, soprattutto oggi, propedeutici alla celebrazione dei
sacramenti.
Eppure,
nel tempo della pandemia sono nate interessanti sperimentazioni di preghiera in
famiglia, di liturgie della Parola
celebrate a casa, di celebrazioni domestiche preparate e
vissute con tanto di segni e di sussidi. Abbiamo vissuto la Pasqua nelle case,
in spazi liturgici e spirituali familiari e domestici. Per la prima volta, insomma,
finalmente la Chiesa è stata davvero “in uscita”: non si è potuti andare in
Chiesa, ma la Chiesa si è fatta spazio nelle case, è rifiorita nello spezzare
un pane azzimo appena sfornato mentre gli edifici di pietra erano chiusi, si è
manifestata come popolo sacerdotale dei battezzati mentre taceva la voce dei
preti, è apparsa lì dove dovrebbe essere sempre, cioè nella vita concreta della
gente e nelle loro case.
Questo
può insegnarci qualcosa e cambiare qualcosa. Ma chiediamoci: abbiamo educato il
Popolo di Dio all’ascolto della Parola di Dio? A pregare nella vita quotidiana?
A saper celebrare con la vita quella Messa che – come spesso pure diciamo nelle
prediche – inizia e si celebra nei travagli dell’esistenza e di ogni situazione
umana?
Tali interrogativi, oggi più che mai,
vanno affrontati:
chiediamoci: ed ora,
saremo migliori a messa? Dipende anche da come noi, vescovi e preti, ce la
giocheremo: se ci troveremo a celebrare come prima, se la nostra pastorale sarà
di nuovo solo la messa e non avremo imparato che bisogna offrire lectio sulla
Parola, momenti di riflessione comune e di confronto tra gli adulti, sostegno
alla fede nelle case…allora ce la giocheremo malissimo e condurremo la gente
alla fede devozionale, individuale, formale, astratta. E anche spesso triste[14].
4. Una nuova spiritualità e un nuovo
annuncio del Vangelo
Infine, si
può convenire sul fatto che il tempo sospeso e drammatico della pandemia ha anche
fatto emergere l’esigenza di una nuova spiritualità, in un tempo in cui i
sentieri e le forme tradizionali del vivere la fede in Occidente sono
profondamente in crisi.
Talvolta, rischiamo di abbracciare
la fede non per armarci di coraggio dinanzi alle sfide della vita, ma per
disarmare noi stessi, per cercare di placare le nostre angosce e di spegnere le
nostre paure. E di certo, la recente pandemia, che in qualche modo simboleggia
e sintetizza altre nostre crisi, ci chiede di fermarci a riflettere anche sul
significato della spiritualità cristiana, perché essa non venga scambiata per
una falsa pace che spegne le domande e le inquietudini.
Al contrario, il diffuso sentimento
di angoscia e di paura collettiva generato dalla pandemia, oltre naturalmente
al dolore fisico che ha procurato, ci invita a riconsiderare il cuore della
spiritualità cristiana come quella relazione fragile e carnale col Dio che in
Gesù si è fatto carne e, perciò, non già come una spiritualità che si risolve
in un sistema rigido di norme e precetti o in devozioni «celesti» staccate dalla storia, bensì in
una spiritualità della vita quotidiana, impregnata di domande, travagli,
angosce, sogni e speranze che ciascuno si porta nel cuore. Si tratta di una
spiritualità che si fa strada nella vita feriale, che avanza senza fare
rumore, nelle occasioni silenziose e anonime del vivere di ogni giorni, in
luoghi che non sono templi, in parole che non sono preghiere e in situazioni
che non sono eventi religiosi; sono quelle che Rahner definiva le «piccole, umili ed
evanescenti realtà della vita quotidiana»[15] nelle quali Dio si rivela
e ci parla e noi possiamo incontrarlo non nei grandi ideali religiosi, ma nei
frammenti delle nostre giornate e della nostra povera carne.
La pandemia – suo malgrado – ci invita a uscire dalle vecchie
forme di un vecchio cattolicesimo; più che la ripetizione di gesti
liturgico-sacramentali via streaming, che in certi casi possono apparire come
un surrogato grazie al quale si propongono le cose di sempre in un tempo
eccezionale, ritengo non siano da trascurare le altre iniziative pastorali che
hanno aiutato le persone a ritrovarsi nella preghiera, nell’ascolto della
Parola e nello spezzare il pane, incoraggiandole a diventare esse stesse
protagoniste consapevoli di questa esperienza. Abbiamo assistito a una
rinascita della Chiesa domestica che, forse, non andrebbe archiviata come
esperienza di passaggio dovuta all’emergenza pandemica; un esempio è stata la
preparazione della Veglia Pasquale in alcune famiglie, che hanno apparecchiato
la tavola in modo particolare, hanno acceso un cero, hanno collocato una
bacinella d’acqua vicino a una Bibbia aperta: veri e propri rituali attraverso
cui le persone, nelle loro case, hanno celebrato il passaggio di Dio nella
notte della vita e del mondo come fecero gli israeliti in quella notte in cui,
coi calzari ai piedi e il bastone in mano, si preparavano a uscire dalla terra
d’Egitto.
