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Lidia Maggi "Con un pizzico di appeal"

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Il libro di Giuditta ci regala un diverso punto di vista sull’uomo e su Dio
teologa e pastora battista
Agosto-Settembre 2019

Per qualcuno può essere ancora una sorpresa scoprire che, all'interno della Bibbia, si trovino libri che portano il nome di eroine femminili, come Ester e Rut.

Anche Giuditta si colloca in questa genealogia, a testimoniare che il potere divino critica e questiona ogni dominio umano, patriarcato incluso. Giuditta è una donna ebrea che, con la sua intraprendenza, riesce a salvare l’intero popolo assediato dal nemico.
La protagonista, però, entra in scena solo a metà dell'omonimo libro, al capitolo 8. Con una sapiente maestria letteraria, il narratore ha costruito attesa e suspense intorno alla sua figura. Nella prima parte del racconto viene delineato uno scenario mondiale, dove i più forti padroneggiano sui più deboli. Le tante inesattezze storico-geografiche suggeriscono che non ci troviamo di fronte ad eventi realmente accaduti; e tuttavia le situazioni che si delineano nel racconto richiamano le tante esperienze di oppressione che il popolo ha dovuto affrontare durante la sua parabola storica. È come se l’autore di questa epopea ci dicesse: «Questa storia non è mai accaduta perché accade in ogni epoca».
Il nemico cosmico è l’Assiria, con a capo un re che pretende di essere considerato e adorato come un Dio. Il suo nome è quello del famigerato Nebucadnetzar che, in realtà, era re a Babilonia. Queste incongruenze storiche, oltre a segnalarci che ci troviamo di fronte ad un racconto edificante, non si preoccupano di fornire informazioni esatte, a chi ascolta suggeriscono che il potere del tiranno, nelle diverse epoche storiche, assume tratti ricorrenti, rivela un medesimo volto.
Il re dell’Assiria vuole sottomettere tutte le nazioni; ma una di queste sembra resistergli. È la più piccola, ma ha dalla sua il Dio di Israele. Solo dalla relazione con il suo Dio dipende il successo o la sconfitta di Israele. Se il popolo è fedele, Dio lo protegge e salva; se invece pecca e tradisce, viene punito da questi attraverso il nemico di turno. La piccolezza di questa gente, dunque, non deve essere sottovalutata, come spiega inutilmente Achior ai potenti di Assiria.
Oloferne è il potente generale incaricato di sottomettere questo popolo ribelle. Viene deciso un assedio che ridurrà alla sete il popolo, assediato nella città di Betulia. Di fatto, la resistenza di Israele sembra venire meno nel momento dello stremo.

In scena Giuditta

È solo a questo punto che appare la nostra eroina, presentata dalla voce narrante come una ricca vedova che gode di grande rispetto tra il popolo. Giuditta è una donna autonoma, molto avvenente e fedele al Dio di Israele. La sua genealogia, la più lunga mai attribuita ad una donna nella Bibbia, la collega a Manasse, figlio di Giacobbe.
Giuditta convoca un consiglio degli anziani, dopo che questi hanno deciso di resistere all'assedio per altri cinque giorni. Se il Signore non interverrà in questo tempo, il popolo si arrenderà. Scelta criticata dalla nostra eroina che ritiene che non si possa porre a Dio un ultimatum. Va bene implorarlo nella distretta, ma è da insensati stabilire i tempi di un intervento divino. Una vera disputa teologica prepara l'azione della donna che, dopo essersi dissociata dalla decisione del consiglio, decide di agire. Annuncia loro che ha un piano per distruggere il nemico e salvare la città assediata. Quanto ai dettagli, però, tace. Anche chi legge dovrà vivere “in diretta” quanto Giuditta ha intenzione di fare.
E così seguiamo la giovane vedova mentre abbandona i vestiti del lutto e si prepara, con una cura meticolosa, a trasformarsi in “femme fatale”. In compagnia della sua ancella, come una misteriosa principessa, lascia la città e si dirige verso l'accampamento nemico. È la forza della sua bellezza ad aprirle le porte dell’ospitalità nemica. Il testosterone dei soldati anestetizza la ragione ed essi bevono ogni parola che lei pronuncia. Essa, mentendo, dichiara di essere scappata dalla città per trovare protezione sotto la tenda del potente Oloferne. Nessuno sembra resistere al fascino di quella donna, apparentemente fragile (e tanto bella!), che implora salvezza. Eccola, alla presenza del terribile Oloferne, lisciare il suo ego maschile, mostrandosi non solo indifesa e disarmata, ma anche saggia e misteriosa.
Essa rifiuta il cibo che le viene offerto, preferendo mangiare quanto si è portata da casa. Sa che il suo cibo finirà in pochi giorni; ma basteranno pochi giorni per vedere concluso l'assedio. Giuditta racconta al generale il segreto della forza di quel popolo che ha osato resistere al più forte della terra. Esso risiede nella fedeltà al suo Dio, fedeltà che verrà meno in una manciata di giorni, quando, stremato dalla fame e dalla sete, il popolo profanerà le primizie offerte al Signore. Sarà allora che Giuditta indicherà la via di accesso per le montagne che permetterà al nemico di espugnare la città. Ha conquistato il generale con la sua astuzia, oltre che con la sua avvenenza.
Accolta nell’accampamento nemico, la vediamo muoversi con scaltrezza, fino a ottenere di poter uscire giornalmente fuori dalle tende per compiere i propri riti religiosi. Questo le garantisce quella libertà di movimento necessaria per attuare il suo progetto. Un piano che nessuno ancora conosce, tantomeno chi legge; e questo aumenta la suspense della storia. Nei primi giorni nulla accade: la bellissima Giuditta, assieme alla sua inseparabile ancella, esce, si lava al fiume e ritorna alla sua tenda per nutrirsi con il cibo portato da casa. Al quarto giorno, ecco che il generale Oloferne fa avere alla fanciulla un invito per un banchetto. Quella donna lo ha stregato. Non resiste più, deve sedurla e possederla! La ragazza accetta l’invito e si reca al convito. Il Generale è sicuro di avere al laccio la sua preda. È felice, tutto va secondo i suoi piani: presto la bellissima Giuditta giacerà accanto a lui. È solo, con la donna desiderata. Beve, esagera col vino fino a ritrovarsi ubriaco. A questo punto Giuditta afferra la sciabola di Oloferne e lo decapita. Consegna la testa alla sua serva e, come nei giorni passati, lascia l’accampamento per il solito giro. Nessuno si accorge di nulla.
Giuditta non farà più ritorno. Si incammina, invece, verso la città assediata per mostrare il suo cimelio di battaglia e incoraggiare il popolo alla rivolta. Quando il corpo senza vita di Oloferne viene trovato dalle guardie, nell'accampamento si crea un tale subbuglio che i soldati dell’esercito nemico, spaventati, fuggono tra le montagne, inseguiti dagli ebrei pronti alla battaglia. Il popolo è salvo e Giuditta, come prima di lei aveva fatto Miriam, celebra la vittoria con inni e danze. Canta le sue gesta e la gloriosa forza di Dio che si è servito di una vedova per sconfiggere il tiranno e liberare il popolo. La pace ritorna nella città di Betulia, dove Giuditta trascorrerà gli anni a venire nella più completa autonomia. Non si risposerà e vivrà rispettata e venerata dal popolo.

