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“Il virus è una punizione di Dio?”

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David Neuhaus, «Il virus è una punizione di Dio?», Civiltà Cattolica 4077 (2020) 238-243.

«“Venuta la sera” (Mc 4,35). Da settimane sembra che sul mondo sia scesa la sera a causa del virus che ha causato una pandemia. Fitte tenebre si sono addensate sulle nostre piazze, strade e città; si sono impadronite delle nostre vite, riempiendo tutto di un silenzio assordante e di un vuoto desolante, che paralizza ogni cosa al suo passaggio: si sente nell’aria, si avverte nei gesti, lo dicono gli sguardi.
Ci siamo trovati impauriti e smarriti. Come i discepoli del Vangelo, siamo stati presi alla sprovvista da una tempesta inaspettata e furiosa»[1]. Le parole della toccante omelia di papa Francesco sono risuonate sullo sfondo di una piazza San Pietro deserta e della basilica retrostante vuota. Un gesto profetico per edificare, esortare e confortare un mondo sconvolto dalla diffusione del Covid-19 che sta distruggendo così tante vite umane.

I profeti di sventura che manipolano la Bibbia

Per chi ama davvero la Bibbia può risultare sconcertante che qualcuno stia piegando a proprio uso e consumo alcuni passi biblici che potrebbero far alludere a una crisi come quella del coronavirus. Si tratta di versetti sistematicamente estrapolati dal contesto e applicati a forza alla realtà attuale. I profeti di sventura se ne servono per proclamare che la pandemia che stiamo vivendo è una punizione di Dio adirato contro un mondo peccatore. Essi citano versetti contro qualsiasi cosa urti la loro sensibilità e infieriscono a colpi di Scritture su un’umanità già ferita e sanguinante. Talvolta sembra quasi di avvertire la soddisfazione con cui citano passi che descrivono piaghe e catastrofi scagliate da un Dio permaloso su un mondo che ha bisogno di essere punito.

Sullo stesso palcoscenico, accanto a questi sedicenti profeti animati dall’ira divina, si stagliano i moralisti del «te l’avevo detto», che a loro volta hanno setacciato le Scritture in cerca di testi che consentano di predicare con autorità le loro convinzioni circa ciò che è giusto a un mondo che finalmente dovrà riconoscere che la loro è davvero la ricetta per un domani migliore. Sia i profeti di sventura sia i moralisti del «te l’avevo detto» sembrano irrefutabilmente convinti che la crisi Covid-19 rientri in un modello biblico di castigo o rimprovero divino.

Il caso del re Davide e della peste

Ci sono alcuni testi biblici particolarmente inquietanti che a questi profeti di sventura sembrano molto indovinati per le circostanze dell’attuale «pandemia» (termine moderno che sembra riecheggiare le antiche pestilenze). Uno dei più espliciti potrebbe essere 2 Samuele 24, un’appendice alla storia del re Davide. Il capitolo si apre con parole minacciose: «L’ira del Signore si accese di nuovo contro Israele» (2 Sam 24,1)[2]. Perché? Perché Davide aveva ordinato il censimento, nonostante la resistenza del suo generale supremo, Ioab. L’astuto Ioab sembrava consapevole del fatto che questa azione era in contrasto con il comandamento della Legge. Perché un censimento doveva essere indissolubilmente legato alla raccolta di denaro per il tempio. Leggiamo, infatti, nell’Esodo: «Quando per il censimento conterai uno per uno gli Israeliti, all’atto del censimento ciascuno di essi pagherà al Signore il riscatto della sua vita, perché non li colpisca un flagello in occasione del loro censimento» (Es 30,12).

In realtà, il conteggio del popolo, che era diventato molto numeroso, doveva essere collegato a un gesto di ringraziamento, di riconoscenza verso Dio, che aveva adempiuto le promesse fatte ai patriarchi: «Porrò la mia alleanza tra me e te e ti renderò molto, molto numeroso» (Gen 17,2). Invece Davide aveva ordinato il censimento ignorando la Legge, e così era tornato a dimostrare che tendeva a sostituir­si a Dio, che pretendeva di essere lui la fonte della forza del popolo, come del resto aveva già mostrato aspirando a costruire un tempio che Dio non voleva (cfr 2 Sam 7) e spingendosi fino a uccidere il marito di Betsabea, pur di farla propria (cfr 2 Sam 12).

Sebbene Davide, una volta completato il censimento, si fosse pentito[3], il racconto biblico ci informa che Dio pretese un prezzo terribile. Permise a Davide di scegliere fra tre anni di carestia, tre mesi di fuga inseguito dai suoi nemici o tre giorni di peste. Il re chiese solo di non cadere nelle mani dei nemici. «Così il Signore mandò la peste in Israele, da quella mattina fino al tempo fissato; da Dan a Bersabea morirono tra il popolo settantamila persone» (2 Sam 24,15). Soltanto quando l’angelo devastatore stese la mano su Gerusalemme, il Signore disse all’angelo: «Ora basta! Ritira la mano!» (2 Sam 24,16). Il ripensamento di Dio è provocato dal fatto che Davide si era assunto la responsabilità del suo peccato: «Io ho peccato, io ho agito male; ma queste pecore che hanno fatto? La tua mano venga contro di me e contro la casa di mio padre!» (2 Sam 24,17).

