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MichaelDavide Semeraro "Il terzo monachesimo?"

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del 21 novembre 2019

Per presentare Elogio della libertà, edito recentemente dalla EDB, mi è sembrato bello condividere con i lettori ciò che questo testo, la cui stesura è il frutto di anni di lavoro con lunghe interruzioni, ripensamenti e talora persino cambiamenti radicali, continua a far risuonare in me come uomo, come discepolo e come monaco.

Elogio della libertà è un libro che forse non leggerò mai più! Ogni volta che, anche solo per caso, l’occhio mi cade su qualche pagina, ho subito l’impressione che le cose andrebbero dette meglio con più intelligenza e, soprattutto, con più rispetto. È così difficile per uno scrittore anche mediocre riuscire a essere fedele a se stesso e, al contempo, rispettoso prima che convincente. Ho pensato dunque di cominciare con la condivisione di una lettura che mi è “capitata” dopo l’uscita del libro.

Il terzo uomo

Le edizioni Odile Jacob hanno ripubblicato, dopo mezzo secolo, un articolo apparso nell’Ottobre 1966 nella rivista Christus, curata dai gesuiti francesi: «Il terzo uomo». L’articolo fu firmato dall’allora padre François Roustang che collaborava direttamente con Michel de Certeau. Nell’attuale riedizione vi è l’aggiunta di un resoconto storico della vicenda di Etienne Fouilloux e uno studio sociologico di Danièle Hervieu-Léger[1].

Quest’ultima ha pubblicato un’opera che ha avuto molta eco nei monasteri dal titolo Le temps des moines[2]. La sociologa francese, da sempre assai attenta all’evoluzione e alle involuzioni vissute dal mondo cattolico, fa uno schizzo magistrale della situazione di alcune comunità maschili francesi cercando di offrire un commento della situazione munito di alcune previsioni sociologiche del fenomeno monastico.

Secondo l’articolo di padre Roustang, che lasciò, in seguito alla reazione dei suoi superiori, la Compagnia di Gesù, il «terzo uomo» succedeva nell’immediato post-Concilio al «primo» assai conservatore e reticente rispetto all’aggiornamento conciliare, e si smarcava dal «secondo», conquistato alla riforma e impaziente di una messa in atto che sembrava troppo timorosa e lenta. Questo «terzo uomo», secondo François Roustang, si situava accanto per non dire meglio “altrove” sia da ciò che comunemente chiamiamo ala conservatrice come pure da quella progressista. Come afferma nel suo commento all’articolo padre Ghislain Lafont[3], a sentire di Roustang, il Concilio aveva permesso ad alcuni credenti di uscire dai binari che aveva esso stesso tracciato. Si potrebbe riassumere così: il Concilio permetteva ad ogni credente di essere uomo, semplicemente.

Insomma, questo «terzo uomo», cristiano convinto e discepolo appassionato del Vangelo, si smarca dai binari dogmatico-rituali, cui è stato abituato e in cui si sente ora costretto, per coltivare altrimenti ciò che ha sempre cercato di vivere. Oramai «viveva la sua fede in una dimensione di maggiore interiorità, condividendola eventualmente con quanti gli sono più prossimi, ma sentendo sempre di meno il bisogno di appartenere a una parrocchia e a parteciparvi»[4].

Siamo di fronte all’insorgere di «una terza razza, un terzo popolo, un terzo uomo» consapevole del fatto che «la volontà di riforma cominciata durante il Concilio passa ormai attraverso la sua persona e potrà continuare attraverso il suo sforzo di lucidità»[5]. Il riferimento alla testimonianza personale di papa Giovanni XXIII, prima che al suo magistero, sembra riproporsi ai nostri giorni con gli stimoli quotidiani della catechesi vivente di papa Francesco, tanto da poter dire con maggior convinzione che «il cristianesimo non è soltanto e non primariamente una pratica religiosa e morale, ma la possibilità di una comunicazione tra tutti gli uomini che genera il superamento delle discussioni settarie e la possibilità di una comprensione progressiva tra persone apparentemente estranee tra loro»[6].

Il monachesimo oltre continuità e rottura

Dopo la ripubblicazione di questo articolo, tanto controverso quanto profetico, possiamo dire che l’intuizione di padre Roustang era ben fondata e se riguarda tutti i credenti tocca e, per certi aspetti, cambia profondamente la percezione e la vita dei monaci e delle monache del nostro tempo. Per questo mi viene da rileggere Elogio della libertà ponendomi una domanda: siamo forse alle soglie di un “terzo monachesimo”?

