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Donne, immaginario mariano e tentativi di risignificazione

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Simona Segoloni Ruta
n°235 gen/feb 2020

1. Simboli ed esperienza di fede

I simboli[1] sono estremamente efficaci, perché sono capaci di mettere la persona in contatto con l’esperienza da essi indicata in modo da indirizzarne le energie psichiche e quindi influenzarne il vissuto[2].
Dietro ogni simbolo, o meglio sarebbe dire dentro ogni simbolo, occorre cogliere però l’esperienza trasmessa per valutare criticamente non solo l’efficacia del simbolo – se esso, cioè, sia in grado di muovere la persona –, ma anche la sua bontà, che per i simboli cristiani consiste nella capacità di muovere le energie psichiche verso un sempre più profondo incontro con il Dio di Gesù.
L’esistenza della chiesa si gioca proprio sulla possibilità di esteriorizzare tramite un processo di simbolizzazione – costituito da dottrine, riti e prassi – l’esperienza di comunione con Dio fatta dal soggetto. Infatti l’incontro col Dio di Gesù avviene tramite la comunicazione della fede, che si esplica in una esteriorizzazione, sempre costituita da simboli, dell’esperienza fatta. Ovviamente tutto il processo di simbolizzazione – come i singoli simboli – è in continuo movimento e ridefinizione, perché cambiano i contesti e quindi cambiano le domande poste dai soggetti. Mutano, inoltre, i significati attribuiti e anche la capacità dei simboli di toccare l’interiorità dei soggetti.
La tradizione della chiesa è un continuo riattingere all’esperienza fondante comprendendola ed esprimendola in simboli: parole, gesti, riti. Un processo vivo di continua riscrittura della fede ricevuta, con inevitabili punte dialettiche in cui si chiede di discernere fra interpretazioni diverse e con necessarie purificazioni di interpretazioni riconosciute come incapaci – o non più capaci – di esprimere l’esperienza fondante. Anche per i simboli mariani e per Maria stessa, che assurge a simbolo di per sé, è necessario tenere presente tutto il processo e domandarsi del significato, dell’efficacia e della bontà dei simboli, aggiungendo al già complicato processo di analisi e discernimento, il bisogno di porre la domanda sul femminile, perché il simbolo Maria è femminile, come anche i simboli che diversamente lo esplicitano o lo richiamano.

2. I simboli femminili

Definire il femminile è estremamente difficile: sia perché esso è un volto dell’umano in rapporto reciproco con il maschile, quindi sfugge a una definizione individuante, quanto piuttosto è esposto alla continua ricollocazione nella relazione che maschile e femminile riescono a stringere nei diversi contesti e contingenze; ma anche perché la storia culturale dell’umanità è segnata da una struttura di pensiero che si definisce patriarcale e androcentrica, per la quale il maschile è la norma dell’umano e il femminile una sua variante da giustificare e comunque sempre da considerare inferiore.
In tale contesto i simboli femminili vengono sempre elaborati dagli uomini maschi e tendono sempre a rafforzare la gerarchia esistente, nonché a soddisfare i bisogni più profondi del vissuto maschile. Non che le donne non siano anch’esse protagoniste del processo di simbolizzazione, ma lo fanno comunque dentro un sistema non pensato da loro, con parole elaborate da altri per sottometterle.
Questa contaminazione dei simboli femminili con una condizione della donna marginale e svantaggiata va tenuta presente, perché stride con la novità evangelica per la quale le donne, esattamente come gli uomini, sono chiamate alla sequela, al servizio, all’annuncio, alla pienezza della vita ecclesiale, alla leadership e alla testimonianza[3]. La tradizione cristiana esprime simboli femminili, Maria compresa, carichi di questo potere emancipante proprio del vangelo, ma anche assoggettati alla logica patriarcale della sottomissione delle donne pensate in funzione dei maschi: si tratta, dunque, di simboli ambivalenti rispetto alle possibilità di vita delle donne.
L’usuale lavorio critico sui simboli di cui sopra va, dunque, arricchito, quando si tratta di simboli femminili, di un’ulteriore disamina riguardante la comprensione del femminile, che comporterà ovviamente la necessità di purificare i simboli stessi dal loro contenuto sessista e marginalizzante (perché questo indirizza il vissuto dei credenti e delle credenti in modo da far soffrire le donne e, di conseguenza, anche gli uomini), per tentare di risignificarli, tenendo conto che oggi il significato del maschile e del femminile è completamente rivoluzionato.
All’opposto di questo approccio sta la lettura che ritiene i simboli mariani così come sono stati elaborati in contesti patriarcali, senza alcuna valutazione critica né reinterpretazioni, capaci di per sé di indirizzare il vissuto femminile verso ciò che gli sarebbe proprio e li utilizza (anche senza volerlo e persino senza accorgersene) per giustificare una struttura ineguale fra uomini e donne[4]. Al contrario, così scriveva Paolo VI più di cinquant’anni fa:

Innanzitutto, la Vergine Maria è stata sempre proposta dalla chiesa alla imitazione dei fedeli non precisamente per il tipo di vita che condusse e, tanto meno, per l’ambiente socioculturale in cui essa si svolse, oggi quasi dappertutto superato; ma perché, nella sua condizione concreta di vita, ella aderì totalmente e responsabilmente alla volontà di Dio (cf. Lc 1,38); perché ne accolse la parola e la mise in pratica; perché la sua azione fu animata dalla carità e dallo spirito di servizio; perché, insomma, fu la prima e la più perfetta seguace di Cristo: il che ha un valore esemplare, universale e permanente[5].

Dire che Maria non può essere proposta all’imitazione dei credenti – cioè per indirizzarne la vita – per la vita condotta, significa porre l’istanza critica sui simboli mariani che devono essere in grado di mediare non un vissuto femminile marginale e non emancipato, ma la radicale apertura a Dio. Da qui la necessità di rileggere ciò che la tradizione ha trasmesso di Maria, ritornando alla novità del vangelo (cf. MC 37), senza dimenticare che

le generazioni cristiane, succedutesi in quadri socioculturali diversi, al contemplare la figura e la missione di Maria – quale nuova donna e perfetta cristiana che riassume in sé le situazioni più caratteristiche della vita femminile perché Vergine, Sposa, Madre –, abbiano ritenuto la Madre di Gesù tipo eminente della condizione femminile e modello chiarissimo di vita evangelica, e abbiano espresso questi loro sentimenti secondo le categorie e le raffigurazioni proprie della loro epoca (MC 36).

In queste parole di Paolo VI troviamo la lucida consapevolezza che i credenti hanno visto in Maria la pienezza della condizione femminile, in quanto perfetta credente, secondo l’immaginario del loro tempo, che abbiamo detto essere segnato dal patriarcato. Non si accorge però il papa di cadere nello stesso errore indicando le caratteristiche della vita femminile nell’essere vergine, sposa e madre, come se queste fossero indiscussamente proprie dell’essere donna e non, invece, delle elaborazioni culturali legate al femminile secondo precisi schemi elaborati dalla cultura androcentrica.

3. Simbolo Maria e simboli femminili di Dio

Prima di procedere alla rilettura di alcuni simboli mariani riteniamo opportuno distinguere quanto del simbolo Maria incarni l’ancestrale archetipo femminile del divino[6]. Maria di Nazaret, infatti, ha smesso presto di essere se stessa, donna posta allo snodo cruciale della storia della salvezza, credente e discepola, alla prova della fede e della testimonianza di quanto Dio ha compiuto in Gesù, figlio di lei, per diventare luogo di convergenza di tutti i significati archetipi del femminile, che si riferiscono in ultima istanza a Dio, e così Maria è stata divinizzata e il Dio di Gesù ha perso tutte le connotazioni che tendiamo a riconoscere come femminili.
Certamente è positivo che in questo modo le connotazioni femminili, esiliate dal discorso su Dio, abbiano trovato il modo di sopravvivere, ma l’impoverimento dell’immagine di Dio è stato comunque perpetuato, come la deificazione illegittima di lei fino a perderne i lineamenti reali. Inoltre, l’effetto sul vissuto ecclesiale è stato quello di blindare una gerarchia fra i sessi, perché il maschile – proprio dei maschi – viene riferito simbolicamente a Dio, espresso solo in immagini maschili, mentre il femminile – proprio delle femmine – viene riferito simbolicamente a Maria, che pur essendo divinizzata, resta inferiore a Dio. La gerarchia su cui si fonda la società patriarcale viene così riprodotta anche sul piano di Dio e legittima la gerarchia sociale ed ecclesiale: il maschile governa e guida, il femminile nutre e custodisce.
Se invece restituiamo a Dio quello che è di Dio – la maternità, la custodia, il nutrire, il proteggere, la misericordia, il farsi di aiuto, il consolare, ecc. – riusciamo a fare attenzione alla vicenda concreta della donna di Nazaret e a questo punto possiamo provare a rileggere con maggiore consapevolezza critica i simboli utilizzati per parlare di lei, in modo che questi traghettino un’idea di donna liberante, evangelica, una buona notizia per gli uomini e le donne di tutti i tempi, compreso il nostro.