Dalla falsa lettura alla corretta interpretazione

Eccoci al punto. Abbiamo la convergenza tra peccato e ira, tra offesa e conseguenze nefaste. Da questo passo, estrapolato dal contesto, i profeti di sventura – ai quali abbiamo fatto cenno sopra – potrebbero davvero desumere che l’attuale crisi – e prima di essa le inondazioni, gli uragani, le eruzioni vulcaniche, gli tsunami, l’Aids e qualsiasi altra calamità naturale e umana – sia segno del peccato e dell’ira, proprio come ciò che viene descritto nella Bibbia. E invece è importante sottolineare che chi traesse questa deduzione starebbe dando una lettura falsata del testo, ignorandone il contesto – sia storico sia narrativo –, le intenzioni dell’autore e il messaggio teologico sottostante.

La narrazione del censimento, infatti, rientra in una lunga storia che inizia con l’ingresso nel Paese, nel libro di Giosuè, e si muove ininterrottamente verso la distruzione di Gerusalemme e del tempio. Questa ampia saga, scritta verso la metà del VI secolo a.C., è il frutto letterario di un autore o di una scuola di autori che gli studiosi chiamano «deuteronomista». Lo scottante problema dell’epoca era quello di meditare sulla sciagura della distruzione del tempio, che Salomone aveva costruito, e della città di Gerusalemme, con il conseguente esilio a Babilonia. Insomma, la domanda alla quale risponde quel testo è: com’è possibile che Dio abbia donato a Giosuè la terra e che questa sia stata perduta con l’invasione babilonese?

L’intera tradizione narrativa deuteronomista è stata scritta in un contesto di devastazione: tutto era andato perduto. Il popolo doveva rileggere la propria storia per assumersene la responsabilità e chiedere perdono a Dio. La pagina biblica non intende affermare la pestilenza come punizione divina, bensì la necessità che il popolo – come Davide – si assuma le proprie responsabilità negli eventi che hanno condotto all’esilio[4].

Certo, secondo la comprensione di Dio nella Scrittura, che è sempre in divenire, vi è qui ancora una mentalità religiosa che tende a riferire tutto a Dio come causa prima e a collegare ogni avversità con un precedente peccato commesso, dal singolo o da altri. Dopo la «correzione» successiva dei testi profetici (ad esempio Ezechiele), per cui ciascuno paga soltanto le conseguenze del proprio peccato, sarà Gesù a contraddire questa logica religiosa di stretta dipendenza tra colpa e castigo (come nel caso degli episodi della torre di Siloe e del cieco nato).

Il flagello nel Nuovo Testamento

La lettura di eventi biblici come quello del disastroso censimento di Davide pone una sfida che non si ferma all’Antico Testamento. Anche il libro dell’Apocalisse utilizza l’immagine della peste.

Nel capitolo 16, una serie devastante di pestilenze, che ricordano quelle dell’Egitto, viene scagliata contro un popolo peccatore. Una voce celeste ordina a sette angeli: «Andate e versate sulla terra le sette coppe dell’ira di Dio» (Ap 16,1). E sul mondo viene lanciata «una piaga cattiva e maligna» (v. 2); nel mare «si formò del sangue come quello di un morto» (v. 3); «i fiumi e le sorgenti delle acque […] diventarono sangue» (v. 4); «gli uomini bruciarono per il terribile calore» (v. 9); «tenebre» (v. 10); «le acque [del grande fiume Eufrate] furono prosciugate» (v. 12); «enormi chicchi di grandine, pesanti come talenti, caddero dal cielo sopra gli uomini» (v. 21).

Questo è un resoconto sommario di alcuni dei cataclismi che vengono enumerati nel capitolo 16 dell’Apocalisse. E di nuovo si potrebbe desumerne la chiara punizione divina inflitta a un mondo senza fede. Quel testo, infatti, riporta tante immagini pronte a essere riprese e usate per flagellare quel mondo al quale i moderni profeti di sventura si sentono così estranei. Ma è proprio questo ciò che il testo intende dire al nostro mondo moderno, che soffre alle prese con l’attuale pandemia?

Se lo si estrapola dal contesto, il testo perde il suo significato principale. Nel libro dell’Apocalisse, come del resto nelle profezie apocalittiche anticotestamentarie, si intrecciano tre elementi: discernimento, chiarezza di visione e risposta.

Il libro cerca di discernere i tempi, il passato e il presente, delineando chiaramente le forze schierate in questo mondo e la posta in gioco, che comporta mettersi dalla parte di Dio.

In questo discernimento, i contorni del futuro vengono delinea­ti con discrezione. Il libro offre una visione basata sulla profonda fede nel fatto che Cristo ha già vinto la battaglia, e alla fine sconfiggerà il male, anche se lo scontro durerà a lungo.

