Enzo Bianchi "In ascolto del grido dei popoli indigeni"
di ENZO BIANCHI
dal sito del Monastero di Bose
Una “periferia” del mondo, l’Amazzonia, terra lontana, poco conosciuta, raramente alla ribalta della cronaca e possiamo dire anche dimenticata, per volontà di papa Francesco diventa un soggetto ecclesiale che celebrerà il suo sinodo al cuore della chiesa cattolica, a Roma, nel prossimo ottobre.
Soggetto ecclesiale, questa “chiesa sorella” delle altre che compongono l’unità cattolica si interroga su se stessa, sulla sua vita quale comunità di credenti in Cristo, sulla sua collocazione nel mondo e su ciò che sta accadendo nella storia del pianeta terra.
Ecco perché il titolo del sinodo è “Amazzonia: nuovi cammini per la chiesa e per una ecologia integrale”. Questo sinodo, ormai è diventato evidente, vedrà la chiesa dell’Amazzonia come un soggetto paradigmatico che, in ascolto di ciò che lo Spirito santo ispira e chiede, getterà luce anche sulla vita e sul futuro delle altre chiese, soprattutto delle nostre chiese in occidente. Si rifletterà sull’Amazzonia, ma ciò che si dirà avrà una ricaduta universale e causerà quello scambio di doni che rende davvero multicolorata e universale la chiesa del Signore Gesù Cristo, la “fraternità” – come la chiama l’apostolo Pietro (1Pt 2,17; 5,9) – presente tra le genti della terra.
Dopo due anni di preparazione, processo che ha coinvolto concretamente le comunità cristiane dell’Amazzonia (vescovi, presbiteri, missionari, fedeli uomini e donne), si è giunti a redigere l’Instrumentum laboris pubblicato il 17 giugno scorso. È un documento che sorprende, perché traccia con audacia nuovi cammini per l’evangelizzazione e la vita ecclesiale e con passione profetica chiama i cristiani e gli uomini tutti a diventare consapevoli del loro atteggiamento nei confronti del potere politico, economico e tecnocratico, e di conseguenza nei confronti del futuro del pianeta, a partire dalla regione amazzonica. Comincio questa mia breve riflessione ricordando che il documento è composto di tre parti: la prima parte è un ascolto del grido dell’Amazzonia, che si autodefinisce e mostra la sua identità; la seconda è un ascolto del grido dei popoli indigeni, dei poveri sofferenti nelle periferie o nei movimenti migratori; la terza raccoglie le sfide e le speranze della chiesa presente in quelle terre.
Nell’insieme del documento sono presenti riflessioni che meriterebbero di essere commentate per esteso, ma mi soffermo soltanto sulla terza parte, quella che traccia il cammino profetico della comunità cristiana. Non senza però aver prima messo in risalto un’affermazione metodologica che illumina il cammino di conversione ecclesiale: “Il processo di conversione a cui è chiamata la chiesa implica disimparare, imparare e reimparare. Questo cammino richiede uno sguardo critico e autocritico che ci permetta di identificare ciò che dobbiamo disimparare, ciò che danneggia la casa comune e i suoi popoli” (n. 102).
La conversione contiene questa dinamica del tralasciare, del dimenticare atteggiamenti e consuetudini nella misura in cui sono in contrasto con il Vangelo: è ciò che il linguaggio classico definiva deformata riformare. Si tratta dell’incessante impegno della chiesa, la quale deve sempre fare un esame di coscienza e convertirsi, cambiare, rinnovare anche ciò che pareva assodato ma che il discernimento spirituale operato qui e ora giudica in contraddizione con il Vangelo. Certo, la chiesa confessa le sue colpe e vuole “lascia[re] alle spalle una tradizione coloniale monoculturale, clericale e impositiva [per] discernere e assumere senza timori le diverse espressioni culturali dei popoli … L’universalità o cattolicità della chiesa, quindi, è arricchita dalla bellezza di questo volto pluriforme dovuto alle diverse manifestazioni delle chiese particolari e delle loro culture, formando una chiesa poliedrica” (n. 110).
