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La sindrome del prigioniero

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LA SINDROME DEL PRIGIONIERO
(ovvero: le trappole implicite della fase 2)

di Rosella De Leonibus
 “Rocca” n. 10/2020

"La casa? E’ castello e isola, torre e caverna, miracolo e quotidianità, ordine e calore, è la voce delle cose che ci aspettano ogni giorno al nostro rientro." Fabrizio Caramagna

Covid 19, una pandemia che, a livello planetario, ha messo in serio pericolo la nostra salute, stravolto le nostre vite, interrotto la nostra quotidianità, e che per fortuna almeno per ora sembra lasciarci (letteralmente!) un po’ più di respiro, e la speranza concreta di riappropriarci almeno un poco delle nostre abitudini di vita precedenti. Ma… dopo aver festeggiato il calo sostanzioso dei contagi e il rallentamento della tragica conta delle vittime, concedetevi adesso un paio di minuti di contatto sincero con voi stessi.
Anche voi alla fine della fase 1 del lockdown (la quarantena imposta dalla necessità di contrastare la pandemia da Covid 19), avete ricevuto dal vostro mondo interno una sorta di strana sorpresa, che vi ha fatto dire a mezza bocca, oppure anche più apertamente, “ma.. tutto sommato sarebbe stato meglio continuare ancora un pochino a restare a casa”?
Avete anche voi sentito una inaspettata resistenza ad uscire di casa in modo più ampio, ad allargare il raggio dei vostri spostamenti, a ritornare al lavoro, pur se ne avevate sognato e agognato il momento per tutte le settimane precedenti?
Anche voi avete percepito un piccolo trasalimento, a volte difficile da ammette anche a se stessi, davanti alla presenza fisica di un amico, un conoscente, in fila come voi al supermercato, alle poste? E quando questa persona si è avvicinata, pur fermandosi ai due metri di sicurezza, pur indossando la mascherina, anche voi avete sentito questa sorta di irrigidimento nelle spalle, questa sensazione di voler un poco prepararvi ad arretrare se per caso questa persona si fosse avvicinata un centimetro in più?
E anche voi avete sentito quel mal di testa, quella leggera nausea, la mattina in cui avete ripreso il lavoro in sede, interrotto da quasi due mesi, e avete rivisto il vostro spazio, le persone con cui lo condividete, magari con la mascherina prescritta dalle norme di sicurezza?
Anche voi vi siete sentiti scorrere dentro, per qualche attimo una emozione strana, un misto di desiderio e paura, nostalgia e ritrosia, espansione e ritegno, quando in tv avete visto spettacoli registrati prima del Covid 19 con teatri affollati, attori e cantanti sudati che si abbracciano coi presentatori le presentatrici, bar sulla spiaggia pieni di giovani tutti pigiati insieme, allegri e spensierati, che condividono un drink come se non ci fosse un domani? Anche voi, quando uscite a fare i famigerati due passi, per la strada avete un impercettibile soprassalto quando in una via stretta incrociate qualcuno, e per quanto sia munito dei presidi di sicurezza, vi fate da parte per lasciarlo passare, e magari il vostro saluto è appena percettibile, incerto, timido e imbarazzato senza motivi apparenti?

USCIRE DALLA CAPANNA
Bene, tutto ok, non siete diventati affetti da fobia sociale, non siete diventati misantropi, siete solo incappati nella “sindrome del prigioniero”, detta anche “sindrome della capanna”. E’ il contrasto emotivo nel quale si trovano le persone che hanno vissuto una situazione di forti limitazioni, a cui però avevano fatto fronte con un buon adattamento. Un adattamento che era costato parecchia energia, era costato l’assorbire e il legittimare interiormente una frustrazione sostanziosa dei propri bisogni, e lo sforzo di ridimensionare la propria esistenza entro i confini prescritti. Molti studi affermano che questo passaggio richiede più di una settimana, forse due o tre, dopo di che l’essere umano, per sua natura psicobiologica molto adattabile e molto in grado di sostenere condizioni esterne avverse, “normalizza”, per così dire, la sua condizione di minor libertà e ridefinisce i suoi bisogni entro il confine che percepisce invalicabile. Questa nuova abitudine, che pur si è faticato ad acquisire, si stabilizza poi intorno ad un sentimento di prevedibilità e sicurezza; una nuova routine, in poche parole, ed è difficile abbandonarla quando le condizioni esterne cambiano. La stessa fatica che si fa all’inizio di una lunga vacanza per lasciarsi alle spalle i ritmi del periodo lavorativo, la si fa al rovescio al rientro, quando ci si deve reimmergere nel tumultuoso torrente della quotidianità urbana. Insomma, molti di noi non sono stati poi tanto tanto male quanto avevano temuto… la società del fare e del produrre, le città che non dormono mai, quelle del logorio della vita moderna, forse non le percepivamo ormai più, come un sassolino nella scarpa a cui ci si abitua, ma basta toglierlo per sentire sollievo e accorgersi, per differenza, del dolore di prima …

