Rosanna Virgili "La forza dell’inerme"
Costruttori della Pòlis
a cura di Rosanna Virgili
- La vera Giudea
- La forza dell’inerme
- Un culto d’amore
- Autorità e libertà
- Chi sono io per giudicare
- Il bacio santo
Seconda Meditazione
La forza dell’inerme
(Giuditta 9)
Introduzione
Lo splendido quadro di Giuditta e Oloferne del Caravaggio mostra nel viso di lei, nel delicato corrugarsi delle sue sopracciglia, la repellenza del gesto che pure sta compiendo: quello di tagliare la testa a Oloferne. Artemisia Gentileschi la mostra più fiera come se avesse finalmente servito l’attesa vendetta. Il gesto di Giuditta fu un modo per ottenere rivalsa da parte di una donna, sottomettendo – con la seduzione della sua bellezza – l’oppressore del momento? Fu eseguito con l’energia che una giustificata rabbia antica può trasformare in arido cinismo? Fu per dimostrare anche al re di Betulia che una donna sa governare meglio di un uomo e sbaragliare i nemici con l’inganno? Forse. Importante è conoscere il racconto e ciò che veramente animasse il gesto di Giuditta.
Per leggere e comprendere
Pochi conoscono i precedenti del gesto eroico, violento e inquietante di Giuditta. Quanto il racconto annota rivela, però, la vera origine di esso, costringendo anche a darne una ragionevole interpretazione. Il capitolo nono è interamente dedicato a dire cosa fosse nel cuore e nel corpo di Giuditta prima che uscisse a compiere la sua mitica impresa: una profonda preghiera a Dio insieme al digiuno ed al cilicio. La sua voce si univa, innanzitutto, al coro dell’assemblea riunita nel Tempio di Gerusalemme nell’ora in cui veniva offerto l’incenso. Un “sacrificio” fatto solo di profumo che, proprio per questo, raggiungeva immediatamente le narici di Dio! Qualcuno ricorderà che anche all’inizio del Vangelo di Luca c’è una scena dominata dal culto dell’incenso; lì è il sacerdote Zaccaria che lo brucia sull’altare del Tempio. Ma la fede di Giuditta è superiore a quella di Zaccaria e la voce un tutt’uno con quella del suo popolo unito nel dolore e nella confidenza in Dio. Giuditta sa che non si può pregare da soli o solo per sé stessi, perché ogni preghiera è un atto d’amore solidale e fraterno. La preghiera di Giuditta continua, poi, come memoria. Ella ricorda il padre Simeone, alla cui tribù appartiene, e ripassa su quanto egli fece quando la sua sorella Dina venne violata da Sichem (cf Gen 34,25ss). Tu mettesti nelle sue mani una spada, dice grata a Dio, Giuditta, e consegnasti alla morte i loro capi. La memoria della giustizia che Dio fece e del riscatto che diede alla vergine violata, anima Giuditta di una nuova fiducia in Dio. Nel suo cuore non c’è ansia per sé stessa ma per tutte le donne violate del suo popolo e per la sua città che, come una vergine denudata, è posta sotto assedio dai nemici. Nella preghiera Giuditta ottiene, poi, la visione di un orizzonte universale da dove i suoi occhi riconoscono a Dio che “tutte le cose” sono da lui progettate, nel presente e nel futuro. Giuditta interseca il suo agire con la fedeltà di Dio verso gli oppressi: “Tu sei il Dio che stronca le guerre” e per questo gli Assiri, superbi ed esaltati per la loro potenza, verranno fermati e sconfitti. A questo punto Giuditta introduce la forza della sua supplica: “spezza la loro alterigia per mezzo di una donna”! Straordinaria è la seduzione retorica della preghiera di Giuditta e grande chi ne scrive; parimenti autentica è la passione della sua invocazione: “La tua forza, infatti, non sta nel numero, né sui forti si regge il tuo regno; tu sei, invece il Dio degli umili, sei il soccorritore dei piccoli, il rifugio dei deboli, il protettore degli sfiduciati, il salvatore dei disperati”. L’ascolto della preghiera di Giuditta fa tremare per la sua verità ed è impossibile non capire che la sua “spada” non sarà la scimitarra con cui decapiterà Oloferne, che, peraltro, apparteneva a lui stesso, ma sarà questa preghiera, questa supplica incisiva della fede di chi è umile, è calpestato, è disperato. Un’evidenza che costringe il lettore a intuire nel gesto di sangue di Giuditta la metafora della forza della fede dei poveri e degli oppressi, non per nulla ben rappresentata da una donna. Alla fine del libro Giuditta canterà: “Canterò al mio Dio un canto nuovo; Signore grande sei tu e glorioso, mirabile nella tua potenza, invincibile (…) Il Signore Onnipotente li ha respinti con la mano di una donna” (Gdt 16,5.13). Sulle stesse note del Magnificat!
Domande per attualizzare.
Quali sono i raggi di luce che la figura di Giuditta proietta sulle questioni più dolorose e urgenti del nostro tempo? Innanzitutto la denuncia e la reazione alla violenza sulle donne che – ahimè! – trova, oggi, nelle loro stesse case e nei loro legami più intimi l’orrore di essere consumata. Nel gesto di Giuditta, che la Bibbia propone in chiave simbolica – e non come indicazione concreta di sanguinosa vendetta – è la potenza della sapienza e della fedeltà di una donna che ha il coraggio di gridare e operare il riscatto di donne inermi e orrendamente violate e schiacciate. Ma nel suo gesto v’è anche la decisione di liberare la sua città dalla prepotenza dei popoli che la opprimono; forte è la valenza politica di un’impresa che annuncia il diritto di sovranità per ogni popolo, foss’anche quello assetato e sfinito di Betulia.
