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Luciano Manicardi "Il limite come apertura"

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5 ottobre 2020

Il Covid-19 ha reso limite ciò che non lo era. Anticipiamo alcuni spunti dell’intervento di Luciano Manicardi, priore del monastero di Bose, al Centro Pime di Milano il 7 ottobre alle ore 21, in apertura del programma di conferenze dell’Ottobre missionario 2020.

L’ambivalenza del limite. La parola “limite” è normalmente percepita in senso negativo come realtà che ostacola, frena il pieno sviluppo delle possibilità umane e della crescita in diversi ambiti. Ha scritto Emmanuel Mounier: «L’insofferenza dei nostri limiti deriva in gran parte dal fatto che li consideriamo troppo di frequente sotto il loro aspetto negativo … Rinnegarli, di solito, non significa elevarci al di sopra di essi, ma optare per l’inconsistenza». In realtà, il limite è la condizione stessa della vita. È ciò che preserva l’esistente dall’informe. Dunque, il limite è realtà ambivalente e, nella sua ambivalenza, è interrogazione rivolta a noi: lo sappiamo accogliere, lo rimuoviamo, lo assumiamo solo come sfida da superare per mostrare la nostra potenza? Come dice Mounier, rinnegare il limite non significa renderci più forti di lui, ma votarci all’inconsistenza. Il problema non è il limite in quanto tale, bensì lo sguardo che su di esso portiamo. 

Il limite come condizione e possibilità della vita e della relazione. Senza il limite non ci sono distanza né alterità, dunque non c’è spazio per la relazione, per l’incontro con l’altro, per l’amore, ma c’è solo invito alla fusione, all’assorbimento dell’uno nell’altro, dunque alla violenza. Senza limite non c’è forma, ma informe, non c’è relazione ma confusione, non c’è ordine ma caos. Senza limite il campo è aperto per la violenza e la distruttività. Senza limite non c’è convivenza civile, non c’è polis: la legge è oggettivamente un limite, ma un limite vitale, che consente la vita associata. Si tratta di un limite concordato e scelto che pone gli argini vitali che consentono agli uomini di vivere accanto senza sopraffarsi. Senza i limiti non c’è legalità: questa prevede norme, regole, legislazioni che proibiscono e permettono. Senza il limite della legge c’è il prevaricare del più prepotente sugli altri, c’è il pretendersi esente dai meccanismi della giustizia e dalle sanzioni della legge che deve essere uguale per tutti. La cultura dell’illegalità si fa beffe dei limiti e li deride. Se non si accettano i limiti che sono le norme del vivere comune, regolati dal diritto e dalla giustizia, si entra nell’arbitrio, nel caos, nell’illegalità, nella corruzione. È evidente che il “senza limite” che ho ripetuto significa senza riconoscimento e assunzione del limite. Il limite, assunto serenamente, è apertura. Apertura all’altro e all’oltre. 

Limiti e Covid-19. Il confinamento dovuto all’epidemia di Coronavirus ha reso limite ciò che non lo era. Sono stati ristretti gli orizzonti dell’uomo globale: strade sbarrate, viaggi preclusi, restare tra quattro mura per giorni e giorni, non varcare la soglia della propria casa. L’esperienza umana basilare del camminare è stata fortemente limitata. La storia dell’umanità comincia con i piedi: camminando l’uomo copre distanze, occupa territori, esplora e abita la terra. In tempi di confinamento il massimo per molti era il periplo del tavolo in cucina o in salotto. In particolare, l’esperienza dell’epidemia ha a che fare con l’invisibile, ma è corporea. È spirituale e materiale perché riguarda il corpo e le relazioni, il rapporto con sé e con gli altri. Il Covid-19 ci rinvia dunque al limite che è il corpo, impedito di toccare, abbracciare, dare la mano e che deve imparare una prossemica per niente mediterranea. Quella inter-individualità essenziale allo sviluppo umano è stata fortemente limitata. Ognuno di noi sa di essere percepito come potenziale minaccia e teme di essere contagiato dall’altro. L’esperienza del toccare è inibita dai cosiddetti “gesti-barriera” che l’epidemia ci obbliga a mettere in atto. L’esperienza del “distanziamento sociale” ha ripercussioni sulla nostra esperienza sensoriale quotidiana. Il nostro stesso volto, evocazione immediata del nostro nome e della nostra unicità, è obbligato a mascherarsi. Fatichiamo a riconoscere l’amico se non si toglie la mascherina. L’esperienza dell’epidemia ci ha sbattuto in faccia con durezza la realtà del limite, dei tanti limiti della nostra esistenza, a partire dal limite del nostro corpo. 

