Emanuele Borsotti "Sulla soglia"
OTTOBRE-NOVEMBRE 2020
La prospettiva biblica ci racconta di tante
porte, le incontriamo dalla Genesi all’Apocalisse, cioè da
un estremo all’altro della
Bibbia. Pensiamo all’arca
di Noè dove c’è quel tocco gentile di Dio che con
un dito chiude la porta
dell’arca, mentre in Apocalisse troviamo
una città celeste che ha 12 enormi porte.
All’interno di questa pluralità di porte fisiche ne ricordiamo una: “lettera agli Ebrei
13,12” dove si dice che Gesù subì la passione fuori la porta della città. Poi si narra di porte larghe e porte strette. La Bibbia
conosce anche una dimensione intima,
spirituale della porta e questo già in una
delle primissime pagine quando Dio dice a Caino, reduce da
una situazione di violenza:
“Il peccato è accovacciato
alla tua porta” (Gen.4).
Quindi c’è una porta intima, una porta del cuore,
fuori dalla quale sta accovacciato il peccato in attesa di una preda.
Parlare di porte significa parlare di passaggi e questa idea di passaggio ci fa pensare
alla soglia, a quel luogo fisico in cui due
realtà si staccano e si incontrano. La soglia, il limen, è un luogo architettonico che custodisce le relazioni perché una soglia
ci impedisce di cadere nella confusione,
nel fondere cose diverse, e insieme dice
l’accesso alla novità dell’inedito. Ѐ significativo che sulla soglia si indugi, magari anche solo un istante, sia nelle cose quotidiane per fare mente locale,
sia quando si varca la soglia
di un posto nuovo, di lavoro, di scuola... con qualche
domanda nella mente e nel
cuore.
Quindi la soglia ci rimanda a
questi vissuti complessi. Se ci soffermiamo sul salmo 121 leggiamo: “Il Signore custodirà il tuo uscire e il tuo entrare” (tipica
struttura semitica in cui si scelgono due
termini opposti per indicare tutto ciò che
sta tra questi due estremi). Questo vuol
dire che Dio abbraccia la totalità della parabola dell’esistenza umana, perché la vita
è un uscire e un entrare. Significativo che
il salmista parli prima di un’uscita e poi di
un ingresso, difatti la vita esce dal grembo
materno ed entra nel mondo fino a quando entrerà nella morte, ultimo ingresso
per la vita eterna. Tra questi
due passaggi fondamentali stanno tutti gli altri
minimi passaggi quotidiani del vivere, i passaggi dell’età della vita:
il passaggio dal nubilato al matrimonio, dalla solitudine alla comunione,
dalla perdita al guadagno, dalla salute alla
malattia o viceversa.
Ecco, la vita è un attraversamento di soglie, di porta in porta, così come ci sono
porte dell’emigrazione che è un uscire che
spera di entrare, come entrata e uscita è
la dinamica della vocazione e in forma minimale l’entrata e l’uscita di ogni singola
giornata. Si capisce allora come, in questa grande dinamica che ogni porta suggerisce, si possano leggere in antropologia
tutti i riti di passaggio presenti nelle comunità aborigene: esco come ragazzo, rientro come uomo.
Ritorniamo al cuore dell’Antico
Testamento e ci soffermiamo davanti a una porta, a
una soglia dell’amore.
A volte l’amore si ferma davanti a una porta e spesso
la letteratura ha posto davanti alla porta degli amanti.
Amanti a volte delusi che si sono presi letteralmente una porta in faccia. Ѐ il tipico
caso dell’esclusus amator, amante tenuto
fuori dalla porta come troviamo nella lirica amorosa egiziana che ha generato un
vero e proprio genere letterario chiamato
paraklausìthyron (dal greco zura=porta,
para=davanti, klausì=porta chiusa). Non
solo la letteratura profana ha riconosciuto questo genere letterario, ma anche il
Cantico dei Cantici, il canto dell’amore
biblico. Siamo nel capitolo 5, a partire dal
versetto 2 si dice che la donna del cantico, l’innamorata va a dormire,
ma il suo cuore veglia come a
dire che l’amore è un po’
come il respiro che non si
spegne anche quando si
è addormentati. La donna racconta come una notte l’amore ha cercato di entrare nella sua
stanza, infatti lei sente un rumore, col in
ebraico.