Per la prima volta, dopo anni di
diagnosi sulla crisi della fede, si è sperimentata la possibilità di altre
pratiche cristiane, oltre lo schema classico della pratica religiosa. Non
diciamo che la pratica non sia importante e necessaria, ma che per molte
persone di oggi abbiamo bisogno anche di altre vie, più creative e più legate
all’esperienza della vita, in cui esse possano almeno stabilire un contatto con
Dio e aprirsi alla vita spirituale. Queste stesse persone non sono sollecitate
se la nostra proposta si limita solo alle classiche attività che svolgiamo in
parrocchia.
La sfida che ci
attende è avvincente: invece di interpretare questa situazione come dettata
dall’emergenza, potremmo leggerla con intelligenza pastorale. Tutto ciò non
nasce spontaneamente, soprattutto considerando la seria situazione di crisi
della fede che imperversa nell’Occidente ormai da decenni. C’è bisogno di un
rinnovato annuncio del Vangelo per rendere possibile il messaggio cristiano in un’epoca
post-cristiana, oltre ogni irrilevanza. Di questa irrilevanza del nostro
linguaggio cristiano ha parlato Paul Tillich:
L’impossibilità della
persona moderna di comprendere il linguaggio della tradizione riguarda quasi
tutti i simboli cristiani. Essi hanno perso il potere di trafiggere l’anima: di
rendere inquieti, ansiosi, disperati, gioiosi, estatici, recettivi nei
confronti del significato. Spicca l’esempio del Gesù dalla voce flautata, emaciato,
sentimentale, la cui immagine è appesa nelle aule del catechismo e alle pareti
laterali delle chiese, Questo Gesù sentimentale non ha nulla da dire ai forti
della nostra epoca[16].
Non si tratta di un semplice
aggiornamento nella comunicazione, ma di rimettere al centro – come auspicato
da Papa Francesco – l’annuncio del Vangelo. Dobbiamo avere il coraggio di
lasciare andare molte altre cose nella nostra azione pastorale, per ritornare
ad annunciare con passione il Vangelo, concentrando tutte le energie per un
rinnovato annuncio della Parola e, soprattutto, per cercare di mettere le
persone a contatto con la figura di Gesù, uomo libero, appassionato, critico,
solidale. Per qualche tempo – è una provocazione – sospendere tutte le attività
pastorali e fare in modo che dai bambini agli anziani tutti possano dedicarsi,
nella preghiera e nello studio, al Vangelo. Bisogna ripartire dal Vangelo,
perché le persone anche oggi siano nuovamente raggiunte dalla freschezza
sorprendente dell’annuncio cristiano.
Conclusione
Concludendo, si può dire che la crisi può essere un’occasione importante per interrogarci
nuovamente sulle false concezioni di Dio che ancora presiedono alcuni nostri
discorsi e su un certo mondo devozionale attorno al quale giriamo. È al
contempo un’occasione per ripensare i linguaggi dell’annuncio. Sarà anche
un’occasione positiva per uscire da una
concezione pastorale, liturgica e più in generale spirituale, fondata
esclusivamente sulla celebrazione della Messa e, per di più, in una visione
tridentina che pone il prete al vertice. Al contempo, si può riflettere su
come, a fronte di numerose e spesso poco curate celebrazioni eucaristiche, ci
sia ancora poco spazio per l’annuncio, l’evangelizzazione, le altre forme della
preghiera cristiana, la centralità della Parola di Dio, la lectio divina.
Si può e forse si deve anche riflettere sulle tante possibilità
che l’uso dei social possono offrire all’annuncio del Vangelo e all’agire
pastorale, non però intendendo i social media come sostituzione di comodo nei
casi di emergenza, ma come vie e strumenti da abitare.
La pandemia ci ha anche fatto vedere una rinascita della Chiesa
domestica. Sono nate interessanti esperienze di preghiera in famiglia, liturgie
della Parola celebrate
nelle case, celebrazioni domestiche preparate e vissute con semplicità e
familiarità. Una Chiesa con al centro i battezzati. Una Chiesa viva laddove la gente
vive, cioè nelle case.
