Emanuele Borsotti "Il giardino del mondo"
Maggio - Giugno 2020
La Bibbia dalla Genesi all’Apocalisse, dalla prima all’ultima pagina, è una lunga
traversata all’interno di un vasto giardino:
giardino di parole, di immagini, di cose, di
persone, di animali.
Il giardino è un luogo recintato, uno spazio che ospita fiori, piante, alberi da frutto,
minerali…ed è sempre il risultato dell’incontro tra la natura e la cura e la progettualità umana. Sempre luogo di varietà e di pazienza:
pazienza della natura, del
tempo e dell’uomo che
se ne prende cura. Quindi
è alleanza vitale tra il cosmo e l’uomo. In
questo senso il giardino è spazio di sinestesia, cioè spazio dove più sensi si incontrano: odori e rumori, colori, luci e ombre,
diversità tattili… Victor Hugo lo definisce
“una realtà a volte impenetrabile come
una foresta, ma popolata come una città;
fremente come un nido, oscura come una
cattedrale, odorosa come un mazzo di fiori
e viva come una folla”. Sì perché i giardini sono tante cose insieme: luoghi di parole, di conversazioni sussurrate, di giochi di
bambini o anche luoghi di rifugio per meditazioni, nascondigli oppure cappelle naturali per pregare. Il giardino è un microcosmo dove c’è un frammento di ogni cosa,
un frammento che ci rimanda al tutto: il
giardino come la più piccola particella del
mondo che è in sé la totalità del mondo.
É stato definito il terreno
della leggibilità del mondo,
perché i giardini ci raccontano la storia universale. A partire dall’”in principio”, dall’esperienza biblica di un Dio giardiniere, l’”in
principio” del mondo possiamo dire che è
avvenuto in un giardino.
Ѐ scritto che Dio piantò un giardino in
Eden e vi pose l’uomo. L’uomo posto nel
giardino è incaricato di riempire la terra,
soggiogarla e dominare il mondo animale.
Giardino nella lingua biblica è detto gan,
una parola che indica uno spazio recintato e che poi è stata tradotta in greco con paraidos, quello che è diventato il nostro
paradiso. Paraidos è una parola di origine
iranica, da pardes; questa parola antichissima passa dall’iranico all’ebraico, dall’ebraico al greco e dal greco alle nostre lingue senza essere mai stata tradotta, ma
sempre e solo importata come un
calco da una lingua all’altra. E
l’idea iranica è quella di un giardino, luogo di pace e refrigerio
e soprattutto luogo attraversato da un reticolato di acqua.
Questo paradiso entra nel NT
soprattutto in Luca, in Corinti e
nell’Apocalisse. In Luca 23 è scritto: “Oggi sarai con me in paradiso”, nel
giardino della vita. A meno che non si intenda: oggi sarai con me, (virgola) in paradiso, quindi il paradiso è Cristo stesso. Tu
sarai con me, nella vita con me e questo è
il paradiso.
Nel Cantico dei Cantici il giardino è il luogo d’incontro dell’amore. Questo cantico
ha come scenario un giardino di profumi,
di aromi, di fontane e al suo interno stanno un uomo e una donna i cui corpi sono
a loro volta descritti come dei giardini. Soprattutto nei capitoli 4-5-6 il dialogo tra l’uomo e la donna è tutto intessuto di questo richiamo al gan, al giardino, addirittura al paradiso. Per l’uomo lei è un giardino
chiuso, una fonte sigillata (allusione anche
a una metafora erotica). I suoi germogli
sono un paradiso di melograno, tutti gli aromi (mirra, aloe)
sono per raccontare i profumi
del corpo di lei nel quale l’amato
si perde. E naturalmente, come
in ogni giardino c’è una fonte di
acqua viva. L’amore è esperienza
di acqua viva dove l’umano va ad
attingere per placare la sua sete.
In sostanza il Dio di Israele è innamorato
del giardino e nel giardino colloca l’uomo.
Non lo pone in una città. La città l’hanno
voluta gli uomini e sarà proprio Caino, il
primo omicida, a costruire la città. La città
sotto il segno di Caino, il giardino sotto il
segno di Dio.
La Bibbia si chiude poi con una città giardino; ha mura ma è attraversata da un fiume
e al centro c’è un albero della vita che dà
frutti 12 volte l’anno. Quindi il giardino,
anche nell’immaginario comune, ha in sé
una beatitudine. A ben guardare però nella
Bibbia ci sono luci ed ombre del giardino. In Gen. 2,8 Eden è un giardino a oriente,
come a dire distante, irraggiungibile, sconosciuto. Eden in ebraico si costruisce a
partire da tre consonanti che sono usate
anche per indicare un luogo di delizia, di
fertilità, di divertimento; un paradiso di
piacere. Ma fin dall’inizio questo incantesimo campestre si rompe, si consuma
la prima crisi dell’alleanza tra il creatore e
gli uomini.
Dopo aver mangiato il frutto che non dovevano mangiare l’uomo e la donna si nascondono, hanno paura di Dio. Gli alberi
diventano nascondigli di una umanità in
fuga. Dio è sentito come una minaccia e
nel paradiso si allunga un’ombra di morte.
E se facciamo un balzo nella storia di Gesù
(Gv. 18,1) anche lì troviamo dei giardini
e anche lì l’ambiguità di questi
posti. Nel vangelo di Giovanni si dice che Gesù va
in un giardino, oltre il torrente Cedron. É il giardino
(kèpos in greco) in cui si
consuma il tradimento, la
perversione del bacio che
da gesto di affetto diventa
gesto di congiura.