Un’eroina, un popolo

Il libro di Giuditta - composto, probabilmente, tra il secondo e il primo secolo a.C. - non per tutti i cristiani appartiene al canone biblico. Per le chiese della Riforma esso fa parte di quei libri chiamati “deuterocanonici”, a cui viene riconosciuto un carattere edificante, ma non rivelativo, essendo scritto in greco e non essendo stato accolto nel canone ebraico.
Ma al di là delle differenze di giudizio confessionali, questo libro ci offre una storia edificante, con evidenti lati ironici. Il regno più potente del mondo viene annientato dall'essere con meno potere sulla terra: una vedova! La vittoria, qualche volta, può risiedere nell’astuzia, piuttosto che nella forza: tema caro ad Israele, che ha dovuto affrontare in tante situazioni la propria debolezza militare.
Il nome stesso dell’eroina lascia intuire che si può leggere questa storia in chiave simbolica. Il nome Giuditta rimanda ai giudei: rappresenta Israele. Un nome cantato dalla tradizione profetica come fanciulla bella e avvenente, legata a Dio da un patto sponsale. In forza di questo legame, anche un piccolo popolo può decapitare il potere assoluto: a patto che confidi in Dio e non nella propria forza militare.
Dio, però, in questa storia, sembra essere il grande assente, nonostante il suo nome riempia quasi ogni capitolo. Giuditta, che pure lo nomina e lo adora, non prega mai per chiedere a Lui consiglio: decide sempre da sé, in piena autonomia. Questa donna che, a motivo della sua condizione di vedova, di fatto è sottratta al potere maschile, sembra volersi liberare anche dal potere esercitato da un Dio patriarcale, quel Dio che sancisce che le donne debbano essere relegate nella sfera domestica. Giuditta non solo si assume la piena responsabilità delle proprie azioni, ma utilizza i propri spazi di autonomia per il bene collettivo. Agisce senza paura delle ambiguità. Usa la sua bellezza per sedurre e manipolare il nemico. La posta in gioco è troppo alta per chiedersi se sia lecito o meno ingannare. Se si tratta di salvare la vita di un popolo assediato, tutto diviene lecito, persino giocare il ruolo della seduttrice.

Per conto di Dio

A differenza dei capi di Israele, Giuditta non si aspetta che Dio intervenga direttamente. E in questo modo ci testimonia una diversa immagine di Dio, che domanda agli esseri umani la disponibilità ad agire, ad usare l'immaginazione per mettere in moto cambiamenti. Giuditta è una donna “in uscita”: esce fuori dai canoni sociali in cui avrebbe potuto lasciarsi rinchiudere; lo fa per ricercare un bene più grande: salvare la vita di un popolo. Giuditta esce fuori quando osa dissentire con gli anziani sul modo in cui Dio agisce nella storia. Esce fuori dalla sua vedovanza per vestire gli abiti della seduzione, quando si prepara alla battaglia. Esce fuori quando supera le mura della città natale per entrare in territorio nemico. Esce fuori quando, nonostante le convenzioni sociali, accetta di banchettare con il terribile generale. Infine, esce fuori quando compie un atto violento per decapitare il potere malvagio.
In situazioni estreme - sembra suggerire questo racconto - la differenza tra il bene e il male richiede un ulteriore discernimento, rispetto a quello fornito dalle proprie convinzioni religiose. Non basta, cioè, attenersi al “non uccidere”; occorre rischiare ed agire per far fronte ad una situazione drammatica, che produce morte. Ma qui Giuditta osa andare oltre l'agire politico del complotto, dell'inganno, della violenza, giungendo a travestirsi da “femme fatale” per fermare il genocidio. La casta si traveste da escort. Si maschera per smascherare la presunta invincibilità dei potenti, come anche la rassegnata resa dei deboli. E così facendo svela un altro sguardo sulla storia, sulle donne e sugli uomini e persino su Dio.
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