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Enzo Bianchi e il tweet culinario che ha scatenato i follower: "A tavola si incontrano gli animi. Ora più che mai c'è bisogno di stare insieme"

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Intervista all'ex priore della Comunità di Bose, che racconta la sua passione per il cibo e quel messaggio messo sui social in cui invitava gli amici a pranzo: "Hanno risposto in migliaia, una dimostrazione d'affetto. Fare e dare da mangiare è la maniera migliore di dire a qualcuno ti voglio bene"

Una teglia piena di piccoli peperoni ripieni. È la protagonista della foto carica di sapori, colori e tanto "ben di Dio" che Enzo Bianchi, l'ex priore del convento di Bose a Magnano in provincia di Biella ha pubblicato qualche giorno fa su Twitter. Lanciando il suo invito spiritual-culinario: "Cari amici, sono invecchiato e ho difficoltà a venirvi a trovare. Vivo in esilio a Torino, da solo, ma la mia vocazione è comunitaria, non eremitica. Perciò venite voi e a pranzo troverete piatti gustosi e converseremo in pace. Oggi peperoncini dolci farciti di carni e aromi". 

È sempre stato stretto il rapporto con il cibo del monaco, laico, illuminato, e per alcuni scomodo, seguito sui social da migliaia di persone affascinate dal suo messaggio di quotidiana serenità, semplice e insieme assai profondo. Messaggio che lui trasferisce a un gesto come quello del "far e dar da mangiare" che unisce accoglienza, cura e senso di comunità. "È vero, ho sempre avuto un rapporto stretto, culturale, privilegiato con il cibo - ci conferma padre Bianchi -. Mia nonna, Maina, era una cuoca francese, veniva della Provenza, e mio nonno, Giovanni Battista, piemontese, era un panettiere. E a casa mia, nel Monferrato, c'era un vero culto del cibo, un'attenzione particolare ai prodotti del territorio". 

Quando ha messo piede per la prima volta in cucina?

"Ho cominciato a cucinare a 8 anni quando è morta mia mamma e ho dovuto 'aggiustarmi' con mio padre, sempre aiutato da questa mia grande nonna che faceva la cuoca per le feste, i grandi pranzi per matrimoni, comunioni e battesimi nel mio paese, Castel Boglione, in provincia di Asti. Poi all'università a Torino nel mio alloggio ho continuato e in tutto il periodo alla comunità (di Bose, ndr) per i fratelli e le sorelle sono sempre stato io ai fornelli".

Una specie di missione?

"C'è soprattutto una vera passione, per me, a far da mangiare. E a dar da mangiare a coloro che amo, agli amici. Mi sembra che sia la maniera migliore e più semplice di dire a qualcuno ti voglio bene e voglio che tu viva. Dare delle cose buone sempre della tradizione francese e monferrina".

Sono ricordi dei piatti di nonna Maina?

"Sì, lei faceva i piatti che faccio io oggi e che mi piace offrire a chi viene a trovarmi. Dalle patate fritte ai cibi più raffinati che mi ha insegnato a fare da piccolino. Per esempio il Coq au vin (secondo piatto a base di pollo marinato nel vino, ndr) tipicamente francese. E anche delle rollatine, fettine di carne ripiene di formaggio, uova e prosciutto, fatte cuocere a lungo. Molto buone, io le amavo tantissimo da bambino". 

E i dolci?

"Non li amo molto, ma quello che uso fare di piu è il bonet, il classico dolce del Monferrato, con amaretti e cacao, con una ricetta particolare della nonna. Assai apprezzato da chi lo assaggia. Lo offro alla fine del pranzo agli amici".

Cinque anni fa ha vinto anche il Premio Artusi.

"Sì, un premio molto prestigioso. E sempre nel 2016 la laurea honoris causa in Scienze gastronomiche dall'Università di Pollenzo. Non ho mai fatto un libro di ricette ma in uno, Il pane di ieri, ricordo alcuni piatti di famiglia tipici della cultura monferrina come la bagna càuda e i nostri famosi ravioli. A casa mia, quando ero piccolo, ricordo che c'erano dei peperoni che si chiamavano trottola e si farcivano con carni e aromi. Così l'altro giorno andando alla Fiera del peperone di Carmagnola con due amici ho visto questi peperoncini dolci, non piccanti, ho deciso di comprarli e prepararli per il pranzo del giorno dopo come antipasto oltre al secondo piatto di petti di pollo ai funghi".

E poi ha pensato di fare la foto e pubblicarla su Twitter con quell'invito a cui hanno risposto in tantissimi che volevano venire a pranzo da lei...

"Sì... (ride, ndr) sono stati in migliaia a scrivermi dicendo che volevano venire a trovarmi, chiedendo l'indirizzo... Una cosa materialmente impossibile, io pensavo di dire qualcosa di simpatico agli amici e di far vedere che ancora continuo a cucinare e ad avere una vita di relazione e di amicizia, perché questa è la cosa più importante della vita. È stato molto bello che ci sia stata questa reazione, significa che hanno capito lo spirito. Ma io no non me l'aspettavo assolutamente (ride ancora, ndr) sono stati oltre 4 mille a reagire". 