Quel rumore alla porta si associa alla voce,
al dodì del Cantico; questo amato chiede di entrare e inizia un dialogo attraverso il diaframma della porta che diventa
un ostacolo e quindi c’è una schermaglia
tra questo amante rugiadoso e la donna che per pigrizia o per vezzo si nega. Si
vive un amore che conosce una
discrasia dei tempi: il tempo di
lui e di lei non sono armonicamente connessi, c’è una sfasatura nell’accordo sinfonico fra i
due protagonisti. Lui ha fretta,
lei indugia. Questo ci narra, in
qualche modo, anche il difficile
accordo dei tempi dell’amore
che la vita ci può far sperimentare; a volte la sincronia dei
tempi può venire meno e quindi
c’è una crisi che alterna la separazione e il ritrovamento. Nella
scena del Cantico questa porta
non si apre ancora e l’appuntamento finisce davanti al legno
suo duro di una porta chiusa.
Ma in questa porta c’è una fessura, dove passa il chiavistello
che la chiude e l’amante cerca
di mettere la mano nella fessura
per forzare la barra interna (delicata allusione erotica) ed entrare. C’è un’impazienza che rende
l’amante ardito come un ladro.
L’amato armeggiando ha lascito sulla porta il suo profumo e
questo profumo di mirra diventa la forza attrattiva che induce
la donna ad alzarsi.
Ma questo effluvio di profumo
che canta un amore avvolgente e che fa sì che l’amato venga riconosciuto si chiude con
una nota di amarezza perché,
quando lei apre, la porta si apre
sul vuoto; lui non c’è più, se ne
è andato, non ha avuto la pazienza di aspettare. Mirra (murr,
amarezza in aramaico) dice l’amarezza di un amore che non ha saputo vivere la sincronia e di una porta che alla fine si apre su una notte vuota.
Sintesi di tutte le nostre ricerche, di tutti i
nostri non ritrovamenti con i quali la vita
ci mette a volte davanti.
Ci sono anche delle soglie consumate,
come direbbe Rilke: i due che si amano
vivono una vita insieme fino a consumare
la pietra della soglia in continui passaggi e
magari queste soglie erano già state varcate da altri, da altre storie d’amore. Quindi
questo logorio della soglia avviene di generazione in generazione. Noi logoriamo
soglie che altri hanno logorato prima di
noi e che altri continueranno a scavare nel
dolce peso dell’amore. E quando le porte
si aprono ecco che siamo immessi sulla
soglia dell’ospitalità. Ѐ ancora una icona
biblica che racconta questo passaggio. Nel
libro dell’Apocalisse al capitolo 3, v. 20,
Cristo stesso dice: “Io sto alla porta e bus
-
so. Se qualcuno ascolta la mia voce…”. Il
Risorto veste i panni del visitatore, è l’Arrivante assoluto che arriva là dove non ci si
aspetterebbe. Ѐ L’amante e l’amato per eccellenza, questo versetto infatti è l’intarsio
perfetto di tutti gli elementi che abbiamo
trovato nel C.C.; le formule sono le stesse
(sto alla porta, busso, c’è riferimento alla
voce, all’aprire la porta). Però, mentre l’a
-
mante del CC. è impaziente e imperativo,
il Risorto ha una formulazione delicata, un
invito a un’apertura che resta ipotetica,
interpella la nostra libertà. Come se dicesse: “Io sono alla ricerca della tua risposta”.
Come a dire che il Vangelo è il mendicante
che chiede di essere accolto come novità
per la nostra vita. Naturalmente questo
Cristo che bussa e vuole entrare ci immette in una scena dal sapore eucaristico: Cristo vuole essere il commensale del banchetto finale, escatologico, che ha già una sua anticipazione nel pasto eucaristico che
la chiesa celebra. Ѐ interessante che qui è
Dio che vuole farsi ospitare e facendosi
ospitare genera la nostra vera ospitalità.
Dio educa all’accoglienza facendosi accogliere, si fa pellegrino ma senza forzare la porta, senza aprirla. Lui propone una
compagnia senza imposizione. Dio attende con pazienza che io voglia acconsentire
ad amarlo (Simon Weil). Il tempo è questa
attesa, attesa di Dio che mendica il nostro
amore. Il nostro tempo è l’eterno che si fa
attesa, attesa della nostra risposta di cui
Dio è alla ricerca.