É un giardino di solitudine, i discepoli dormono mentre Gesù è incamminato verso
la morte e forse questo giardino diventa il
confidente di un uomo solo consapevole
della sua ora estrema. Però questo giardino in cui Gesù è entrato ci immette in un
altro luogo; Gesù viene crocifisso e si dice
che in questo luogo c’era un giardino e in
questo giardino c’era un sepolcro nuovo.
Qui la vita viene inghiottita nel buio della
morte e viene messa una pietra tombale;
eppure nell’alba di Pasqua, questo giardino
è attraversato da un vivente. C’è l’incontro
tra una donna, Maria di Magdala e un tale
che lei non riconosce, che ha le sembianze del custode del giardino. Ed è interessante come avviene il riconoscimento, i tratti
fisici sono quelli di un giardiniere, ma risuona una voce, una voce amata e scatta il
riconoscimento. Nel cuore di Maria viene
deposto il granello di senape della fiducia,
il seme della fede pasquale che lei dovrà
condividere e spandere nel campo della
Chiesa. In questo giardino avviene, possiamo dire, l’incontro tra la sposa e lo sposo:
il Cantico dei Cantici rivive nel giardino
della resurrezione. Cristo inaugura un nuovo giardino in cui è possibile incontrarlo; la
tradizione vuole infatti che questo giardino pasquale sia la Chiesa, la Chiesa come
un giardino di riconoscimento, riconoscimento che la morte è vinta.
Ritorniamo a Gen. 2, 15: Dio
ha piantato un giardino e vi
ha messo l’uomo perché lo
coltivasse e lo custodisse. Il giardino, prima casa
dell’umanità, è figura del
dono e noi ne siamo i destinatari e, nel passaggio
delle generazioni, coloro che lo ereditano. Venendo al mondo abbiamo ereditato
il giardino (un triplice giardino: quello di
casa nostra se lo abbiamo, il giardino planetario e il giardino che è quello che ci portiamo dentro: la nostra vita), ma il giardino non è una entità auto-sussistente,
ha bisogno della cura dell’uomo.
Curare e coltivare il giardino è un rapporto di coinvolgimento: l’uomo diventa tale
nella misura in cui coltiva e custodisce il
giardino. Mentre l’uomo si prende cura
di una realtà altra nello stesso tempo
custodisce la propria umanità. Coltivare (abad) e custodire (shamar) in ebraico
hanno un valore concreto, è il coltivare la
terra, ma nello stesso tempo questi verbi
indicano anche il prendersi cura di Dio, il
rendere culto. Così come in latino “colere”
cioè coltivare significa anche rendere culto
a Dio.
Culto e cultura insieme alla coltura sono
attività umane imparentate tanto che
hanno in ebraico un solo verbo che li rappresenta: shamar, che letteralmente è
guardare, posare lo sguardo su, imparare
a vedere al di là delle apparenze. Dunque
non sfruttare, ma essere responsabili, saper esercitare l’autoritas cioè l’autorità che
lascia spazio e fa crescere. La mia autorità
non è dispotismo, dominio, ma è lasciar
crescere: questo è il senso della cura.
Il giardino, nella tradizione, si dà sempre
chiuso da una recinzione che lo separa
da altro, questo ci dà il senso del limite.
Questo muro che cinge ci dice il limite a
cui l’uomo può arrivare, limite proporzionato alle sue forze, l’uomo non ha l’onnipotenza di poter curare tutto.
Quindi deve anche coltivare il suo limite
nel senso di avere memoria di quel limite
inscritto nella sua naturalità. Come nella creazione c’è sera e mattino, un limite temporale, così c’è il limite delle forze
del giardiniere che deve essere rispettato.
L’uomo è però chiamato a rispondere di
ciò che gli è stato affidato e poi a rispondere di se stesso, dei suoi atti. Curare e
custodire ci parlano di responsabilità,
responsabilità non solo di ciò che ho già
fatto, ma anche del mio futuro, della mia
promessa e del mio progetto, dell’eredità
che devo trasmettere.
Sarò un responsabile amministratore
quando sarò capace di gratitudine per il
dono che mi è stato dato, quando avrò
consapevolezza della mia dignità umana e
poi quando avrò fiducia, se sono credente,
in questa creazione chiamata ad essere trasfigurata e a diventare il giardino di
Dio in cui gli opposti e i diversi vivono
in convivialità. La nostra responsabilità di
educatori sarà quella di formare le nuove
generazioni a questa cultura del giardino.
Vivere il giardino è imparare la sua temporalità; l’uomo è agitato da frenesia, il
giardino ci insegna ad andare al ritmo della natura che è attesa, pazienza, lasciar andare.
Pensiamo all’albero, ci insegna la grammatica della fedeltà e della pazienza: le
radici sono la lezione del rimanere, dello
stare lì; le foglie che cadono sono lezione
del lasciar andare, del non trattenere; le
gemme di primavera sono lezione del ricominciare e il ramo carico di frutti è lezione
del donare.
C’è una saggezza della lentezza che dobbiamo adattare alle nostre umane e quotidiane impazienze. E infine il giardino è
certo un luogo da conservare, ma pure
luogo della gratuità e della bellezza
dove non tutto è coltivato per essere consumato, per essere goduto dal palato, ma
goduto, fruito nel dono della contemplazione, per essere guardato nella sua bellezza, per essere contemplato.