Gianfranco Ravasi "Il giardino paradisiaco"
Il termine “Eden” ha valore più simbolico che reale: è un modo figurativo per abbozzare la carta del mondo così come è uscito dalle mani del Creatore, un giardino fertile affidato all’uomo.
Il mese primaverile in cui entriamo ci spinge a iniziare un percorso simbolico speciale, sollecitato tra l’altro dall’anno che papa Francesco ha dedicato alla meditazione rinnovata e operosa della sua enciclica Laudato si’, a cinque anni dalla sua pubblicazione (24 maggio 2015). Scegliamo come immagine emblematica dei molteplici simbolismi vegetali presenti nella Bibbia, di indole spesso sapienziale, quella del giardino. È suggestiva l’affermazione del poeta inglese Abraham Cowley (1618-1667): «Dio fece il primo giardino, Caino la prima città».
Se è vero che «Caino divenne costruttore di una città, che chiamò Enok, dal nome del figlio» (Genesi 4,17), è evidente che la Bibbia si apre proprio con un giardino primordiale che diverrà uno dei soggetti artistici più ripresi nella storia dell’Occidente. Ecco il passo biblico: «Il Signore Dio piantò un giardino in Eden, a oriente, e vi collocò l’uomo che aveva plasmato. Il Signore Dio fece germogliare dal suolo ogni sorta di alberi graditi alla vista e adatti all’alimentazione, tra cui l’albero della vita in mezzo al giardino e l’albero della conoscenza del bene e del male» (Genesi 2,9-10).
Per andare alla ricerca dell’autentico significato di questo giardino dobbiamo respingere ogni lettura meramente letteralista o fondamentalista, come non di rado è accaduto nella storia dell’esegesi di questo brano incastonato nel secondo dei due racconti della creazione (capitoli 1 e 2-3) che aprono la Bibbia. Non mancarono, infatti, le più diverse identificazioni con località o regioni del Vicino Oriente, a partire da Saba o dalla cosiddetta Arabia felix, ossia lo Yemen.
Sarà innanzitutto necessario definire il contesto letterario in cui è inserita la rappresentazione di questo giardino «piantato» dal Signore «in Eden». Questo toponimo di per sé significa «delizia, piacere»: saremmo, quindi, di fronte a un «giardino di delizie», una sorta di isola felice, un’oasi simile a quella lussureggiante di Gerico, immersa nel deserto arido e quasi lunare della fossa del Giordano. Curiosamente nelle lingue mesopotamiche – nell’accadico e-dinu e nel sumerico e-din – la radice di Eden rimanda invece all’idea di «steppa» o «deserto» e c’è pure una località, Bit-adini, situata sul medio Eufrate, che significa appunto «casa del deserto».
Ma ritorniamo al racconto biblico nel suo insieme. Siamo in presenza di un’apparente narrazione storica (con eventi, colpi di scena e un trama) che ha però valore «sapienziale» e simbolico. Essa vuole risalire idealmente alla fonte dell’umanità per trovarne il senso, la spiegazione, la finalità. Si risale all’archetipo non per raccontare cosa è accaduto a un singolo personaggio ma per indicare nella sua radice lo statuto di ogni creatura umana. Non per nulla il protagonista si chiama Ha-’adam, l’Uomo, e la donna Hawwah (Eva), la Vivente, la madre della vita.
Compreso che il testo della Genesi non è una storia remotissima delle origini ma una riflessione sulla realtà storica costante (tecnicamente si parla di «eziologia metastorica»), che tocca avi e discendenti, noi, gli antenati e i nostri successori su questo pianeta, ovvero l’«essere uomo» ovunque appaia, ne proponiamo ora la struttura. Si tratta di un dittico in cui la prima tavola è luminosa e colorata (capitolo 2 della Genesi), mentre la seconda è oscura e tragica (capitolo 3). Ai fini del nostro discorso, fermiamoci davanti alla prima tavola.
Essa ha come fondale un giardino lussureggiante posto a Eden, a oriente, che la versione greca della Bibbia e la tradizione successiva chiamerà con un termine – presente non qui ma in altri, rari, passi biblici – di origine persiana: pairidaeza in antico iranico, pardes in ebraico, parádeisos in greco, il nostro «paradiso». Il vocabolo rimandava a un giardino recintato, fertile e fiorito: il significato del termine iranico è appunto «proprietà regale recintata»; ma già nell’antica lingua mesopotamica citata, l’accadico, pardesu indicava un «frutteto recintato».
