Enzo Bianchi "A passeggio con un anziano"
di ENZO BIANCHI
dal sito del Monastero di Bose
Improvvisamente siamo diventati consapevoli che un virus ha posto la sua presenza nel nostro vivere quotidiano e che per contenerlo, combatterlo e quindi sconfiggerlo, è diventato per noi necessario comportarci “altrimenti”. Misure sanitarie e misure sociali assolutamente urgenti per la salute pubblica ci chiedono un mutamento di vita, di azione, di stile, che per tutti è limitante, ma è particolarmente penoso e drammatico per le persone sole, anziane, fragili e malate.
Sotto la minaccia del contagio e seguendo i consigli ossessivamente ripetuti dai media, abbiamo visto cambiare anzitutto lo spazio: da aperto, libero, è diventato limitato. Ci sono zone rosse nelle quali si è chiusi, ci sono luoghi da non frequentare, spazi da cui stare lontano. Per gli anziani, soprattutto se vivono in città, lo spazio in cui vivere è ridotto per più settimane all’appartamento. Per tutti poi diventa una legge non avvicinarsi troppo, non abbracciarsi se ci si incontra, non scambiarsi un bacio, non darsi più la mano. L’affetto, l’amicizia, lo stupore dell’incontro devono esprimersi a distanza e, nella esagerata vigilanza, c’è anche chi alza sul viso la sciarpa fino al naso.
Ma non solo lo spazio che abitiamo cambia: anche il tempo che viviamo appare diverso, più lento e financo estraneo. Soprattutto “fare tante cose” non si può più! Appuntamenti, impegni, sport, tutto ciò che ci occupava non è più possibile, e allora che fare chiusi in casa? Dove è andato a finire il nostro “tempo libero” di cui eravamo tanto fieri? Così ci rendiamo conto che la convivenza non è facile in poco spazio e che dobbiamo abitare il tempo senza sentirci alienati, senza lasciarci sorprendere da quel male oscuro che è l’acedia, il disgustoso abitare con se stessi. E non solo il tempo appare lungo e interminabile, ma il nostro disagio assume la figura dell’aggressività, fino a non sopportare chi ci sta accanto. Non è facile accettare restrizioni alla libertà, imparare nuove regole di convivenza che comportano rinunce, sacrifici, cura e servizio all’altro, soprattutto se è più fragile.
Ma questo spazio e questo tempo da vivere in modo nuovo non potrebbero essere l’occasione per leggere libri, per ascoltare musica? Potremmo così viaggiare nel tempo e nello spazio, evocare e rivivere gli amori vissuti, accogliere pensieri che ci commuovono o ci fanno sorridere. Per esempio, sarebbe utile rileggere in questi giorni il capolavoro di Albert Camus La peste, per le domande che ci pone.
Stando in casa, soprattutto in questa stagione invernale, potremmo anche ascoltare il silenzio e le sue domande più profonde: chi sono io? Chi sono gli altri che vivono con me? Che senso ha ciò che viviamo nei tempi dell’epidemia? Anche questo è un modo per razionalizzare la paura e spegnere l’angoscia di fronte a questo nemico non localizzabile, invisibile, non individuabile né identificabile in un soggetto.
Questa è un’ora di crisi, cioè un’occasione per operare un giudizio e una scelta. Non mi sento di affermare che questa crisi è un’opportunità che ci renderà più solidali, perché ciò che si soffre non accresce automaticamente l’amore e la bontà, ma mi sento di rinnovare la speranza: se viviamo bene insieme quest’ora, saremo capaci di vivere meglio domani.
Sotto la minaccia del contagio e seguendo i consigli ossessivamente ripetuti dai media, abbiamo visto cambiare anzitutto lo spazio: da aperto, libero, è diventato limitato. Ci sono zone rosse nelle quali si è chiusi, ci sono luoghi da non frequentare, spazi da cui stare lontano. Per gli anziani, soprattutto se vivono in città, lo spazio in cui vivere è ridotto per più settimane all’appartamento. Per tutti poi diventa una legge non avvicinarsi troppo, non abbracciarsi se ci si incontra, non scambiarsi un bacio, non darsi più la mano. L’affetto, l’amicizia, lo stupore dell’incontro devono esprimersi a distanza e, nella esagerata vigilanza, c’è anche chi alza sul viso la sciarpa fino al naso.
Ma non solo lo spazio che abitiamo cambia: anche il tempo che viviamo appare diverso, più lento e financo estraneo. Soprattutto “fare tante cose” non si può più! Appuntamenti, impegni, sport, tutto ciò che ci occupava non è più possibile, e allora che fare chiusi in casa? Dove è andato a finire il nostro “tempo libero” di cui eravamo tanto fieri? Così ci rendiamo conto che la convivenza non è facile in poco spazio e che dobbiamo abitare il tempo senza sentirci alienati, senza lasciarci sorprendere da quel male oscuro che è l’acedia, il disgustoso abitare con se stessi. E non solo il tempo appare lungo e interminabile, ma il nostro disagio assume la figura dell’aggressività, fino a non sopportare chi ci sta accanto. Non è facile accettare restrizioni alla libertà, imparare nuove regole di convivenza che comportano rinunce, sacrifici, cura e servizio all’altro, soprattutto se è più fragile.
Ma questo spazio e questo tempo da vivere in modo nuovo non potrebbero essere l’occasione per leggere libri, per ascoltare musica? Potremmo così viaggiare nel tempo e nello spazio, evocare e rivivere gli amori vissuti, accogliere pensieri che ci commuovono o ci fanno sorridere. Per esempio, sarebbe utile rileggere in questi giorni il capolavoro di Albert Camus La peste, per le domande che ci pone.
Stando in casa, soprattutto in questa stagione invernale, potremmo anche ascoltare il silenzio e le sue domande più profonde: chi sono io? Chi sono gli altri che vivono con me? Che senso ha ciò che viviamo nei tempi dell’epidemia? Anche questo è un modo per razionalizzare la paura e spegnere l’angoscia di fronte a questo nemico non localizzabile, invisibile, non individuabile né identificabile in un soggetto.
Questa è un’ora di crisi, cioè un’occasione per operare un giudizio e una scelta. Non mi sento di affermare che questa crisi è un’opportunità che ci renderà più solidali, perché ciò che si soffre non accresce automaticamente l’amore e la bontà, ma mi sento di rinnovare la speranza: se viviamo bene insieme quest’ora, saremo capaci di vivere meglio domani.