Massimo Recalcati "Nessuno tocchi Caino"
Nessuno tocchi Caino
lunedì 31 agosto 2020
Il gesto di Caino è senza pietà: uccide il fratello spargendo il suo sangue sulla terra. Non lascia speranza, non
consente il dialogo, non ritarda la violenza efferata dell'odio. È da questo gesto che la storia dell'uomo ha
inizio. Sappiamo che l'amore per il prossimo è l'ultima parola e la più fondamentale a cui approda il logos
biblico. Ma non è stata la sua prima parola. Essa viene dopo il gesto di Caino. Potremmo pensare che l'amore
per il prossimo sia una risposta a questo gesto tremendo? Potremmo pensare che l'amore per il prossimo si
possa raggiungere solo passando necessariamente attraverso il gesto distruttivo di Caino? Quello che è certo è
che nella narrazione biblica l'amore per il prossimo viene dopo l'esperienza originaria dell'odio. Essa non
istituisce alcuna retorica altruistica, non racconta una pastorale "umanistica" senza ombre, non sostiene il mito
dell'uomo nato "buono", non misconosce che la tentazione dell'odio e della distruzione alberghi nell'uomo
assai prima rispetto a quella dell'amore.
Il racconto biblico appare implacabile e disincantato: la violenza del crimine viene al mondo solo attraverso
l'uomo e segna indelebilmente il rapporto col fratello. L'innocenza della natura appare scossa da un vortice
imprevisto; non si tratta solo di un impulso irrazionale, né tantomeno di una regressione dell'umano alla
dimensione primitiva dell'animale. In gioco è una rottura tra l'uomo e la natura e tra l'uomo e l'altro uomo che
definisce l'uomo in quanto tale. Più di preciso, il testo biblico mostra che nella violenza si manifesta il carattere
perverso e narcisistico del desiderio umano; la sua spinta a distruggere l'alterità, l'aspirazione alla propria
divinizzazione, il desiderio dell'uomo di essere Dio. In questa spinta si cela la vera ambizione umana e la
matrice ultima della tentazione della violenza.
È questo un tema che percorre come una costante tutta la narrazione biblica. Il vero peccato non è quello che
privilegia la creatura a scapito del Creatore invertendo il loro ordine ontologico - come riteneva classicamente
Agostino - , ma è quello che conduce la creatura ad assimilarsi al Creatore, che spinge l'uomo a voler essere
come Dio. Il desiderio umano è infatti attratto dall'illusione di realizzare un essere che non conosca l'esperienza
negativa e lacerante della mancanza. L'esistenza simbolica della Legge della parola si configura come una
interferenza indebita che compromette e differisce inevitabilmente questa realizzazione. Per questo l'odio è
innanzitutto odio nei confronti del linguaggio. La Legge della parola impone infatti l'impossibilità di essere
senza l'Altro, dunque di essere senza mancanza. Di qui l'odio dell'uomo nei confronti di questa Legge che lo
espone a riconoscere il carattere insuperabile della propria "mancanza a essere", che, come ricorda Lacan, non
è semplicemente mancanza di qualcosa, ma è una mancanza che pervade l'essere stesso della soggettività
umana. È questo il vero oggetto dell'odio: la mancanza - generata dalla Legge della parola - che vincola il
soggetto all'Altro.
Il ricorso alla violenza punta ad aggirare questo vincolo volendo raggiungere il suo obiettivo che è quello di
distruggere la mediazione - inaggirabile - dell'Altro. La meta perversa del desiderio umano è quella di
costituirsi come un essere che basta a se stesso, come un ens causa sui, un essere padrone del proprio
fondamento. Nella violenza come nell'allucinazione, l'illusione consiste nel rendere raggiungibile questa meta,
come direbbe Freud, per "via breve", senza passare, appunto, dalla faticosa e ineludibile mediazione dell'Altro.
Se il movimento dell'amore per il prossimo incontra l'alterità dell'Altro come irriducibile a ogni simmetria e a
ogni reciprocità e se conduce l'uomo a riconoscere la sua dipendenza dall'esistenza dell'Altro, la spinta
indomita dell'odio è quella di distruggere l'Altro come sede della nostra alienazione nel nome di un ideale
assoluto di autonomia e di indipendenza, nel nome di un farsi essere senza mancanza.