Infine, il libro richiede una risposta, che non si risolve in una cupa profezia di sventura. Piuttosto, tutto dipende da come i credenti trasformano la propria vita alla luce della consapevolezza che alla fine Cristo sarà vittorioso. Essi devono impegnarsi attivamente nel rendere testimonianza e a cambiare il mondo con risolutezza. È un appello ad agire, a contribuire a costruire il Regno attraverso l’imitazione di Gesù, mite agnello immolato per la salvezza del mondo.

Il libro dell’Apocalisse, posto alla fine del canone cristiano, ci spinge a una fede sempre più profonda, a una conversione sempre più profonda, a una sempre più profonda nostalgia del regno di Dio.

Una missione per il tempo di prova oggi

Ai nostri tempi, l’Apocalisse ci ricorda che la Chiesa è chiamata a non assecondare una cultura dominante, intrisa di paura, di accuse, di chiusure e di isolamento. Se il mondo offre una visione del futuro costruita sulla paura, la Chiesa, invece, ispirandosi alla Bibbia e al libro dell’Apocalisse che la conclude, offre una prospettiva diversa, animata e fondata sulla certezza della Buona Notizia della vittoria di Cristo. Quando tutto sembra oscuro, il discepolo di Gesù è chiamato a irradiare la certezza che il tempo delle tenebre è limitato, che Dio sta venendo e che la Chiesa è chiamata con la preghiera e la testimonianza a preparare questa venuta. Ciò significa che la nostra lettura della parola di Dio nella Bibbia deve tradursi in un messaggio di Buona Notizia che richiama alla conversione un mondo in crisi, non in un giudizio moralistico o in una profezia di sventura. La Parola deve essere proclamata «per edificazione, esortazione e conforto»; non ci è stata affidata per maltrattare, prevaricare o opprimere lo spirito.

C’è un tema che attraversa la Bibbia cristiana dall’inizio alla fine: Dio non ha permesso, non permette e non permetterà mai al peccato, all’oscurità e alla morte di prevalere. Nella sua straordinaria benedizione Urbi et Orbi del 27 marzo scorso, papa Francesco ha saputo comunicare la Buona Notizia, ribaltando la tendenza a vedere la crisi come un giudizio di Dio. Rivolgendosi audacemente al Signore dall’interno del nostro mondo colpito dal Covid-19, ha detto: «Ci chiami a cogliere questo tempo di prova come un tempo di scelta. Non è il tempo del tuo giudizio, ma del nostro giudizio: il tempo di scegliere che cosa conta e che cosa passa, di separare ciò che è necessario da ciò che non lo è. È il tempo di reimpostare la rotta della vita verso di Te, Signore, e verso gli altri» (cfr 1 Cor 14,3).

Copyright © 2020 – La Civiltà Cattolica
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Note


[2]. Come se non bastasse, Dio «incitò Davide contro il popolo in questo modo: “Su, fa’ il censimento d’Israele e di Giuda”» (ivi). Questo versetto ha chiaramente scandalizzato il Cronista, colui che ha riscritto la stessa storia circa due o tre secoli dopo, inducendolo ad affermare che quell’iniziativa era venuta da Satana e non da Dio: «Satana insorse contro Israele e incitò Davide a censire Israele» (1 Cr 21,1).

[3]. «Ho peccato molto per quanto ho fatto; ti prego, Signore, togli la colpa del tuo servo, poiché io ho commesso una grande stoltezza» (2 Sam 24,10).

[4]. Inoltre, è importante notare che la Bibbia non si ferma qui. Nel canone cristiano tutta questa storia è di nuovo raccontata nei libri delle Cronache (e la storia prosegue, oltre l’esilio, con il ritorno e la ricostruzione del tempio e di Gerusalemme in Esdra e Neemia). Anche se narra sostanzialmente la stessa vicenda, questa volta lo scrittore del IV secolo a.C. non intende dare insegnamenti sul ravvedimento. L’intera narrazione è dedicata a uno scopo molto diverso, perché in questo caso l’insegnamento riguarda la gratitudine per l’effusione della grazia di Dio, di quel Dio che non ha permesso alla morte, alla distruzione e all’esilio di avere l’ultima parola. Al contrario, le ossa inaridite erano state ricoperte di carne viva con una meravigliosa risurrezione e il popolo aveva avuto un’altra occasione per vivere nella giustizia quando il re Ciro aveva permesso agli esiliati di tornare a Gerusalemme e di ricostruire il tempio. Nelle nostre Bibbie cattoliche c’è persino una terza serie di libri storici – che vanno da Tobia a 2 Maccabei – che propone un ulteriore racconto di quegli eventi. Se le prime due narrazioni si concentravano sul chiedere perdono e sul ringraziamento, questa terza presenta gli eroi della fede: Tobia, Giuditta, Ester, i Maccabei e i martiri in 2 Maccabei. Essi costituiscono esempi di vita giusta, incentrati sull’amore verso Dio e verso gli esseri umani.
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