Un ultimo particolare: è interessante che
si associ l’apertura di una porta all’ascolto perché sono entrambe immagini di dischiusura: quella dell’orecchio nell’ascolto
e quella della porta nell’accoglienza, due
forme diverse dell’ospitalità. In una rilettura provocatoria di questo versetto Papa Francesco diceva che a volte dovremmo
chiederci se forse Cristo non sia già dentro
e bussi da dentro per uscire perché sfinito dall’autoreferenzialità che rende l’aria interna irrespirabile e quindi cerchi di uscire
per raggiungere quelle periferie nelle quali
può avvenire veramente l’incontro (monito questo anche per la Chiesa).
Di porta in porta varchiamo l’ultima che
riceviamo dalla scrittura. Siamo all’interno dell’opera giovannea. Giovanni, nel
suo vangelo, ritorna spesso sull’identità
di Cristo con la formula: “Io sono”, autorivelazione di Dio: Io sono la via- Io sono
la luce- Io sono la vita- Io sono il pane- Io
sono il pastore delle pecore. Ora nel capitolo 10 c’è una costruzione articolata
(v. 8-10) con tre affermazioni: “Io sono la
porta delle pecore”,“ Io sono la porta”, “Io
sono colui che è venuto per dare la vita
in abbondanza”. Il primo versetto parla
di un pastore che vuole portare le pecore
fuori dal recinto e verosimilmente si può
riferire a una porta per i figli di Israele che
vengono spinti fuori dallo steccato del legalismo, dal rispetto formale delle norme
religiose, per avanzare verso la libertà della verità di Cristo. Ma questa visione viene
superata dal versetto successivo dove si
parla di solo di zura, porta per antonomasia che non ha bisogno di spiegazioni, non
è la porta di qualcuno in particolare, ma la
porta di tutti, di chiunque voglia entrare. Il
criterio di appartenenza non è più dato né
dall’appartenenza religiosa, né da quella
etnica; si appartiene a quel gruppo nella
misura in cui si ascolta la Sua voce e si
cammina sulle Sue orme.
E attraverso questa porta
che è Cristo si entra e si
esce (ancora i due verbi
del salmo121) cioè si ha
totale libertà di movimento, si troverà pascolo e così si accede alla vita, alla vita in
pienezza.
Perché il pastore è la porta della vita, entrare attraverso Cristo significa entrare
nella vita, uscire verso la vita (Gv 14,6)
Ѐ interessante notare come il versetto 9
venga tradotto nella Vulgata di Gerolamo
con: ”Ego sum ostium”. S. Gerolamo non
usa termini come porta o janua, ma ostium
da os-oris, la bocca e più genericamente, in
latino, il volto. Sì perché il volto è il luogo
umano delle nostre aperture sensoriali. Sul volto ci sono gli occhi, apertura alla
vista del mondo, le orecchie, apertura ai
suoni del mondo, le narici, apertura all’esperienza olfattiva del mondo e la bocca,
apertura per lo scambio di parole e anche
luogo del gusto.
Cristo quindi è porta, spazio di incontro,
apertura nel senso più ampio della parola,
apertura anche sensoriale. Cristo-porta è
davvero la Parola che si è fatta uomo per
umanizzarci e diventare anche noi porte di
passaggio per operare l’unione e la comunione tra Dio e gli uomini.
Allora possiamo dire che l’esperienza della porta è l’esperienza del vivere che Cristo
ha pienamente vissuto, varcando, come
dice Bobin, tre porte: il morire, l’amare,
il nascere, e simultaneamente in questo
ordine apparentemente illogico; tre porte
che poi è una sola porta. Perché morendo
a noi stessi nell’amore ecco che nasciamo.
Il morire di Cristo è il culmine dell’amore
all’umanità che immette in una vita nuova, vita che non si spegne più.
Varcare la soglia è allora
uscire per camminare.
Ogni volta che siamo
sulla soglia ci poniamo
questa domanda: “Che cosa facciamo
ora?”. Se camminiamo con semplicità, in
compagnia di un Dio che viene ad abitare
con noi, queste porte ci conducono verso
l’esterno, verso la vita, verso l’esistenza.
Cogliamo allora che in questo oggetto
umile delle nostre case si annida un potenziale metaforico unico che siamo invitati a riscoprire ogni mattina quando
appoggiamo la mano sulla maniglia e
incominciamo un nuovo giorno.