Dopo esserci barcamenati tra continuità e rottura, forse possiamo e dobbiamo immaginare un monachesimo di “terzo tipo” che si intravede nel sottotitolo del testo edito dalle Dehoniane: «Il monachesimo come attuazione dell’umano». Quando si parlasse di monachesimo di «terzo tipo» o di «terzo monachesimo» si vorrebbe semplicemente, si fa per dire, uscire dal dilemma binario di monachesimo conservatore o innovatore, tradizionalista o riformatore per immaginare creativamente un monachesimo «di tradizione» capace di «riformattazione»[7].

Si tratta di un monachesimo sensibile non solo ai segni dei tempi evocati e invocati da Giovanni XXIII, ma, soprattutto, ricettivo del “segno” di quel profondo cambiamento antropologico occorso in questi ultimi decenni. Da questo cambiamento di percezione nessuno è esente, persino e soprattutto, chi fa finta di esserne quasi miracolosamente preservato. Se è vero, come viene sottolineato in apertura di Elogio della libertà, che il monachesimo riscuote una crescente attenzione proprio in quegli ambiti da cui il cristianesimo sembra escluso come il cinema e la letteratura[8], resta vero che i monasteri vivono in una situazione assai singolare.

Da una parte ci sono coloro che vivono, sicuri e tranquilli, in monasteri dove la continuità con il passato garantisce non solo la serenità, ma, talora, persino un invidiabile reclutamento. Dall’altra ci sono monaci e monache quasi tormentati da un bisogno di rinnovamento che, talora, si arena in una sorta di grigiore ideologico di ambiguità e un reclutamento instabile o del tutto assente. Tra il primo monachesimo, che si potrebbe definire di imperterrita continuità, e un secondo monachesimo di “ventura”, si può sperare in un “terzo monachesimo” per così dire integrale senza essere integrista?

Sarebbe possibile una soddisfacente e vivibile integrazione degli elementi “di tradizione” con il modo di percepirsi umani e credenti in questo tempo propizio per l’incremento di una libertà responsabile capace di trasmissione?

Rivisitare la tradizione e comprendere il monachesimo

Nessuno può pretendere di dare una risposta esaustiva a questa domanda. Ciò non toglie che una rivisitazione della tradizione monastica, in modo solidale con tutte le sue attuazioni anche in altre tradizioni religiose e filosofiche, può forse permettere una ricomprensione del monachesimo. Una ricomprensione non tanto per la sua identità, quanto piuttosto per la sua capacità di relazione tra attuazioni diverse dello stesso desiderio monastico sia all’interno della chiesa cattolica che all’esterno dei suoi confini visibili e praticabili.

In Elogio della libertà si cerca di presentare e di ripercorrere il “fenomeno” della vita monastica come un’esperienza antropologica trasversale alle religioni. Attraverso un approccio teorico e pratico si cerca di rileggere la vita monastica come un’istanza di umanità vissuta da alcuni, ma a servizio di tutti. L’approccio biblico-patristico unitamente a testi di altre tradizioni, si coniuga con i dati forniti dalle scienze umane per cogliere nella scelta monastica la risposta ad una predisposizione antropologica prima che ad uno slancio di tipo religioso. Ai testi della tradizione antica e a quelli più recenti si accostano anche riferimenti al cinema e alla letteratura.

Il lavoro di ogni monaco – cristiano, buddista, sufi, filosofo – è di creare le condizioni di una libertà di essere se stesso fino in fondo che diventa un messaggio di speranza per ogni uomo e donna chiamati a fare altrettanto a partire dalla propria indole, storia, scelte o costrizioni di vita. All’immagine di una vita monastica segnata dalla eccellenza eroica, si accosta un modo di pensarla in termini di eccedenza di umanità il cui tratto distintivo, pur nella necessaria separazione e differenza, è la solidarietà ricolma di compassione.

L’ascesi resta un elemento necessario, ma in vista di un’arte di vivere che comporta anche una necessaria passione di vita, che fa dell’irrinunciabile ascesi della vita monastica un laboratorio non solo di senso, ma anche di godimento di una esistenza piena: tutta da vivere e da condividere generosamente.

La domanda rimane aperta: può il monachesimo avere nostalgia del suo passato o deve piuttosto avere nostalgia del Regno di Dio che viene per tutti? L’aspetto escatologico, insito alla scelta monastica, non può essere confuso con una sorta di assenteismo storico che rischia di confondere la vita eterna che attendiamo con l’immortalità che non ci appartiene, soprattutto quando rischia di dimenticare la logica pasquale a favore di un trionfalismo etico ed estetico.