Come ha letto questa risposta al suo appello? 

"Come una grande simpatia nei miei confronti da persone che mi seguono, che leggono i miei libri. E poi come un gran bisogno di mettersi in contatto con gli altri. In questo momento che stiamo vivendo con il Covid c'è bisogno di riprendere le relazioni. Di riprenderle rallegrandoci insieme, con una speranza. Questo è molto importante perché siamo segnati un po' tutti alle spalle o dalla solitudine o dall'isolamento dovuto alla pandemia, o da una conflittualità. C'è bisogno di una ripresa. Non dobbiamo tornare alla situazione di prima ma a una vita un po' più bella e un po' più fraterna".

Allegria, pace, distensione, spirito di fratellanza: sembra che abbia descritto l'anima di un pranzo. 

"Sì, ha ragione. È proprio così. Ed è così per me soprattutto in questo momento in cui mi trovo in una grande città, Torino, in cui c'è il rischio dell'anonimato. La tavola è diventata ancor di più un momento di incontro. In cui ci si scambia cosa più brucia nel cuore. È qui che noi tutti abbiamo una capacità di comunione che non abbiamo in altre situazioni. Io ne ho tante di tipo intellettuale, incontri, conferenze, cose di questo genere ma a tavola è un'altra cosa". 

Perché?

"Perché si incontrano gli animi, ci si apre più facilmente e quel che si dice in quel momento tocca di più il nostro profondo nel cuore. Non dimentichiamo che a tavola si è sviluppata la parola nel corso dell'evoluzione degli umani. È a tavola che noi abbiamo costruito la cultura e abbiamo celebrato la vita. Sono cose importantissime e non dobbiamo mai banalizzarle. Ci sarebbe davvero un magistero della tavola se ci fosse la capacità di guardare bene che cosa è anche la liturgia cattolica, dove il pane indica la necessità, il vino indica la gioia e la gratuità: sono i grandi segni dello stare insieme e del fare memoria di Gesù Cristo". 

Cosa vede ora sul suo cammino?

"Ho 78 anni, cerco di viverli bene con il mio più grande desiderio: quello di incontrare gente, di destare fiducia, di vivere l'amicizia, perché son le cose che hanno sempre contato per me e spero di averle finché avrò le forze". 

In qualunque luogo la vita lo porti. Prima doveva essere "esiliato" in Toscana, ora è a Torino...

"Siamo dei viandanti".

Tanti gli scritti e gli interventi che Enzo Bianchi ha dedicato al tema del cibo in più di un'occasione. Come nel 2015 quando per l'apertura dell'Expo a Milano citò J. A. Brillat-Savarin, in Fisiologia del gusto: "Gli animali si pascono, l’uomo mangia; solo l’uomo intelligente sa mangiare". Ricordando le parole di Papa Francesco: “C’è cibo per tutti, ma non tutti possono mangiare, mentre lo spreco, lo scarto, il consumo eccessivo e l’uso di alimenti per altri fini del cibo sono davanti ai nostri occhi”. E ancora: “Il pianeta ha cibo per tutti, ma sembra che manchi la volontà di condividere con tutti. [Bisogna] preparare la tavola per tutti, e chiedere che ci sia una tavola per tutti” (Omelia nella messa per l’apertura della 20a assemblea generale della Caritas internationalis, 12 maggio 2015).

Quindi le citazioni sacre, una tratta dal libro di Qohelet: "Mangia con gioia il tuo pane e bevi il tuo vino con cuore lieto (Qo 9,7)". Un'altra dai Vangeli secondo Matteo e Luca: "Non di solo pane vivrà l’uomo, ma di ogni parola che esce dalla bocca di Dio(Mt 4,4; Lc 4,4)". "Prima di essere messo in tavola, il cibo è pensato, ricercato, apprestato fin nei dettagli; poi è benedetto, offerto, cantato, celebrato prima di essere condiviso - spiega Bianchi -. Azione eminentemente propria all’umanità, il cibarsi diventa azione spirituale, carica di significato, strumento ed epifania di una grande comunione. Ecco cos’è il cibo: nutrimento per la convivialità! Per questo non si può parlare di cibo senza parlare di tavola, seppur diversa nelle differenti culture: un tappeto steso a terra per i nomadi del deserto, una tavola bassa accanto alla quale ci si distende per i greci e i romani, una tavola - per noi oggi - alla quale 'passiamo', 'Passiamo a tavola!' è l’invito a prendere posto per il pasto. Così interrompiamo il nostro lavoro, i nostri impegni, per passare a cibarci insieme, esercitando fiducia nel cibo che ci viene portato, accogliendo la cura di chi lo ha preparato, condividendolo con chi si siede a tavola con noi". 

Fonte: Repubblica

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