4. Simboli mariani

Affrontiamo ora la presentazione di alcuni simboli mariani attinenti al femminile, tentando una purificazione da incrostazioni patriarcali e una risignificazione, senza la quale i simboli verranno dimenticati, in quanto non più capaci di comunicare a persone – uomini e donne – che si sono spinti oltre gli schemi che sostenevano l’inferiorità e la marginalità delle donne.

4.1. Maria madre

Fino a un recente passato la vita femminile era profondamente segnata da gravidanze, parti e allattamento, tanto da esserne totalmente determinata. Questo dato fattuale, e l’ammirazione per la capacità, del tutto preclusa agli uomini maschi, di far crescere dentro di sé un altro essere umano e di nutrirlo, ha portato all’identificazione della donna con la funzione materna. Tale identificazione, sostenuta per motivi di comodo dalla struttura patriarcale che aliena senza colpo ferire alle donne tutta la fatica di crescere i figli, si è riflettuta anche nel simbolo di Maria madre. Ella infatti, nonostante si veda attribuito dalla tradizione un figlio solo e nonostante le parole di Gesù non siano mai elogiative della maternità nemmeno per quanto riguarda lei, è stata vista come la Madre per antonomasia.
Già accennavamo che in tale simbolo rivive la maternità di Dio, che si esplica anche nell’idea che Maria sia madre non solo di Gesù, ma anche dei credenti e di tutti, ma allora che cosa resta di Maria madre una volta epurati questi significati (fatta eccezione per il legame affettivo con Gesù, che però è tipico di ciascun rapporto madre/figlio e mai messo in risalto dai vangeli)?
Si potrebbe, per esempio, pensare la maternità di lei spostandola dalla nascita di lui alla crescita. Provare a cogliere il mistero dell’incarnazione nella relazione di questo bambino con la madre, sul volto della quale ha intuito il riflesso della paternità/maternità di Dio e intravvisto il senso del proprio essere venuto al mondo per servire, come lei che nel racconto di Luca si dichiara come «la serva del Signore» (Lc 1,38 e 48). Si tratta di una maternità, dunque, che istruisce su Dio e fa crescere in umanità e fede. La fede di lei è la risorsa che le permette di essere madre di Gesù non solo perché lo concepisce, ma perché tale fede è ciò cui lui attinge per crescere come uomo di Dio e per trovare se stesso. Icona di questo percorso è l’episodio di Cana (cf. Gv 2,1-12), quando Maria offre a Gesù l’occasione per manifestarsi e iniziare la propria missione: la fede di lei vede in un evento contingente, un’occasione favorevole perché Gesù si riveli. Da questo nasce la fede dei discepoli. La maternità di lei, che genera Gesù alla propria missione, diventa così maternità anche nei confronti dei discepoli che vengono generati alla fede dalla fede di lei, in quanto credono solo dopo il segno dell’acqua trasformata in vino, segno che trova Maria come ispiratrice.
Il simbolo della maternità di Maria può uscire, dunque, dall’immaginario che la lega alla cura del bambino e che finisce per avere un effetto di infantilizzazione sui credenti, che regrediscono all’età infantile cercando in lei la protezione materna che gli adulti non ricercano più, per sfociare invece nella generatività della fede di lei[7], riferimento qualificato di tutti quelli che credono in Cristo e che credono dopo di lei, entrando nella fede di lei.

