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Liberarsi dalle false immagini di Dio

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Anticipiamo la prefazione, scritta dal fondatore della Comunità di Bose, e un brano del volume Non è quel che credi. Liberarsi dalle false immagini di Dio (Bologna, Edb, 2019, pagine 168, euro 13) di Francesco Cosentino, docente di Teologia fondamentale alla Pontificia Università Gregoriana e officiale della Congregazione per il clero.

A che punto è l’annuncio del vangelo come buona notizia nella nostra società italiana? Con che linguaggio possiamo rendere le nostre parole su Dio comprensibili, prima ancora che accettabili e convincenti? E se dopo secoli di cristianità — in cui esigenze evangeliche, precetti ecclesiali, morale privata, etica pubblica, diritto civile, istituzioni statali viaggiavano in sostanziale armonia — sono bastati pochi decenni di secolarizzazione perché molti battezzati vedessero prevalere attorno e dentro di sé immagini di Dio negative e malsane, com’è possibile ritrovare la freschezza del vangelo e ridare splendore al volto di Cristo, il Figlio di Dio, l’uomo Gesù che ha saputo narrarci il Padre con parole che nessuno aveva mai udito prima?

A queste domande, così brucianti ed esigenti, cercano di rispondere con pacata risolutezza le pagine che seguono. L’autore non si attarda a distribuire colpe e responsabilità a quanti lo hanno preceduto nell’arduo e affascinante compito di trasmettere la fede. Anzi, grato per il suo personale itinerario di credente — un cammino in un certo senso da «privilegiato», che gli ha risparmiato le secche di una fede immiserita a religione di campanile — don Cosentino supera di slancio la tentazione di rammaricarsi per un’epoca che, pur con tutti i suoi evidenti limiti, ha comunque consentito alla fiaccola della fede di giungere fino ai nostri giorni.

L’analisi dell’impasse che la corsa del Vangelo nel mondo contemporaneo conosce è lucida e tagliente, ma non è né impietosa né arrogante, anzi è colma di attenzione, di cura, di sollecitudine pastorale, di misericordia verso le persone, siano esse ormai lontane dalla compagine ecclesiale, magari preda di un’acidità verso un passato di pesi e asfissia, oppure stancamente assestate in una condizione senza molte prospettive di speranza vitale.

L’autore non evita le questioni più scottanti, né le problematiche a volte incancrenite nel vissuto ecclesiale quotidiano, né tace sull’affievolirsi di una luce che fatica a illuminare e scaldare il cuore dei fratelli e delle sorelle in umanità. Ma non vi è mai una sola riga di scoramento, di accettazione passiva delle contraddizioni al Vangelo: basta tornare ogni volta con risoluta determinazione alla domanda maestra: «Le nostre immagini di Dio corrispondono a quella che ci ha donato Gesù?». Se il criterio decisivo è questo, allora tutto può riprendere vita e senso, allora la cenere può essere scostata e la brace riprendere ad ardere, allora lo «sta scritto» torna a essere «Parola di vita», che ridesta alla vita.

È significativo che il paradosso del titolo provocatore — Dio «non è quel che credi» — finisce per valere anche per l’ateo e il non credente: «Dio non è quello cui tu non credi!». Sì, perché le immagini distorte di Dio che noi cristiani coltiviamo in noi stessi non corrispondono al Dio di Gesù Cristo narrato e testimoniato nei Vangeli. Non dovremmo allora stupirci se questo volto sfigurato, deturpato, estraneo ai tratti evangelici di Gesù di Nazaret suscita rigetto o, al meglio, indifferenza nei nostri contemporanei. Si tratta quindi, come suggerisce nelle righe finali l’autore, di «tornare a leggere, meditare e pregare il Vangelo». Solo così sarà possibile l’incontro personale con Gesù e l’affascinante riscoperta dell’autentica immagine di Dio, quell’immagine che ogni essere umano custodisce indelebile nel più profondo del proprio essere.


La predica di Neale

Una signora del pubblico, che sta ascoltando la predica di Neale Donald Walsch, a un certo punto si alza e chiede: «Se Dio volesse farci arrivare un messaggio, intendo il suo messaggio più importante per tutti noi, e lei dovesse sintetizzarlo in un paragrafo, che cosa scriverebbe?». Dopo una breve pausa, Neale risponde: «Lo ridurrei a quattro parole: voi mi avete frainteso».

La scena è narrata nel film Conversazioni con Dio, che riprende un vendutissimo bestseller americano in cui si racconta la storia vera di Neale Donald Walsch, il quale, dopo aver perso il lavoro ed essere finito nel baratro, vive una forte esperienza di Dio e diventa un famosissimo messaggero spirituale.

Non ci interessa discutere su Neale, sul suo successo e sul messaggio spirituale che diffonde. Ciò che desidero invece comunicare in questo libro è la convinzione che alla base dell’odierna crisi spirituale vi sia un grande ostacolo per la fede cristiana: abbiamo frainteso Dio. Il fraintendimento di Dio è ciò che spesso impedisce di entrare in una relazione viva con lui e con la Chiesa.