Tutto ciò impegna l’immaginazione pastorale ed ecclesiale perché
la pandemia sia una lezione da cui uscire cambiati anche come Chiesa, e non ci
si limiti a restare prigionieri del «si è sempre fatto così».
In tal
senso, la crisi attuale potrebbe anche
rappresentare un nuovo inizio. Non ci sembra fuori luogo riprendere
l’interrogativo che, anni fa, si pose il teologo canadese Tillard:
Siamo gli ultimi cristiani?
Una cosa è certa. Noi siamo inesorabilmente gli ultimi testimoni di un certo
modo di essere cristiani, cattolici. Coinvolti nelle grandi mutazioni delle
società umane in cui esse si incarnano, le chiese locali sono destinate
inevitabilmente a mutare il loro volto e già si vanno delineando certi tratti
nuovi. Non occorre essere profeti per immaginare che, in comunità cristiane
necessariamente ridotte, le relazioni tra ministri e laici non saranno più le
stesse, con un conseguente impatto profondo sulle forme stesse del ministero.
Si può anche prevedere, senza grosso rischio d’errore, che si cercherà di
recuperare (in modalità rinnovate) l’osmosi tra l’impegno in compiti civili
importanti e la testimonianza esplicita resa a Cristo. Perché sarà necessario
parlare di Cristo non solo dall’alto della cattedra […] In un mondo sempre più
laico, almeno in occidente, la chiese ridotte in piccoli resti di credenti convinti e praticanti la loro fede
saranno probabilmente indotte, dalla forza delle cose, a raccogliersi attorno
all’essenziale[17].
E alla domanda se siamo davvero gli
ultimi cristiani, Tillard rispondeva ancora: «Siamo
certamente gli ultimi di tutto uno stile di cristianesimo»[18].
Dobbiamo accogliere e salutare la
fine di un certo stile di cristianesimo, perché esso non soffochi quella nuova
figura di cristianesimo che lo Spirito Santo sta facendo germogliare già qui e
ora.
[1]C. Singer, Du bon usage des crises, Albin Michel, Paris 1996, 41.
[2] Cfr. D. Albarello,
«Cattolici in diaspora. Tre variazioni pandemiche sul tema dell’uscire», in D. Olivero (a cura di), Non è una
parentesi. Una rete di complici per assetati di novità, Effatà, Padova
2020, 97.
[3]
Si possono leggere con frutto le interessanti analisi di A. Fossion, Il Dio desiderabile,
EDB, Bologna 2011; Id., Ri-cominciare
a credere, EDB, Bologna 2004.
[4]
T. Halík, Il segno delle
Chiese vuote. Per una ripartenza del cristianesimo, Vita e pensiero, Milano
2020, 9.
[5]
C.M. Martini, Le confessioni
di Paolo, Àncora, Milano 1982, pp. 73.
[6]
Papa Francesco, Discorso del Santo
Padre ai Membri del Collegio Cardinalizio e alla Curia Romana, per la
presentazione degli auguri natalizi, 21 dicembre 2020.
[7] Ho ampiamente
trattato il tema nel mio ultimo libro, cfr. F.
Cosentino, Quando finisce la notte.
Credere dopo la crisi, Dehoniane, Bologna 2021.
[8] Cfr. J. B. Metz, Mistica dagli occhi aperti. Per una spiritualità concreta e
responsabile, Queriniana, Brescia 2013.
[9] D. Neuhaus,
«Il virus è una punizione di Dio?», in La
Civiltà Cattolica, Vol II, Anno 2020, 238.
[10]
Cfr. S. Dianich, Il
Messia sconfitto. L’enigma della morte di Gesù, Cittadella, Assisi 1997.
[11] Cfr. J. Moltmann, Il Dio crocifisso, Queriniana, Brescia 2013, 195.
[12] J. A. Pagola, Annunciare Dio come buona notizia, EDB, Bologna
2017, 37.
[13] E. Biemmi,
«Non è una parentesi? Metafore per non dimenticare», in D. Olivero (a cura di), Non è una parentesi. Una rete di
complici per assetati di novità, 4-5.
[14]
D. Olivero, «Non è una parentesi», in Id., (a cura di), Non
è una parentesi. Una rete di complici per assetati di novità, 27.
[15] K. Rahner, Cose
di ogni giorno, Queriniana, Brescia 1966, 11.
[16] P. Tillich,
L’irrilevanza e la rilevanza del
messaggio cristiano per l’umanità di oggi, Queriniana, Brescia 2021, 51-52.
[17] J.-M.R.Tillard, Siamo gli ultimi
cristiani? Lettera ai cristiani del Duemila, Queriniana, Brescia 1999,
17-19.
[18] Ivi, 33.