4.2. Maria vergine

Bisogna chiarire subito che la verginità femminile, così come ci è stata trasmessa, se si rifiuta – com’è necessario fare – ogni idea che fa della sessualità qualcosa di incline al peccato, è un valore patriarcale. Non c’è motivo, infatti, di esaltare la verginità femminile, se non come garanzia per l’uomo di avere una donna mai posseduta da altri e quindi di sua esclusiva proprietà, come lo saranno i suoi figli. L’idea – terribile – è che il rapporto sessuale determini un intaccamento della persona femminile, da cui deriva un diritto/dovere di possesso da parte dell’uomo che le ha fatto questo.
Tentiamo, dunque, la risignificazione del simbolo Maria vergine, tenendo presente che, in quanto simbolo, deve avere valenza universale e quindi essere efficace anche per gli uomini e per le persone che hanno rapporti sessuali, cioè quasi tutti[8]. Fra le diverse possibilità indichiamo: la comprensione della verginità come povertà e l’inviolabilità del corpo femminile.
La prima via parte dal testo evangelico in cui Maria fa l’obiezione di non conoscere uomo nel momento in cui le viene annunciato che deve diventare madre (cf. Lc 1,34). Nel genere letterario dell’annunciazione l’obiezione indica sempre il punto debole della persona in ordine al compito che viene dato – si pensi al “non so parlare” di Mosè e di Geremia (cf. Es 4,10; Ger 1,6) – e in questo caso la povertà più estrema in ordine al concepire è proprio la verginità: tutt’altro che un vanto, essa indica l’impossibilità a concepire (fino a che si è vergini, infatti, non si può concepire). Questa lettura si giustifica anche nel quadro del racconto lucano, dove il concepimento verginale di Maria viene accostato al concepimento sterile di Elisabetta: due impossibilità in crescendo, per mostrare la potenza di Dio che viene a liberare il suo popolo oltre ogni possibilità umana. Da ciò che accade risulta chiara la potenza liberatrice e creatrice di Dio.
L’altro percorso di risignificazione della verginità si può vedere nell’inviolabilità del corpo femminile: là dove il rapporto sessuale viene pensato come un prendere possesso della donna, la «sempre vergine» indica che le donne e il loro corpo sono indisponibili, inviolabili e questo a prescindere dal fatto che abbiano o meno rapporti sessuali[9] (la valenza simbolica travalica, infatti, il dato fisiologico, di per sé non significativo).
Chiaramente il simbolo agisce a partire dal contesto che non si può non considerare: se la sessualità è il luogo in cui le donne vengono possedute e violate, allora la verginità non può che essere liberante. Il simbolo però rischia di essere inefficace o fuorviante se il contesto dovesse essere un altro, cioè quello in cui la sessualità fosse luogo di relazione e donazione reciproca. Da qui l’esigenza di porre domande che aprano nuovi significati, capaci di rendere il simbolo ancora oggi mediatore dell’esperienza liberante che esprime.

4.3. Maria vergine e madre

Cucendo i due simboli, la maternità verginale diventa un altro simbolo, che indica il nuovo inizio, il fatto che la creazione, come era cominciata nel grembo di Eva che concepì da Dio (cf. Gen 4,1), espressione ripresa alla lettera da Mt 1,18[10], ricominci in questo bambino. Ancora più intensamente: il grembo di Maria non era mai stato abitato, questo è il primo figlio, un inizio assoluto perché nato senza seme di uomo. Si tratta di un simbolo, quindi, capace di evocare un cominciamento radicale, che si può far risalire fino a Dio, come fa la genealogia composta dal terzo evangelista.

4.4. Maria sposa

La tradizione cristiana ha riletto spesso la sponsalità come categoria relazionale per parlare del rapporto con Dio e così ha visto Maria sposa dello Spirito e persino sposa del Figlio, dimenticando troppo spesso che ella è sposa di Giuseppe e che questo fatto non viene sminuito neanche dall’idea dell’assenza di rapporti sessuali fra loro due. Certamente un matrimonio trova una delle sue espressioni fondamentali nella sessualità, ma questa non lo costituisce in modo determinante, altrimenti in tutte quelle situazioni dove non si hanno più rapporti sessuali verrebbe meno anche il matrimonio e, d’altro canto, avremmo un matrimonio ogni volta che si dà un rapporto sessuale.
Maria sposa allora, se si considera il contesto e i significati che questo indicava nel rapporto sessuale come luogo di possesso dell’uomo sulla donna, diventa il simbolo di una sponsalità paritaria e fraterna, dove la sessualità non diventa elemento esclusivo né tanto meno strumento di potere, ma è del tutto subordinata al bene delle persone così come sono chiamate a vivere e come comprendono di dover vivere.
Potremmo rileggere questo simbolo come l’icona di quel “principio” di cui Gesù parla nel vangelo di Matteo dicendo che i rapporti di potere fra marito e moglie che si esprimevano con il ripudio, ma anche con il possesso sessuale, finiscono per tornare alla vocazione originaria di comunione reciproca e paritaria (cf. Mt 19,3-9)[11.