Si incontrano persone che, nella loro infanzia, hanno interiorizzato un’immagine di Dio oppressiva e soffocante. Esse hanno conosciuto Dio come un contabile puntiglioso o un giudice severo. Alcune di queste persone, nella vita, hanno sviluppato un atteggiamento religioso alimentato dalla paura di essere punite o non accettate; anche se molte volte hanno ascoltato che «Dio è amore e misericordia», hanno conservato intimamente la sensazione di non essere a posto davanti a un giudice così spietato. La loro religiosità fa leva sul sacrificio e sul peccato, mentre sono schiacciate dal senso di colpa, dal timore del giudizio e da una crescente ansia di prestazione religiosa.

Esteriormente si presentano spesso ligie e perfette, ma, in realtà, vivono un profondo disagio interiore e non riescono ad accogliere serenamente i propri limiti e le proprie fragilità. Guidate dal loro rigido super-io, restano schiacciate sotto il peso delle sue richieste. Purtroppo questo loro stato, talvolta, è dannosamente alimentato dai toni accusatori e moralisti di certe omelie, di alcune catechesi e di tutto un mondo devozionale, che suscita rimorsi, eccessi di scrupolo e sensi di colpa.

Vi sono però altre persone, tra quelle che hanno interiorizzato una cattiva immagine di Dio, che da adulte si sono definitivamente liberate di lui. Inconsciamente, qualcosa di quel simbolo sopravvive e li condiziona ancora, ma, dal punto di vista delle loro esplicite convinzioni, esse hanno ritenuto fosse un bene liberarsi di un Dio che ha avvelenato i piaceri della vita e di un mondo religioso che ha tagliato le ali alla gioia e alla libertà. Poiché in Dio non hanno trovato il Pastore buono e accogliente, tantomeno il Padre con le braccia spalancate, hanno rivolto contro di lui la propria rabbia. O, semplicemente, lo hanno definitivamente abbandonato e con lui non vogliono più avere niente a che fare.

In un suo libro recente, che ho letto davvero con grande frutto, Enzo Bianchi afferma: «A volte Dio diventa una presenza ossessiva, e va riconosciuto che di ciò sono particolarmente responsabili quanti si appellano a lui e magari si dicono investiti dell’autorità e della missione di parlare di lui: quante immagini perverse, quanti vitelli d’oro (cfr. Es 32) hanno fabbricato e fabbricano con l’intenzione di “fare il bene”, di “educare”, di radicare la religione... Fabbricano e distribuiscono immagini di un Dio che ama finché uno fa il bene, ma che non ama più chi fa il male; immagini di un Dio “spione” (“Dio ti vede!”), che vìola la nostra stessa intimità; si spingono fino a tracciare veri e propri sgorbi di un Dio che castiga ed è pronto a farcela pagare se non lo compiacciamo in tutto... Dovremmo ricordare che quando uno ha un’immagine perversa di Dio, un’immagine del Padre nei cieli peggiore di quella del padre umano che, pur insufficiente, ha conosciuto, allora diventa ateo, cioè preferisce fare a meno di Dio. Perché un Padre-padrone, un Padre che chiede prestazioni non è sopportabile» (E. Bianchi, Raccontare l’amore).

Io sono grato all’ambiente religioso in cui sono cresciuto. Nella mia famiglia c’è stato uno spirito di fede e, successivamente, un cammino spirituale più profondo, che non hanno mai avuto il retrogusto del bigottismo. Nella comunità parrocchiale che frequentavo da bambino ho sviluppato una fede gioiosa e lì sono nate alcune delle mie più belle amicizie.

Infine, prima di maturare la scelta del sacerdozio, ho ricevuto la grazia di essere accompagnato e sostenuto da un parroco amabile, una persona pienamente umana, spirituale, delicata, riconciliata con Dio e con gli altri; con la sua vicinanza e l’approccio della sua predicazione mi ha presentato Dio in modo affascinante e mi ha trasmesso un’immagine felice della fede e del sacerdozio.

Nella mia infanzia non sono stato ferito o turbato dall’esperienza religiosa. Tuttavia, ho incontrato e mi capita ancora di ascoltare persone che hanno vissuto un’esperienza diversa.

Generalmente succede che, nel dialogo, è la pazienza a portare frutto: se non si giudica tutto e subito, e si riesce a mettere tra parentesi una certa inevitabile asperità nel confronto, lentamente queste persone si sciolgono e riescono ad aprirsi; riescono a intuire, cioè, che le loro convinzioni e sicurezze si radicano in una certa immagine di Dio o esperienza di Chiesa, ma che, al contempo, le cose forse non stanno esattamente come pensano.

Bisogna ammetterlo: una certa educazione religiosa del passato, che ha visto espressioni di eccellenza e molti punti forti, ha avuto anche dei lati oscuri.

Questo libro nasce dal desiderio di aiutare le persone a percorrere una via di guarigione dalle immagini di Dio negative e malsane, che spesso hanno ferito la loro vita; si tratta di un percorso di riconciliazione con Dio, nato dalla convinzione che tra quelli che oggi rifiutano Dio — e non sono pochi — molti stanno in realtà respingendo un’immagine sbagliata di lui. Dinanzi alla situazione di queste persone abbiamo il dovere di chiederci: come è possibile fare una buona esperienza di Dio? È possibile annunciare Dio come una buona notizia?

di Francesco Cosentino

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