Il gesto fratricida di Caino irrompe dunque come una figura traumatica sulla scena della narrazione biblica sin
dal suo esordio. È questa la seconda grande trasgressione dopo quella compiuta da Adamo ed Eva nell'Eden
con il furto del frutto dall'albero della conoscenza del bene e del male. La potenza negativa dell'umano emerge
con forza sin dall'origine: la spinta a trasgredire la Legge non definisce tanto un comportamento o una
attitudine psicologica dell'uomo, ma una sua disposizione fondamentale a realizzarsi - al di là della Legge
simbolica della parola - come una totalità, rigettando la mancanza che esso porta con sé. Nel racconto di Genesi
relativo alla trasgressione di Eva è questa la promessa tentatrice del serpente: mangiare il frutto proibito,
valicare la soglia della Legge significa trasfigurare l'umano in divino, negare il carattere insuperabile della
mancanza che, come detto, costituisce l'uomo in quanto tale. Anche Caino - come i suoi genitori - è costretto
a fare esperienza del trauma dell'impossibile: la sua vita di figlio unico è confrontata con l'intrusione traumatica
di Abele; il narcisismo del suo Ego sbatte contro lo spigolo del giudizio di Dio che preferisce i doni del fratello
minore ai suoi.
Tutto questo è troppo per lui. La furia omicida del suo gesto vuole colpire chi è alla radice della sua caduta. Il
fratello non è percepito come tale, non è degno di amore, ma solo di odio poiché colpevole di aver sottratto a
Caino il suo prestigio narcisistico presso la madre e presso Dio. Nel gesto fratricida non dobbiamo però leggere
solo la deviazione perversa dalla via dell'amore, ma una tendenza che definisce l'umano in quanto tale: colpire
il prossimo viene prima dell'amore per il prossimo. Se il prossimo indica il mio limite interno, dunque
un'alterità non semplicemente esterna ma anche interna, perché la mia esistenza non potrebbe esistere senza
quella dell'Altro, l'odio vorrebbe distruggere proprio questa alterità istituendo il soggetto come assoluto e
indipendente.
Per questa ragione, come ha notato tra i primi sant'Ambrogio, Caino e Abele non sono solo due figure
letterariamente autonome del racconto biblico - due personaggi - ma due parti "interne" del soggetto, l'indice
di una divisione che attraversa ciascuno di noi. Non si tratta dunque di avallare una lettura moralistica del
conflitto tra i fratelli - Caino, il male, contro Abele, il bene - che favorirebbe inevitabilmente la scissione tra il
bene e il male, ma di cogliere la complessità del cammino di Caino come un movimento di progressiva
soggettivazione di questa scissione: dal suo gesto brutale e dal rifiuto di assumersene la responsabilità, sino al
suo ingresso effettivo nella vita della città. Se la violenza criminogena dell'assassinio avviene in antagonismo
con la Legge della parola - "la violenza", ricorda Deleuze, "non parla" - , il percorso di Caino - per certi versi
simile a quello dell'Edipo di Sofocle - passa dalla tormentata assunzione della propria colpa, alla maledizione
di Dio; dall'erranza e dalla fatica del lavoro sino alla costruzione della prima città umana e della propria
paternità. Un lento e difficile processo che ha innanzitutto come presupposto il gesto di Dio di proteggere
Caino con un "segno". In questo modo Egli interrompe la catena della violenza che porterebbe ad assassinare
l'assassino, grazie all'emancipazione della Legge dalla logica della ritorsione e della vendetta, consentendo a
Caino di fare il lutto del proprio gesto senza il terrore di restare ucciso. Il marchio che Dio iscrive sulla sua
fronte è dunque, nello stesso tempo, quello luttuoso che commemora la morte del fratello e quello che lo
protegge dall'automatismo di una Legge solo sanzionatoria che vorrebbe dare la morte a chi ha dato la morte;
il segno di Dio, contro questa versione della Legge, disidentifica Caino dal suo stesso gesto, ricorda che la sua
colpa non deve autorizzare a identificare il suo essere con quello dell'"assassino".
L'ebreo Freud concepisce la storia dell'umanità come la storia di una serie infinita ed efferata di assassinii e il
nostro stesso inconscio come ispirato da una vocazione criminogena. Il nostro compito è dunque lo stesso che
ha atteso Caino all'indomani del suo gesto disperato e spietato: tradurre la violenza senza Legge dell'odio -
espressione del narcisismo dell'Uno che vorrebbe cancellare la mancanza che lo lega all'Altro - in un nuovo
legame possibile con l'Altro; consentire alla Legge della parola di interrompere la ripetizione senza fine
dell'odio e della distruzione