ISOLE SENZA ARCIPELAGO
E poi la quarantena non ha penalizzato solo poche vittime sfortunate. Ad eccezione di pochissimi, ha riguardato in qualche modo tutti, intere città, intere nazioni, si è espressa a livello planetario, ha costretto tutti ad una prolungata fase di interruzione del contatto sociale, per cui non sono scattati neppure quei meccanismi di emulazione, di senso di esclusione, e di bisogno di rivalsa, che sono attivi quando ci si ammala individualmente, o quando si è tagliati fuori da un flusso che all’esterno invece continua.
Covid 19 ci ha anche implicitamente autorizzato, a livello globale, a rallentare il ritmo, a sollevarci da responsabilità che avevamo assunto per routine, per pressione sociale, forse neppure troppo convinti né intimamente partecipi, e allora l’idea di tuffarci di nuovo “in un gomitolo di strade”, non è proprio esattamente ciò che in cuor nostro desideriamo… Il sacrifico della socialità (comunque enorme e carico di conseguenze) ha fatto guadagnare più tempo per stare a casa, ha significato per molti riappropriarsi dei gesti del quotidiano, viverli con attenzione e consapevolezza, pur nell’impegno faticoso, dedicare qualche cura in più ai propri cari, oppure stare di più con se stessi, sincronizzati sul ritmo dolce dei bisogni primari.
Anche chi ha sofferto molto dei limiti della quarantena, dopo un po’ di resistenza e minimizzazione del rischio, ha comunque finito per introiettare la paura e infine ci si è assestato dentro. L’istinto di sopravvivenza ha permesso di tenere a bada il senso di ribellione e ha prodotto comunque un adattamento, anche se meno sereno.
Ecco allora la sindrome del prigioniero: una formula empirica che viene dagli Stai Uniti, dagli stati del nord, dove l’estrema rigidità dell’inverno induce per necessità un forte ritiro sociale, un letargo relazionale e operativo, che assomiglia poi a quel che succede dopo una ospedalizzazione prolungata, a quel che accade ai carcerati che escono per fine pena, e che hanno un po’ paura di tornare ai contatti sociali, agli astronauti, ai navigatori solitari, a chi rientra da un esilio o dalla guerra.
Cosa hanno in comune queste difficili vicende umane? Sono situazioni traumatiche, che producono un forte stress, o quantomeno una fatica di adattamento. Ecco allora che il normale funzionamento psichico, e per primo quello sociale, sembra non marciare più spedito. Ci si sente strani e inadeguati, si è psicologicamente più deboli, e si avverte la difficoltà di accettare i cambiamenti che il mondo là fuori ha subìto, le nuove regole di prevenzione del contagio da seguire, e ricompare la paura di ammalarsi, che restando in casa era stata in qualche modo esorcizzata.

RI-INCONTRARSI, TUTTODUNFIATO?
Ed ecco che incontri questa persona, che magari avevi desiderato tanto ritrovare, e lei si allontana e tu pure, in una danza al contrario che perde il ritmo dei corpi e degli sguardi, perché l’amigdala, dentro il nostro cervello, ha introiettato la paura, gli si è stampata sopra a forma di volto umano scoperto, e invece il volto coperto, che era l’iconografia del bandito e del malvivente, adesso risulta più rassicurante, ma neppure troppo, perché non decodifico l’espressione del volto, meno che mai della parte inferiore, quel sorriso, quella bocca, che fin da lattante avevo imparato ad associare agli occhi per riconoscere il volto umano, la mia prima e più importante forma percettiva… e gli occhi senza la bocca mi parlano di meno… non arrivano al ramo ventrale del mio sistema vagale, quello che mi fa automaticamente rispondere al sorriso, quello che mi fa sentire rilassato per due occhi sereni e una bocca con gli angoli all’insù davanti al mio sguardo, quello che mi fa avvicinare, mi fa allentare la tensione e mi fa sciogliere la paura in un abbraccio, un abbraccio che arriva a coordinarsi senza esitazioni, che crea quel dialogo silenzioso dei corpi, che mi fa sentire di appartenere, e questa si è una danza, e vorremmo, quando si potrà, riabilitarci a danzarla di nuovo…..

"Non isolarsi, non cercare di affrontare i problemi importanti da isolati; da isolati non si risolvono che problemi di igiene, di salute personali e, se mai, di benessere ad un livello angusto." Aldo Capitini
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