Per leggere e comprendere
Pochi conoscono i precedenti del gesto eroico, violento e inquietante di Giuditta. Quanto il racconto annota rivela, però, la vera origine di esso, costringendo anche a darne una ragionevole interpretazione. Il capitolo nono è interamente dedicato a dire cosa fosse nel cuore e nel corpo di Giuditta prima che uscisse a compiere la sua mitica impresa: una profonda preghiera a Dio insieme al digiuno ed al cilicio. La sua voce si univa, innanzitutto, al coro dell’assemblea riunita nel Tempio di Gerusalemme nell’ora in cui veniva offerto l’incenso. Un “sacrificio” fatto solo di profumo che, proprio per questo, raggiungeva immediatamente le narici di Dio! Qualcuno ricorderà che anche all’inizio del Vangelo di Luca c’è una scena dominata dal culto dell’incenso; lì è il sacerdote Zaccaria che lo brucia sull’altare del Tempio. Ma la fede di Giuditta è superiore a quella di Zaccaria e la voce un tutt’uno con quella del suo popolo unito nel dolore e nella confidenza in Dio. Giuditta sa che non si può pregare da soli o solo per sé stessi, perché ogni preghiera è un atto d’amore solidale e fraterno. La preghiera di Giuditta continua, poi, come memoria. Ella ricorda il padre Simeone, alla cui tribù appartiene, e ripassa su quanto egli fece quando la sua sorella Dina venne violata da Sichem (cf Gen 34,25ss). Tu mettesti nelle sue mani una spada, dice grata a Dio, Giuditta, e consegnasti alla morte i loro capi. La memoria della giustizia che Dio fece e del riscatto che diede alla vergine violata, anima Giuditta di una nuova fiducia in Dio. Nel suo cuore non c’è ansia per sé stessa ma per tutte le donne violate del suo popolo e per la sua città che, come una vergine denudata, è posta sotto assedio dai nemici. Nella preghiera Giuditta ottiene, poi, la visione di un orizzonte universale da dove i suoi occhi riconoscono a Dio che “tutte le cose” sono da lui progettate, nel presente e nel futuro. Giuditta interseca il suo agire con la fedeltà di Dio verso gli oppressi: “Tu sei il Dio che stronca le guerre” e per questo gli Assiri, superbi ed esaltati per la loro potenza, verranno fermati e sconfitti. A questo punto Giuditta introduce la forza della sua supplica: “spezza la loro alterigia per mezzo di una donna”! Straordinaria è la seduzione retorica della preghiera di Giuditta e grande chi ne scrive; parimenti autentica è la passione della sua invocazione: “La tua forza, infatti, non sta nel numero, né sui forti si regge il tuo regno; tu sei, invece il Dio degli umili, sei il soccorritore dei piccoli, il rifugio dei deboli, il protettore degli sfiduciati, il salvatore dei disperati”. L’ascolto della preghiera di Giuditta fa tremare per la sua verità ed è impossibile non capire che la sua “spada” non sarà la scimitarra con cui decapiterà Oloferne, che, peraltro, apparteneva a lui stesso, ma sarà questa preghiera, questa supplica incisiva della fede di chi è umile, è calpestato, è disperato. Un’evidenza che costringe il lettore a intuire nel gesto di sangue di Giuditta la metafora della forza della fede dei poveri e degli oppressi, non per nulla ben rappresentata da una donna. Alla fine del libro Giuditta canterà: “Canterò al mio Dio un canto nuovo; Signore grande sei tu e glorioso, mirabile nella tua potenza, invincibile (…) Il Signore Onnipotente li ha respinti con la mano di una donna” (Gdt 16,5.13). Sulle stesse note del Magnificat!
Domande per attualizzare.
Quali sono i raggi di luce che la figura di Giuditta proietta sulle questioni più dolorose e urgenti del nostro tempo? Innanzitutto la denuncia e la reazione alla violenza sulle donne che – ahimè! – trova, oggi, nelle loro stesse case e nei loro legami più intimi l’orrore di essere consumata. Nel gesto di Giuditta, che la Bibbia propone in chiave simbolica – e non come indicazione concreta di sanguinosa vendetta – è la potenza della sapienza e della fedeltà di una donna che ha il coraggio di gridare e operare il riscatto di donne inermi e orrendamente violate e schiacciate. Ma nel suo gesto v’è anche la decisione di liberare la sua città dalla prepotenza dei popoli che la opprimono; forte è la valenza politica di un’impresa che annuncia il diritto di sovranità per ogni popolo, foss’anche quello assetato e sfinito di Betulia.
Preghiera
Signore, Signore re che domini l’universo, tutte le cose sono sottoposte al tuo potere e non c’è nessuno che possa opporsi a te nella tua volontà di salvare Israele. Tu hai fatto il cielo e la terra e tutte le meraviglie che si trovano sotto il firmamento. Tu sei il Signore di tutto e non c’è nessuno che possa resistere a te, Signore (…). Mio Signore, nostro re, tu sei l’unico! Vieni in aiuto a me che sono sola e non ho altro soccorso all’infuori di te, perché un grande pericolo mi sovrasta. (Ester 4,17b-c.l)