Una dimenticanza o, peggio ancora, un grave malinteso circa la dimensione escatologica propria della vita cristiana, che viene vissuta in modo profetico e testimoniale dai monaci e le monache con la loro particolare condizione esistenziale, può creare situazioni assai ambigue. L’esperienza monastica può infatti favorire la costruzione di persone mature in una libertà responsabile, oppure favorire una regressione antropologica di stampo religioso che si esprime nell’ossessiva attenzione all’osservanza di infiniti precetti con la conseguente concorrenza nella corsa verso l’eroismo spirituale.

In tal modo, non raramente, il monachesimo cede al sottile e gentile disprezzo verso chi non vive in questo modo. Sono proprio queste le preoccupazioni che animano chi, dall’interno della vita monastica, soffre e lavora per vivere la vocazione monastica che resta, come diceva un monaco sofferto quale fu Thomas Merton, «una delle più belle nella Chiesa di Dio». Il fatto che la vita monastica sia bella, non significa che sia facile e, soprattutto, che sia esente da ambiguità.

«Invece di vivere la vita monastica nella sua purezza e semplicità, tendiamo spesso a complicarla e guastarla con le nostre prospettive limitate e con i nostri desideri troppo umani. Attribuiamo così un’importanza eccessiva ad alcuni aspetti della vita monastica, spezzandone così l’equilibrio; oppure cadiamo in quella miopia spirituale che non coglie se non i dettagli, perdendo di vista la grande unità organica in cui siamo chiamati a vivere. In una parola, perché le innumerevoli regole di osservanze della vita monastica possano essere convenientemente intese, dobbiamo sempre tener presente il reale significato del monachesimo». [9]

Francesco, la vita religiosa e il monachesimo

Le intuizioni conciliari, con la loro vigorosa riproposizione da parte di papa Francesco, hanno acuito il problema di una vita monastica non più intesa come attestazione di un modo a parte di essere umani e discepoli che rischia di svolgersi talora asceticamente e non raramente comodamente in un mondo a parte.

Il monachesimo è richiamato energicamente a rimettere in equilibrio i suoi elementi costitutivi ereditati dalla tradizione per prendere coscienza in modo chiaro di non essere assolutamente «una realizzazione più perfetta del Vangelo ma, attuando le esigenze del Battesimo, costituiscono un’istanza di discernimento e convocazione a servizio di tutta la Chiesa: segno che indica un cammino, una ricerca, ricordando all’intero popolo di Dio il senso primo ed ultimo di ciò che esso vive»[10]. Attraverso le pagine di Elogio della libertà viene lanciata una possibile e forse urgente riflessione sulla possibilità di vivere un monachesimo cristologicamente compatibile e umanamente affidabile. Questo stile di monachesimo non si identifica esclusivamente con il monachesimo cristiano, ma vive in comunione con tutte le incarnazioni monastiche vissute in modi diversi nelle varie tradizioni religiose. La prospettiva di un dialogo interreligioso monastico[11] non ha semplicemente un valore culturale di mutua conoscenza e stima.

Esso si propone l’obbiettivo di una cospirazione per vivere una reale comunione tra monachesimi differenti capaci di dissodare solchi di speranza per l’intera umanità come sognava Thomas Merton: «I monaci, gli hippies, i poeti sono persone che contano? No, noi siamo deliberatamente irrilevanti. Noi viviamo di quell’irrilevanza congenita che è di ogni essere umano. L’uomo marginale accetta l’irrilevanza fondamentale della condizione umana, che si manifesta soprattutto con la morte. La persona marginale, il monaco, il profugo, il prigioniero, tutta questa gente vive in presenza della morte, la quale mette in discussione il significato della vita. Questa gente combatte la morte dentro di sé, cercando qualcosa di più profondo della morte e il compito del monaco o della persona marginale, della persona meditativa e del poeta è quello di andare al di là della morte anche in questa vita, di andare al di là della dicotomia vita-morte ed essere perciò un testimone della vita»[12].

Il patimento della liberazione

Per i monaci di oggi la pretesa di libertà, che fa parte delle conquiste non sempre prive di ambiguità della nostra cultura globalizzata, mantiene ancora viva la sua radice di necessaria previa liberazione. Così la vita monastica, con le sue tradizioni e consuetudini, può essere indicata come un processo di liberazione per la libertà. In questo movimento di liberazione per la libertà ciascuno è radicalmente solo ed essenzialmente “monachos”.