Il corpo, tra finitezza e tensione di infinito. Il corpo è uno spazio delimitato: altezza, peso, volto, capelli, lineamenti fisici, tra l’altro in evoluzione con l’età. Perché il corpo è anche tempo, e tempo limitato. Il corpo è uno spazio-tempo limitato. Il corpo è lo spazio inaggirabile: ovunque io vada lui è con me. È in questo corpo che guardo, parlo, tocco, che sono visto e ascoltato. Il corpo è, da un lato, spietata topia, luogo assoluto, qui e ora irrimediabile e, dall’altro, è il nucleo da cui si sprigiona ogni utopia, è la possibilità di ogni altrove, di ogni movimento e spostamento, punto zero del mondo dove i percorsi e gli spazi si incrociano. Il corpo, nel suo essere limite, è anche vocazione all’incontro e appello a relazione, è dono e possibilità di donazione. Il corpo sente, sogna, desidera. Il corpo è spazio visibile e tangibile, ma anche tensione immaginativa, proiezione al di fuori, anelito verso l’alterità. Il corpo è desiderio. Proprio perché è limitato, sa fare spazio a un altro corpo e donarsi nell’incontro di amore. L’esperienza della carezza, che percorre i limiti del corpo dell’altro, che ne asseconda le forme e che lascia tracce delicate di sé nel corpo dell’altro, è possibile grazie alla limitatezza del corpo umano. Ma la carezza, che si esercita sul limite corporeo, è evocazione di infinito. Il corpo poi sa donarsi nel fare l’amore, luogo culminante dell’esperienza erotica, dell’esultanza dei sensi, ma anche della fecondità della vita. Il limite del corpo non è ostacolo, ma condizione dell’accoglienza che esso fa a un altro corpo nel reciproco scambio dell’amore. Qui l’infinito è esperimentato nel finito: nella finitezza dell’amore sperimentiamo l’infinitezza del nostro essere. Il corpo si dona perdendosi in un altro corpo per ritrovarsi, per riconoscersi perdendosi. I sensi, i materiali cinque sensi che contraddistinguono il nostro corpo ci pongono in relazione con l’alterità: consentono a noi di fare esperienza del mondo e al mondo di fare esperienza di noi. E in questo, il corpo è più che mai spirituale. Perché ci apre all’alterità. Il corpo è finito, ma anche tensione di infinito. Esso ci apre alle possibili esperienze di gratuità e di relazioni di dono che sono l’amicizia, l’amore, l’accoglienza, la prossimità. 

Il limite della morte. L’esperienza dell’epidemia ci ha posti di fronte alla morte, limite radicale della condizione umana, in maniera brutale. Corpi morti che scompaiono e che non si vedranno mai più, corpi morti senza possibilità di un ultimo saluto e di un rito che aiuti il lutto. La pandemia è stata un memento mori. Una memoria della nostra caducità che ci dovrebbe aiutare a concentrarci su ciò che nell’esistenza è centrale, essenziale, vitale. Un simile memento mori, in quella società che la sociologa canadese Céline Lafontaine chiama postmortale, è uno shock culturale di straordinaria portata. 

Il limite che la morte è ha questa importanza: di fare della vita un quadro dandole una cornice. La morte rende vivibile la vita dandole una fine. Inumana è una vita senza fine. Si smarrisce, nell’umanità non limitata dalla morte, il senso dell’unicità di ogni persona e dunque non nasce la relazione di gratuità, non c’è la gioia di ciò che è unico. Ciò che è unico è prezioso, ma anche precario: la precarietà fa parte della preziosità. La morte è condizione della vita proprio nel suo mettere un confine alla vita stessa. Questa negazione positiva è la funzione del limite, che dà forma, e dunque vita, a ciò che limita. Il vivente è tale solo a condizione di essere mortale: muore solo ciò che vive, mentre ciò che non muore neppure vive. In questo senso possiamo affermare che il limite è grazia. Perché ci libera dall’inumanità. E ci consente, con quella morte vitale che è l’amore fino a spendere la vita per gli altri, di vivificare la vita mortale che ci tocca in sorte. 

Modello del controllo e modello della cura. Di fronte alla limitatezza umana si dischiudono due possibili risposte: o la cura e la responsabilità, o il dominio e il controllo. Se prendiamo l’ambito dell’ambiente, l’ecologia integrale propugnata da Papa Francesco afferma che la cura dei poveri si deve associare alla cura del pianeta. Lì la responsabilità diviene lotta contro alcune dominanti dello spirito umano che agiscono in base a un modello di controllo e di dominio che si fonda su imprevidenza, arroganza e cupidigia. Ne sono esempi lo scioglimento dei ghiacciai, la scomparsa di specie viventi, animali e vegetali, la sparizione ogni anno di immense quantità di verde: si pensi agli incendi nella foresta amazzonica dovuti a interessi economici dei latifondisti, a corruzione e prepotenza dei responsabili politici, a disprezzo delle popolazioni indigene e a indifferenza e irresponsabilità per le conseguenze di ciò a livello planetario. 

Come modello di responsabilità e di cura si pensi, per contrasto, ai due milioni di alberi piantati da Sebastião Salgado e dalla moglie per far rinascere la foresta pluviale nel Sud-est del Brasile, come documentato nel film di Wim Wenders “Il sale della terra”. Occorrerebbe riconoscere che esistono limiti alla nostra potenza e che solo quando si riconosce l’esistenza dei propri limiti si diventa capaci di vivere bene nello spazio che ci è riservato. Spazio che è sempre limitato e condiviso con altri.
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