Il testo ebraico della Genesi – a differenza delle antiche traduzioni greca e latina – non usa, come si è detto, questo vocabolo che, tra l’altro, nell’Antico Testamento ricorre solo tre volte: una nel Cantico dei Cantici (4,13) e due altre volte per definire un parco reale (Neemia 2,8 e Qohelet 2,5). L’idea del «paradiso terrestre» è stata, perciò, indotta in questo ritratto del giardino dell’Eden ed è diventata così popolare da dominare nella tradizione successiva. Non sono mancati, allora, coloro che – come si diceva – si sono incamminati verso località geografiche precise alla ricerca del vero giardino di Eden. Certo, l’autore aveva in mente forse qualche scena esotica delle terre d’Oriente; tuttavia quel giardino rimane ai suoi occhi il simbolo di un cosmo pacificato e sereno, era un paesaggio esistenziale ideale, in cui l’uomo passeggiava sereno e beato.
Siamo, quindi, in presenza di una rappresentazione simbolica del creato così come è concepito da Dio, una mappa ideale al cui interno l’uomo è collocato per esserne il custode e il coltivatore. Si legge, infatti, poche righe dopo: «Il Signore Dio prese l’uomo e lo pose nel giardino di Eden, perché lo coltivasse e lo custodisse» (2,15). Si ha, in tal modo, la definizione dell’uomo lavoratore, l’homo technicus che è coinvolto nella trasformazione della materia, e che vive in armonia col creato. Che l’orizzonte descritto dall’autore sacro non sia meramente geografico ma simbolico risulta anche dalla presenza, accanto alla vegetazione normale (gli alberi «graditi alla vista e adatti all’alimentazione»), di due piante decisamente metaforiche, «l’albero della vita» e «l’albero del bene e del male».
Dobbiamo, però, segnalare un’ulteriore annotazione simbolica destinata a tratteggiare un altro profilo del nostro ideale giardino. Infatti, dopo quel primo essenziale ritratto, si aggiunge una mappa idrografica che vuole centrare tutto il mondo allora conosciuto proprio sul giardino di Eden e sul suo fiume primordiale, generatore di vita e di fecondità universale (Genesi 2,10-14). Si tratta di un motivo noto a molte culture, dall’India fino agli indigeni del Nordamerica. È una variante dell’idea simbolica dell’«ombelico del mondo», presente anche nella Bibbia e applicata a Sion (Ezechiele 38,12), mentre i quattro fiumi vogliono idealmente rimandare ai quattro punti cardinali (anche dalla grotta di Calipso nell’Odissea, chiamata «l’ombelico del mare», scorrono quattro fiumi).
I nomi dei quattro fiumi che si diramano dal giardino dell’Eden non sono tutti perspicui. Ben conosciuti sono, infatti, solo il Tigri e l’Eufrate che indicano l’area della Mesopotamia e quindi l’oriente. Il Pishon nella sua radice evoca solo qualcosa che «zampilla, saltella», ma può essere messo in relazione anche con termini egizi che si applicano ai «canali» e alle «acque grandi». Per definirne l’area l’autore biblico ricorre alla regione di Havila, «la sabbiosa», uno dei nomi applicati all’Arabia settentrionale, le cui sabbie erano aurifere, così come tipica era la produzione vegetale di una resina, lo bdellio, usato nella farmacopea antica, e presente era pure la pietra di onice.
Arduo è, però, in questo caso identificare il fiume in questione. Tenendo conto dei contatti con le carovane provenienti dal remoto oriente e dei contorni molto fluidi, per non dire mitici, della geografia ipotizzata dal nostro testo, non è mancato chi ha immaginato che l’autore della Genesi avesse in mente o l’Indo o il Gange.
Il Ghihon è, invece, maggiormente precisato dal riferimento al territorio che attraversa: Kush nella Bibbia è la Nubia e l’Etiopia attuale. Si potrebbe, così, pensare al Nilo. Sta di fatto che il sistema dei quattro fiumi, come lo stesso giardino dell’Eden, ha un valore più simbolico che reale: è un modo figurativo per abbozzare la carta del mondo così come è uscito dalle mani del Creatore, un mondo fertile e irriguo, un vero e proprio giardino destinato a essere il campo dell’uomo, la sede della sua esistenza, la fonte della sua sopravvivenza, l’ambito del suo lavoro.
A questo punto facciamo scendere il sipario sul giardino paradisiaco dell’Eden che Isaia ritrascriverà liberamente vedendolo però non come il progetto d’origine della creazione ma come la meta finale escatologico-messianica (11,6-9). Nella prossima puntata della nostra rubrica intendiamo riprendere il simbolo ma con una nuova sorprendente applicazione.
Questa è la rubrica "Lampada dei miei passi" che il cardinale Gianfranco Ravasi tiene ogni mese su Jesus.