4.5. Maria discepola e apostola

Con il simbolo del discepolato si apre a un immaginario che non è specificamente femminile. In realtà, a dire il vero, anche i simboli usati fino a qui si prestano a una declinazione maschile e non solo in quanto universalmente diretti, ma collocandosi in modo proprio nel vissuto maschile. Se maternità, verginità e sponsalità vengono considerate condizioni proprie del femminile, è solo per motivi culturali, ma hanno un corrispettivo maschile, perché anche gli uomini sono sposi, vergini (nel duplice significato sopra individuato di poveri/sterili o di inviolabili) e padri (la paternità, infatti, altro non è che la concretezza maschile della genitorialità, che sarebbe ora di prendere non come ruolo esterno e normativo, ma come relazione concreta di cura).
Certo queste esperienze si declinano diversamente per uomini e donne, ma anche gli uomini le vivono e, d’altra parte, le donne – Maria compresa – non vivono solo queste. Non per niente Paolo VI la presenta come la prima e la più perfetta discepola di Cristo[12], sintetizzando così il dettato evangelico – in particolare lucano – in cui Maria è per antonomasia la credente, colei che ascolta la parola e la osserva (cf. Lc 11,28).
Il discepolato in lei ha un volto femminile, che accoglie la chiamata di Dio, custodisce la parola ricevuta, la medita e arriva fino alla croce, per poi diventare testimone nel giorno di Pentecoste, quando lo Spirito scende su tutti quelli che sono riuniti nel cenacolo ed escono ad annunciare[13].
Se nella letteratura lucana Maria è la prima credente, beata per aver creduto (cf. Lc 1,45), allora nel gruppo di coloro che si trovano insieme dopo la Pasqua non può che avere un posto di rilievo proprio per la sua fede, che diventa di riferimento anche per gli altri. Non è l’essere madre di Gesù che fa la differenza, ma l’aver creduto per prima e averlo seguito.

Nel cammino di accoglienza della parola di Dio, ci accompagna la Madre del Signore, riconosciuta come beata perché ha creduto nell’adempimento di ciò che il Signore le aveva detto (cf. Lc 1,45). La beatitudine di Maria precede tutte le beatitudini pronunciate da Gesù per i poveri, gli afflitti, i miti, i pacificatori e coloro che sono perseguitati, perché è la condizione necessaria per qualsiasi altra beatitudine. Nessun povero è beato perché povero; lo diventa se, come Maria, crede nell’adempimento della parola di Dio. Lo ricorda un grande discepolo e maestro della sacra Scrittura, sant’Agostino: «Qualcuno in mezzo alla folla, particolarmente preso dall’entusiasmo, esclamò: “Beato il seno che ti ha portato”. E lui: “Beati piuttosto quelli che ascoltano la parola di Dio, e la custodiscono”. Come dire: anche mia madre, che tu chiami beata, è beata appunto perché custodisce la parola di Dio, non perché in lei il Verbo si è fatto carne e abitò fra noi, ma perché custodisce il Verbo stesso di Dio per mezzo del quale è stata fatta, e che in lei si è fatto carne» (Sul Vang. di Giov., 10, 3)[14].


