Lisa Cremaschi "La creazione"
Maggio - Giugno 2020
Le prime pagine della Bibbia ci dicono
chi siamo; fanno da specchio a chi
legge.
La Bibbia ci mostra la profondità del nostro cuore, la nostra identità di creature
chiamate alla comunione con il Creatore,
con gli uomini tutti, con la creazione; una
comunione costantemente minacciata
nella quale emerge la fedeltà di Dio che per
amore ha creato l’uomo e per amore
perdona i suoi tradimenti.
Le pagine di Genesi 1 non
sono le prime quanto a
composizione. Prima sono
nati i testi relativi ad Abramo, ai patriarchi, all’esodo
dall’Egitto, alla traversata del
deserto e alla conquista della
terra promessa. Il popolo di
Israele ha conosciuto prima
la presenza di Dio nella storia, lo ha conosciuto come il Goel, il liberatore; più tardi
Israele ha compreso che il Dio, che lo ha
salvato dall’Egitto, è il Dio che ha creato il
mondo intero
Nella Bibbia troviamo due racconti della
creazione.
Il primo è detto sacerdotale e risale alla
metà del VI secolo, quando il popolo di
Israele era esiliato in Babilonia. Vuole affermare la bontà, la positività della creazione e l’autore si serve a questo scopo
dello stile linguistico, imprime al racconto
un andamento innico. La formula ki tob = è
cosa bella e buona, che si ritrova
sei volte in Gen 1, la troviamo
frequentemente nei salmi di
lode (Sal 100,5 – Sal 106,1). Per
sei giorni Dio lavora, il settimo
si riposa. Il significato dell’ordine dato al popolo di Israele di
riposare nel giorno di sabato
è anzitutto quello di fare memoria della creazione: Dio è il
signore della vita, è lui la fonte della vita,
non noi, non il nostro lavoro, non le opere
delle nostre mani. Giorno di riposo come
giorno di contemplazione del bello, di ogni
cosa bella che siamo chiamati a custodire,
ricordando che siamo in cammino, in attesa del Regno. Possiamo porre dei segni,
segni di bellezza, segni di vita buona e bella
nonostante tutto. Per dieci volte torna la
formula: ”Dio disse”. Sul Sinai le dieci parole - il Decalogo - hanno creato Israele
come popolo: c’è stata un’alleanza di Dio
con il popolo di Israele, ma qui c’è
un’alleanza di Dio con l’intera
creazione, creata bella e buona. La Bibbia canta la bellezza del creato, la bellezza del
corpo; sono dimensioni che,
purtroppo, a volte sono state
dimenticate, rinnegate, tradite da noi cristiani. Quando
Dio cominciò a creare cielo e terra, la terra
era informe e deserta. Il verbo qui utilizzato - in ebraico bara’ - nell’AT ha sempre
per soggetto Dio e indica una meraviglia
operata da Dio dentro la storia.
Ora il riferire questo verbo alla creazione, e
in particolare alla creazione dell’uomo, indica che la Creazione è opera meravigliosa
di Dio. Non viene detto che Dio crea dal
nulla, ma con la creazione Dio dice di no
al caos, alla tenebra, all’oscurità. Troviamo
riflessa in queste parole la nostra esperienza umana, umanissima di de-creazione; quando perdiamo il senso della nostra
vita, quando siamo nell’angoscia, la nostra vita diventa informe e deserta. La de-creazione, il movimento inverso a quello voluto
da Dio, resta una possibilità; rifiutando lo
spirito di Dio possiamo trascinare la nostra vita nel caos, la creazione nel caos.