Paradossalmente Bernanos lamentava che «il mondo moderno è un mondo essenzialmente senza libertà»[13]. Questo perché fa fatica a ricordarsi e a ricordare che ogni esperienza di godimento della libertà deve passare per il necessario patimento della liberazione. Il contrario obbligherebbe ad una caduta di tono che, persino oggi come in passato, presupporrebbe che nei monasteri ci sia «una quantità notevole di uomini senza vocazione, che chiedono soprattutto di essere tenuti a freno»[14]. La vita monastica non è un freno per evitare che le persone diano il peggio di sé, ma lo stimolo e il sostegno perché ciascuno dia il meglio, permettendo alle persone e persino al mondo che lo circonda di fare altrettanto.

Da questo punto di vista non va dimenticato che «dopo tutto i monaci non sono degli specialisti della teologia: sono delle persone che cercano Dio; tutti i mezzi di espressione culturale della fede e tutti i mezzi di espressione culturale dell’umano possono avere diritto di cittadinanza nel monastero […]. Si tratta di permettere a ciascuno che sia uomo al meglio»[15].

Questa imprescindibile liberazione dalla prigione del proprio minuscolo ego, per quanto possa essere gonfiato, comporta inevitabilmente anche una purificazione capace di dilatare gli spazi di comprensione. Purificazione e comprensione sono la necessaria premessa alla collaborazione che, personalmente, mi piace chiamare cospirazione. Quest’ottimismo del cuore, così caro ai monaci e alle monache, non può mai essere confuso con l’ingenuità.

Ai monaci e alle monache dei nostri giorni, indipendentemente dal luogo e dal modo particolare in cui vivono, è richiesto dal mistero della vita che si fa storia di uscire da propri rifugi e di abbandonare le proprie tane per affrontare la sfida dell’incontro e del confronto. Troppa sofferenza dell’umanità sotto diversi cieli richiede di rompere il cerchio di quell’isolamento che ha creato incomprensione e violenza rallentando il cammino dell’umanità verso la sua pienezza di senso e di responsabilità.

Il sogno del monachesimo

Dobbiamo riconoscere di essere in un momento molto delicato e importante della storia in cui un mondo sta finendo e qualcosa di nuovo tenta e stenta di venire alla luce. La domanda è se la fedeltà monastica dei monaci dei nostri giorni sogna di spostare le montagne e di risuscitare i morti, oppure si accontenta di intrattenere dei musei e prendersi cura dei cimiteri.

Se apriamo gli occhi, dopo aver purificato il cuore, non possiamo che rallegrarci per il fatto che un altro mondo stia sorgendo: meno austero, ma forse più sereno e indubbiamente più vero. Questo potrà avvenire se il disincanto mitologico di se stessi[16], si trasforma in rinnovata capacità di meraviglia e di ammirazione. Solo lo stupore ritrovato e rinnovato permette una rimitizzazione in cui si accetta di pensare per simboli e non per concetti, di osare la vita come sfida e non come pura ripetizione.

Mentre nell’immaginario comune e i monaci e i monasteri spesso vengono associati alla conservazione e preservazione di gloriose forme del passato, il compito reale della vita monastica è di tenersi saldamente sulla breccia dell’indomita protesta contro ogni forma di addomesticamento della forza del Vangelo. Questo richiede una maturazione nella libertà virilmente liberata da ogni ripiegamento sul proprio comodo o, peggio ancora, sulle proprie paure di osare la vita. La protesta della vita monastica oggi diventa ancora più urgente di quanto lo fosse durante la guerra del Vietnam con personaggi scomodi come Thomas Merton.

In un mondo che rischia di distruggere la propria capacità di trasmettere non solo i valori, ma persino l’abitabilità del pianeta, i monaci e le monache sono chiamati, ancora una volta e in modo adeguato al nostro tempo, ad essere profeti di speranza e artigiani creativi per dissodare nuovamente le terre della nostra comune umanità.

La riflessione di Elogio della libertà parte da una critica al limite del sarcasmo – quella di Erasmo da Rotterdam – unitamente all’evocazione del successo cinematografico del tema monastico. Cosa preferire tra queste due posizioni o reazioni? Bisogna augurarsi di non dare adito a fondate critiche sarcastiche, ma, al contempo, bisogna che i monaci vigilino sul pericolo di diventare «alla moda».