4.6. Maria profetessa ed evangelizzatrice

Al contrario di quello che è lo stereotipo di una Maria dimessa e senza parola, Luca pone sulle labbra di Maria il canto del Magnificat. Questo la pone in linea con una serie di figure femminili che l’Antico Testamento celebra come madri di Israele e profetesse, ma allo stesso tempo la indica come la prima evangelizzatrice. Ella profetizza ciò che il vangelo opererà, cioè il rovesciamento delle sorti per i poveri e gli oppressi. Il fatto che sia una povera – e che lo sia due volte in quanto donna – a dare voce all’annuncio di Dio ha una potenza dirompente.
La carica simbolica è estremamente elevata e percepita con forza in quei contesti dove l’oppressione e la povertà assumono dimensioni feroci[15]. È una donna povera che annuncia la buona notizia per i poveri e, contestualmente, si mette in cammino per servire chi ha bisogno. Si tratta di un canto, di un annuncio e di un servizio che tutti possono fare propri, ma che qui si declinano al femminile, in un simbolo femminile che richiama gravidanze, canti, sofferenze proprie del vissuto delle donne. Il rischio è incasellare tutto questo in stereotipi che riducano le donne al ruolo domestico e materno o al mondo dei sentimenti e della cura, realtà che certamente appartiene alle donne, ma non è certo preclusa agli uomini.
Occorre, invece, riconoscere a Maria il coraggio di uscire di casa (va in fretta verso la montagna e andrà in cerca di Gesù quando sarà il momento), di mettersi a servire (attenta ai bisogni di Elisabetta, come degli sposi rimasti senza vino) e di proclamare le opere di Dio (nel Magnificat e fuori dal cenacolo nel giorno di Pentecoste).

4.7. Maria umiliata

Questo simbolo si rintraccia nel vangelo di Matteo, che ci racconta la situazione scomoda di lei quando rimane incinta prima di andare a vivere con Giuseppe (cf. Mt 1,18). Esso consiste nella donna giudicata per la propria vita sessuale e per le proprie gravidanze: giudizio e condanna che gli uomini non conoscono, se non forse nel caso degli omosessuali. Il valore delle donne ancora oggi viene stimato a partire dalla loro sessualità: se sono desiderabili o se non lo sono, come esplicano la loro sessualità e con chi, se la offrono o la nascondono, se hanno figli e come.
Il corpo femminile è l’emblema di questo continuo soppesare le donne, per cui deve essere bello, nudo, provocatorio oppure coperto, nascosto, n egato (come nel caso di un vestito che lascia scoperto a malapena il viso e non segue le sinuosità del corpo, ma le nasconde rendendolo informe). Sono due lati della stessa medaglia, della stessa continua violazione che passa con grande rapidità dallo sguardo, alle parole, alle mani, alla violenza di ogni tipo.
Maria è simbolo anche di questo: sotto giudizio per la sua gravidanza, tanto che persino il giusto Giuseppe medita il ripudio (cf. Mt 1,19), e continuamente soppesata per la sua verginità sulla quale non ci si trattiene dal disquisire.

4.8. Maria Immacolata e Assunta

I due simboli si legano e si richiamano perché entrambi alludono alla vittoria sul male, che porta con sé anche la vittoria sulla morte. Contemplare Maria vittoriosa su ogni peccato e su ogni morte, tanto da proclamarla risorta e mai connivente con il male, può essere un modo per esaltarla come parte del mondo di Dio e, quindi, rafforzare la sovrapposizione fra l’archetipo femminile di Dio e la persona di lei, ma può essere anche il modo per toccare con mano gli effetti dell’opera salvifica di Dio su una delle figlie di Adamo, membro eminente della chiesa.
Professare la fede in un essere umano non toccato dal male e dalla morte, infatti, significa ribadire la potenza creatrice e salvatrice di Dio, che realmente opera ciò che promette. Ella diventa, dunque, pegno di speranza per noi, perché la vittoria che risplende in lei può darsi anche in noi. Il fatto, poi, che tutto ciò accada a una donna e che – in particolare nel dogma dell’Assunzione – sia un corpo di donna a essere esaltato ha una portata simbolica fortissima, perché le nostre culture tendono a vedere nel corpo femminile la corruzione, la debolezza, la materialità, mentre il corpo maschile sarebbe retto, forte, sottomesso alla ragione e allo spirito.
In questo caso in una donna contempliamo un corpo non umiliato dal peccato e dalla morte, ma vincitore, pegno di sicura speranza per tutti gli esseri umani che si ritrovano ad attendere lo stesso destino di questo corpo femminile.

