Enzo Bianchi "Il valore del fallimento"
di ENZO BIANCHI
per gentile concessione dell’autore.
Nell’aria che oggi tutti respiriamo appare più volte, subito rimossa, la paura del fallimento. Infatti
l’obiettivo che viene proposto e che risuona come esito determinante la felicità e la riuscita di una
vita è il successo. E non solo il successo viene perseguito, ma appare dovuto, ciò che salva una vita.
Altrimenti ci si sente falliti, scarti della società.
Questa mi sembra una malattia spirituale del nostro tempo e molti sono convinti che il successo
vada ricercato, inseguito, e sia il desiderio da inoculare nelle nuove generazioni. Non a caso Pier
Paolo Pasolini scriveva: “Penso che sia necessario educare le nuove generazioni al valore della
sconfitta. Alla sua gestione.
All’umanità che ne scaturisce. A costruire un’identità capace di avvertire una comunanza di destino,
dove si può fallire e ricominciare senza che il valore e la dignità ne siano intaccati”.
Anche i cristiani, spinti e abituati a cercare l’approvazione degli altri per i loro comportamenti
buoni, caritatevoli e conformi al Vangelo, inseguono una sorta di riuscita, di successo nel mondo, e
quindi sono diventati incapaci di intravvedere la possibilità della debolezza e del fallimento. Il
dramma che vivono è determinato da un fallimento dell’evangelizzazione. E i loro pianti non sono
diversi da quelli del profeta Geremia sulla città santa di Gerusalemme. Eppure si dichiarano
discepoli di un profeta (questo almeno lo era!) che ha conosciuto come esito della sua vita un
impietoso fallimento dopo alcuni anni di predicazione e azione benefica tra la gente. Tradito e
abbandonato è stato giudicato nocivo al bene del suo popolo e bestemmiatore dall’autorità religiosa
e condannato a morte dal potere imperiale romano. Che fine!
Dunque il fallimento va inscritto nell’itinerario della vicenda cristiana così come in quello della
vicenda umana. Caduta, fallimento non possono essere rimossi perché sono inscritti nell’infirmitas
delle vite umane, nella fragilità che ci porta a fallire. Può venire l’ora della caduta e, come diceva
un abba del deserto, “nel fallimento si va a fondo, si tocca il fondo, ma sul fondo si scoprono le
fondamenta!”.
La caduta, il fallimento che ci colgono a volte sono leggibili e motivabili, altre volte restano oscuri
ed enigmatici: soprattutto le crisi interiori, esistenziali, quando cadiamo nella “nientità” e non
ritroviamo più il senso delle cose e della vita. Allora regna il buio, la tenebra, e anche Dio è
percepito come muto e assente dal credente.
Bernardo di Chiaravalle, dopo una vita piena di successi, visse una crisi terribile: lasciò il
monastero, si ritirò in un bosco in solitudine e giunse a riconoscere “di aver rasentato l’inferno
cadendo e cadendo”. Ma dopo quella crisi scriverà: “ O optanda infirmitas! O desiderabile
debolezza!”.
Non voglio concludere questi pensieri con la ciliegina della speranza ma semplicemente ridestare la
consapevolezza che anche il fallimento fa parte della vita e non va rimosso, perciò va proclamata:
“Beata debolezza”!