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Massimo Recalcati "Alle radici del Cristianesimo"

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La Repubblica, giovedì 8 aprile 2021 

Da più di trent’anni ascolto come psicoanalista il dolore delle persone. E da diversi anni sono ritornato a leggere e a studiare la Bibbia. La convinzione che ho maturato è che non sia la psicoanalisi ad illuminare il testo biblico, ma questo testo a costituire le sue più profonde e impensate radici. L’ebreo Freud e il cattolico, quanto meno di formazione, Lacan confermano ai miei occhi questa idea. 

Il mio articolo che celebrava la Pasqua è stato letto come un manifesto retorico di antigiudaismo. La cosa mi amareggia profondamente perché contrasta con la mia ricerca umana e intellettuale. 
Approfitto di questo spazio per puntualizzare con franchezza il mio pensiero: Gesù è un giudeo, la sua predicazione è incomprensibile se non si considerano le sue profonde radici ebraiche e la sua conoscenza della Torah. Nessuna cancellazione del debito simbolico: “Non sono venuto ad abolire la Legge” ma a “portarla a compimento” (Mt, 5, 17-19). Quale Legge? La Legge di Mosè, quella Legge nella quale il comandamento neotestamentario più decisivo, quello dell’“amore per il prossimo” (Lev, 19,21-19,24), è già inscritto. È, infatti, proprio a partire dalla centralità di questo principio che Gesù rilegge la Bibbia: ama il tuo prossimo, lo straniero in quanto “voi stessi siete stati forestieri in Egitto” (Es, 23,9, Lev, 19,22). 

Ma che cosa significa allora portare a compimento la Legge? Si tratta di radicalizzare proprio il comandamento mosaico dell’amore per il prossimo, di mostrare che la Legge non è avversa al desiderio, non è il suo antagonista, perché la Legge è un nome del desiderio, è un nome della vita. 
Mentre formulo questa lettura evoco un grande tema della psicoanalisi freudiana, ripreso con forza da Lacan, quello del rapporto tra desiderio e Legge. In Gesù il compimento della Legge consiste nel liberare la vita dalla Legge non opponendo più la Legge alla vita, ma iscrivendo la Legge nel cuore stesso della vita. La Legge non va abolita nel nome di un desiderio idolatrico, ma va riscoperta come espressione di una vocazione che sa dare forma alla vita. 

Non si tratta dunque di scardinare la religione della Legge, ma di portare a compimento la nozione stessa della Legge. Nondimeno è vero anche che la Legge descritta nel Deuteronomio nel secondo discorso di Mosè è una Legge che si struttura su di un rigido dispositivo retributivo: chi compie la Legge di Dio sarà ricompensato ampiamente e chi invece la trasgredisce sarà punito con severità secondo il principio per il quale la pena più giusta è quella commisurata all’offesa. Benedizione e maledizione appaiono come il retro e il verso di una giustizia che castiga la colpa e non conosce perdono della quale, se non la possiamo giudicare maggioritaria nel cosiddetto Antico testamento e nella tradizione talmudica, dobbiamo quanto meno riconoscerne una presenza significativa. Se si legge Deuteronomio 28 si entra in contatto con una versione della Legge che non è propriamente quella dell’amore per il prossimo. La Legge qui si configura come un elenco di maledizioni che colpiranno spietatamente colui che non saprà adeguare ad essa la sua vita. Nessuna misericordia, nessuna eccezione, nessuna grazia. La morte cade come una mannaia sulla testa dell’empio. 

Può davvero la Legge di Dio essere rappresentata come un flagello? Ora, il punto è che questa lettura sacrificale-penitenziale della Legge non è solo una versione presente nel testo biblico, ma si è trovata storicamente egemone nel cattolicesimo almeno sino alla svolta conciliare. Sarebbero innumerevoli gli esempi. Ed è proprio contro questa versione della Legge che si alza forte la voce di Gesù, il giudeo: “Misericordia io voglio e non sacrificio” (Mt, 19,13). In questo senso cercavo di scrivere che la resurrezione è la Legge dell’amore e del perdono che riconsegna la vita alla vita sottraendola alla morte. 

Amare il proprio nemico assume questo valore irriducibile, ma questo amore non è affatto assente nel testo del Primo Testamento, come si esprimerebbe Paul Beauchamp. Gli esempi, anche in questo caso, sarebbero innumerevoli. La pietas di Dio stesso verso il fratricida Caino, la madre che nel racconto della spada di Re Salomone offre se stessa per salvare il proprio figlio dallo stratagemma di una Legge senza cuore, l’atteggiamento di Giuseppe nei confronti dei propri fratelli che lo hanno svenduto come schiavo a dei mercanti: “Egli li consolò parlando al loro cuore” (Gen, 50-21). Ogni volta che questa nuova Legge interrompe l’esercizio fustigatore della Legge c’è resurrezione: la morte non può essere l’ultima parola sul senso della vita così come la Legge del castigo e del sacrificio non può essere l’ultima parola sul senso della Legge.
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