5. Maria sorella

La risignificazione dei simboli mariani cui abbiamo sin qui accennato ha due costanti: togliere ogni incrostazione sessista dai simboli stessi e riscoprire la valenza universale del simbolo per la vita di ogni credente non in quanto espressivo dell’essere di Dio (facendo di Maria una specie di dea non umana), ma del/della credente che vive consegnata alla sua parola e riempita del suo amore.
Questo secondo elemento trova espressione piena nell’ultimo simbolo che vogliamo considerare: Maria sorella. Questo, caro alla mariologia femminista, ma fatto proprio da Paolo VI (cf. MC 56) e anche dal concilio, che indica Maria come «figlia di Adamo»[16] e quindi membro della chiesa e della famiglia umana, ci consegna insieme la concretezza della storia di Maria di Nazaret e la sua efficacia per noi, perché la colloca di fianco ai credenti, sulla stessa strada. Ella non è la madre colma di privilegi, ma la sorella che ha già attraversato il cammino della fede. E se Dio ha agito così in una nostra sorella, può agire anche in noi: quello di lei è certo un vissuto straordinario, ma è solo uno dei vissuti straordinari che Dio tesse.
E così tutto quanto diciamo di lei è detto anche di noi, del nostro cammino cristiano e della chiesa intera, diventando capace non solo di toccare bisogni e desideri sommersi, ma anche di provocare la nostra libertà perché scegliamo di essere, come lei, discepoli, apostoli, profeti, sposi, poveri, inviolabili, generatori, servi, fratelli e sorelle in Cristo.


Nota bibliografica

C.M. Boff, Mariologia sociale. Il significato della Vergine per la società, Queriniana, Brescia, 2007; S. De Fiores, La figura inculturata di Maria: fatto, significato, rischi, in E. Peretto (ed.), L’immagine teologica di Maria, oggi. Fede e cultura, Marianum, Roma, 1996, 397-419; E.A. Johnson, Vera nostra sorella. Una teologia di Maria nella comunione dei santi, Queriniana, Brescia 2005; C. Militello, Con occhi di donna, Piemme, Asti 1999; Id., Con occhi di donna. Nuovi saggi, San Paolo, Cinisello B. (MI) 2019; L. Pinkus, Maria di Nazaret fra storia e mito, EMP, Padova, 2009; E. Schüssler Fiorenza, Gesù figlio di Miriam, profeta di Sophia. Questioni critiche di cristologia femminista, Claudiana, Torino 1996; S. Segoloni Ruta, L’amore viscerale, EDB, Bologna 2017; M. Warner, Sola fra le donne. Mito e culto di Maria Vergine, Sellerio, Palermo 1980.

[1] Ricomprendiamo l’immaginario mariano come l’insieme dei simboli, narrativi, iconografici, cultuali e pratici, che esprimono il simbolo Maria e lo rendono attivo nella vita dei credenti. Che cosa questa affermazione significhi viene spiegato all’inizio dell’articolo.

[2] Cf. L. Pinkus, Il mito di Maria. Un approccio simbolico, Borla, Roma 1986.

[3] La bibliografia sull’argomento è sterminata, rimandiamo qui a un classico fondamentale per essere introdotti alla ricerca nel testo biblico della novità riguardante le donne: E. Schüssler Fiorenza, In memoria di lei. Una ricostruzione femminista delle origini cristiane, Claudiana, Torino 1990.

[4] Seppure diversamente si possono ricondurre a questa tipologia di ricerca i testi di Bruno Forte e di Gisbert Greshake. Cf. B. Forte, Maria la donna icona del mistero, San Paolo, Cinisello B. (MI) 2000; G. Greshake, Maria-ecclesia. Prospettive di una teologia e di una prassi ecclesiale fondata in senso mariano, Queriniana, Brescia 2017. Come commento a tali impostazioni si può vedere: C. Militello, Vergine fatta chiesa. Ripensare il rapporto Maria/chiesa dopo il concilio, in «Convivium Assisiense» 20 (2/2018) 9-35.

[5] Paolo VI, Esortazione apostolica Marialis cultus (2 febbraio 1974) (MC), n. 35.

[6] C. Halkes, Maria e le donne, in «Concilium» 8 (1983) 134-147, cf. l’intero numero. Cf. anche L. Vantini, Maria e le donne: l’ombra della madre, in «Convivium Assisiense» 9 (1/2009) 61-74.