La creazione dell’uomo è l’ultima opera di
Dio; l’uomo è cosa “molto bella/
buona” (Gen 1,31). Essa è introdotta da una formula solenne:
“Facciamo l’uomo a nostra
immagine, come nostra somiglianza”. Perché viene usato il plurale? Non si tratta
certamente di un plurale maiestatico perché questa forma non esiste
in ebraico. Forse Dio parla con gli angeli,
come affermano alcuni rabbini? (Questa
è un’interpretazione frequente nella tradizione ebraica). Forse potremmo leggere questo plurale “facciamo” in un altro
modo. Dio si rivolge all’uomo e a lui dice:
“Facciamo…”. Diventare uomini e donne è
un’opera che si realizza in collaborazione
con Dio. Dio chiede la nostra collaborazione, il nostro assenso. Perché la nostra
vita sia bella e buona occorre la nostra
collaborazione. Abbiamo sempre la tragica possibilità di rifiutarci di collaborare
all’opera di Dio, di sottrarci alla bellezza
della vita umana.
Il secondo racconto della creazione
dell’uomo (Gen 2, 4b-24) si apre con la
scena di cielo e terra che sono già stati
creati da Dio, ma non sono ancora abitati; è una scena di grande desolazione: una
steppa arida, deserta, priva di vita. A questa sterilità della terra vengono date due
motivazioni: 1) Il Signore non aveva ancora fatto piovere sulla terra; qui la pioggia è
vista come dono, benedizione di Dio, possibilità di vita.
2) Nessuno lavorava la terra; la terra per dare frutto ha bisogno del lavoro
dell’uomo. La creazione
senza qualcuno che la
custodisca e la lavori è incompiuta. Il
mondo preesistente all’uomo dovrà diventare mondo per l’uomo, un mondo in
cui l’uomo possa vivere. All’opera di Dio
che fa scendere l’acqua dall’alto mediante
la pioggia, risponde l’opera dell’uomo che
incanala quest’acqua perché il dono di Dio
non vada sprecato. In questa steppa arida, Dio, come abile vasaio, plasma l’uomo,
che è polvere dal suolo. L’uomo: l’adam,
proviene dalla terra: l’adamah. Il verbo qui
adoperato jatzar ricorre frequentemente
nella scrittura per definire l’azione di Dio.
(Lo troviamo ad esempio in Geremia 1,5;
nel Salmo 33,5; nel Salmo 103,14; nel Salmo119,73).
Che cosa significa tutto questo per noi
oggi? Certamente nella vita di ciascuno
emerge una eredità genetica, psicologica,
i condizionamenti sociali che hanno influito sulla crescita, sul modo di pensare la
vita e i rapporti con gli altri.
Certamente la mia vita è frutto dell’incontro di un uomo e di una donna, è una
vicenda segnata da un amore più o meno
riuscito, segnata anche da ferite, da mancanze. Eppure tutto questo non spiega il mistero della vita, il “da dove”, il “perché”
del mio essere ora, qui in questo mondo,
in questo corpo, in questa storia.
Vi parlerò ora con parole ispirate a Romano
Guardini in “Accettare se stessi”. Lo sguardo di fede ci porta a leggere la vita come
dono. Al principio della mia esistenza sta
un’iniziativa, un Qualcuno che ha dato me
a me stesso/a. Mi ricevo dal Signore. Dio
mi ha affidato a me stesso. La mia vita è
dono e compito. Ho il dovere di essere
quello che sono, di essere
io. Non posso dimissionare
da ciò che sono, fuggire da
me stesso rifugiandomi nella
fantasia e sognare di essere
qualcos’altro rispetto a ciò che sono. Mi
è chiesto il coraggio di accettarmi così
come sono, di non sottrarmi al compito
di esistere, acconsentire di stare nei limiti
che mi sono tracciati; in altri termini a rispondere “Amen” al dono della vita. Dio
ha voluto proprio me, mi ha pensato, mi
ha plasmato, mi ha inviato dentro questa
storia, mi ha dato qualcosa di sé: il soffio
di vita.
E dentro le vicende della mia esistenza
sono invitato a narrare, in un modo che
sarà solo mio, l’amore del Signore, quell’amore infinito, insondabile, di cui ciascuno,
a suo modo, è chiamato a diventare pura
trasparenza, fedele narrazione.