La moda rischia di trasformare i monasteri, di qualsivoglia tradizione e osservanza, in salotti spirituali. Naturalmente il ruolo del cinema può dare ancora più carica alla protesta della vita monastica, ma non va mai dimenticato che la carica profetica della protesta della vita monastica comporta un certo livello di scomodità. La libertà della differenza vissuta dai monaci, infatti, tocca il punto nevralgico di ogni mondanità, non esclusa quella spirituale, di cui la civetteria monastica è un’espressione particolarmente pericolosa.

Un «terzo» monachesimo?

Bisogna riconoscere che oggi il monachesimo gode di una certa stima persino da parte di persone che non vanno in chiesa e, talora, rischia di diventare persino una sorta di “nobile” alternativa alla vita consueta delle parrocchie. Questo ritorno del monachesimo e al monachesimo dice qualcosa di importante sulla vita degli uomini e delle donne del nostro tempo che, nonostante tutte le apparenze e le contraddizioni, continuano ad avere fame e sete di senso.

Per quanti hanno scelto la vita monastica questo è sicuramente un appello, ma può anche diventare una tentazione. L’appello riguarda il ruolo di profezia di speranza per l’umanità; la tentazione riguarda il pericolo di cedere alle lusinghe dell’ammirazione dimenticando l’impegno nel proprio cammino ascetico. Per evitare questo pericolo, si rende necessario conservare e coltivare uno sguardo rigoroso sulla propria vita a fronte dell’ammirazione di quanti guardano la vita monastica dall’esterno. Un passo per vivere questo distacco emotivo dall’ammirazione degli altri, per non lasciarsi distrarre dal combattimento spirituale, è quello di non pensarsi indispensabili e, forse, neppure così importanti.

Quando i monaci reclamano un ruolo nella Chiesa e nella società o si lamentano della loro marginalità, in realtà sono già in pericolo di identità con la conseguente decadenza nel loro proprio servizio. La profezia nell’eccesso della gratuità comporta l’appassionato rischio dell’inutilità e dell’invisibilità come quella donna che mette tutta la sua vita nel tesoro del tempio sicura che non importi a nessuno e di essere sconosciuta a tutti (cf. Mc 12, 41-44). Si tratta di vivere radicalmente il proprio stato con le sue inconfondibili caratteristiche di differenza ascetica nell’abitare il mondo, senza mai confondere l’eccedenza con l’eccellenza.

La domanda ritorna: siamo forse all’alba di un «terzo monachesimo»?

[1] F. ROUSTANG, Le troisième homme. Entre rupture personelle et crise catholique, Odile Jacob, Paris 2019.

[2] D. HERVIEU-LEGER, Le temps des moines, Puf, Paris 2017.

[3] Cf. SettimanaNews.

[4] F. ROUSTANG, Le troisième homme…, p. 8.

[5] Ibidem, pp. 20-21.

[6] Ibidem, 24.

[7] Cfr: Non perfetti, ma felici, EDB 2015, pp. 93-97.

[8] Ph. GRÖNING, Il grande silenzio, Germania 2005; X. BEAUVOIS, Des hommes et des dieux, Francia 2010 ; tra i tanti che si potrebbero citare la recente raccolta di articoli di P. RUMIZ, Il filo infinito, Feltrinelli 2019.

[9] Th. MERTON, Il monaco, La Locusta, Vicenza 1964, pp. 7-8 (titolo originale: Basic principles of monastic spiritualità, Abbey of Gethsemani, Kentuky 1957). Per una breve introduzione al cammino spirituale di Merton e, in specie, alla sua apertura interreligiosa vedi: A. MONTANARI, Un viandante di regni, Seregno-Milano 2007.

[10] Vultum Dei quaerere, 4.

[11] Cf. Film: La via dell’ospitalità, San Paolo 2017.

[12] Th. MERTON, Diario asiatico, appendice III: La concezione monastica di Thomas Merton, Garzanti, Milano 1975, p. 273.

[13] G. BERNANOS, La liberté pour quoi faire?, Gallimard, Paris 1995, p. 121.

[14] F. OVERBECK, Le origini del monachesimo, Medusa, Milano 2006, p. 61.

[15] G. LAFONT, Des moines des hommes, Stock 1975, pp. 176-177 (trad. it. Monaci e uomini nella Chiesa e nella società, Cittadella 2016).

[16] Cf. R. LENAERS, Gesù di Nazaret. Uomo come noi? Gabrielli 2017.
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