[7] L’immagine materna è stata capace di veicolare la nascita di Cristo nei cuori delle persone tramite l’annuncio del vangelo fin dall’inizio. Paolo stesso la usa per il suo servizio di apostolato, mentre l’Apocalisse la tratteggia straordinariamente, rappresentando la chiesa perseguitata come una donna che travaglia davanti al drago per far nascere Cristo con la propria testimonianza (cf. Ap 12,1-4). Questo immaginario dell’essere madri di Cristo si trova lungo tutta la tradizione cristiana per indicare la testimonianza e l’amore che fanno nascere Cristo in qualcuno.

[8] Questa valenza universale della verginità è stata colta finora facendola coincidere con l’integrità: la persona vergine è quella che rimane integra e si dona integralmente. Così la chiesa sarebbe vergine in quanto conserva integro il deposito della fede. Il problema di questo significato sta proprio nel fatto che si leghi verginità e integrità, avvalorando l’idea che i rapporti sessuali intacchino la persona, la facciano non più integra. Idea, come accennato, patriarcale e offensiva.

[9] C.M. Boff, Come leggere i testi biblici su Maria in prospettiva liberatrice, in E.M. Toniolo, L’ermeneutica contemporanea e i testi biblico-mariologici. Verifica e proposte, Marianum, Roma 2003, 385-407.

[10] M. Cassuto Morselli - G. Maestri, Il Vangelo secondo Matityahu/Matteo. Una lettura ebraica, in «Convivium Assisiense» 20 (1/2018) 69-164.

[11] Nel capitolo 19 di Matteo, Gesù parla del fatto che alcuni si rendono eunuchi per il regno dei cieli dopo che i discepoli concludono che non conviene sposarsi se l’uomo perde la posizione di privilegio che gli permetteva di ripudiare la moglie (cf. Mt 19,10-12). Gesù non sta confermando il fatto che non conviene, dicendo che alcuni lo capiscono e non si sposano (questi sarebbero gli eunuchi per il regno), ma seguendo il discorso sembra che sostenga invece che si fanno eunuchi per il regno quelli che capiscono che nel matrimonio, cioè nella relazione con la moglie, occorre perdere ogni posizione di privilegio. Similmente si può interpretare il brano in cui i sadducei chiedono a Gesù di chi sarebbe stata moglie una donna che avesse sposato sette fratelli (cf. Lc 20,27-35). In quel caso Gesù sostiene che quelli che sono ritenuti degni della risurrezione non prendono moglie e le mogli non vengono prese. Tale puntualizzazione, che si perde nella traduzione italiana, ma fa vedere molto bene la posizione impari fra marito e moglie, può dare adito a un’interpretazione diversa del testo: quelli che sono considerati figli della risurrezione non pensano più alle mogli come a un bene da passarsi per ottenere un figlio. Gesù dichiarerebbe così finito il matrimonio come condizione impari nonché l’asservimento delle donne al ruolo procreativo. Si può vedere su questo: M.L. Rigato, Discepole di Gesù, EDB, Bologna 2011.

[12] «Non sono che esempi, dai quali appare chiaro come la figura della Vergine non deluda alcune attese profonde degli uomini del nostro tempo e offra ad essi il modello compiuto del discepolo del Signore: artefice della città terrena e temporale, ma pellegrino solerte verso quella celeste ed eterna; promotore della giustizia che libera l’oppresso e della carità che soccorre il bisognoso, ma soprattutto testimone operoso dell’amore che edifica Cristo nei cuori» (MC 37).

[13] Leggendo il testo di At 2 non c’è motivo di pensare che siano solo gli uomini a uscire ad annunciare, tanto più che Pietro per spiegare ciò che sta succedendo cita il profeta Gioele (3,1-5) nel quale si legge che «figli e figlie» avrebbero profetizzato.

[14] Francesco, Lettera apostolica Aperuit illis (30 settembre 2019), n. 15.

[15] Si possono vedere, per esempio, alcuni passaggi del Documento finale della V Conferenza dell’episcopato latinoamericano (CELAM) radunato ad Aparecida dall’11 al 31 maggio 2007, in particolare si indicano i nn. 266-272 (cf. Documento di Aparecida, EDB, Bologna 2014).

[16] Concilio Vaticano II, Costituzione dogmatica Lumen gentium (21 novembre 1964), n. 56.
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