Con questa premessa comprendiamo il proposito di una chiesa accogliente e missionaria che sappia incarnarsi nelle diverse culture. È un’operazione faticosa che, soprattutto nel secondo millennio, è parsa quasi impossibile, impraticabile, impedendo di fatto all’evangelizzazione la sua fecondità e imponendo con poco rispetto delle altre culture un vangelo nella forma monoculturale occidentale e cattolica-romana. Quante difficoltà, anche durante la recente riforma liturgica postconciliare, di fronte alle richieste e ai desideri soprattutto delle genti dell’Africa che diventavano cattoliche…
L’Instrumentum laboris presenta dunque proposte coraggiose, avanzate con audacia, passione e convinzione: “La diversità culturale non minaccia l’unità della chiesa, ma esprime la sua autentica cattolicità mostrando la bellezza di questo volto pluriforme” (n. 124). Solo così la chiesa di una regione, di una cultura, diventa soggetto, diventa pienamente chiesa. Il mutamento del paradigma missionario è radicale. Si tratta infatti di andare tra le genti annunciando il Vangelo eterno, ma con l’atteggiamento di chi annuncia: “C’è tra di voi uno che non conoscete” (Gv 1,26), con l’attenzione ai segni dei luoghi e dei tempi, con la positiva ricerca dei “semi del Verbo” presenti nelle culture e nelle tradizioni di coloro ai quali si indirizza il Vangelo. Nessuna imposizione esterna, nessuna pretesa di portare la cultura, nessun atteggiamento di possesso della verità, ma un vero ascolto dell’altro, nella convinzione che le genti non sono sprovviste di doni fatti loro dal Signore nel corso dei secoli: doni di fede, di speranza e di carità, vissuti in obbedienza alla loro coscienza ma anche alle loro tradizioni spirituali e religiose, che abbisognano certo di un discernimento ma che non possono essere semplicemente sottovalutate, dimenticate o addirittura rinnegate.
Ecco dunque aperto il cantiere della teologia, della spiritualità e, non ultimo, quello della liturgia. La chiesa dovrebbe fare maggiormente memoria di come nel primo millennio è riuscita a esprimersi nelle diverse culture dell’area mediorientale: con teologie e liturgie diverse, perché diverse erano le culture e le lingue che le esprimevano, come testimoniano i diversi riti orientali. Non si abbia quindi paura: nessuno spontaneismo, ma neanche nessuna paura di percorrere nuove strade, di “trovare i nuovi segni, i nuovi simboli, una nuova carne per la trasmissione della Parola” (n. 124) e per la celebrazione del Vangelo nelle liturgie cristiane. Come già in Evangelii gaudium, si ribadisce infatti che “senza questa inculturazione la liturgia può ridursi a un ‘pezzo da museo’ o a ‘un possesso di pochi’” (ibid.).
E qui mi si permetta una confessione. Quante volte, partecipando in Africa o in Asia alla liturgia eucaristica celebrata dai missionari là presenti, mi sono chiesto perché quelle assemblee dovevano vivere una liturgia addirittura in latino e, dopo la riforma, comunque all’insegna dell’“ingessata” ritualità romana… Non basta l’uso delle lingue locali (soprattutto in alcuni canti), ma occorre che la preghiera eucaristica stessa sia espressione della cultura autoctona, fermo restando il suo significato di irrinunciabile memoriale pasquale. Creatività non a basso prezzo, non superficiale, ma pur necessaria per esprimere nella sua integrità l’eucaristia che la chiesa ha ricevuto e trasmesso nei secoli (cf. 1Cor 11,23-26).
E affinché i fedeli possano vivere una vita sacramentale piena e una liturgia che non si riduca soltanto a “Parola predicata”, ecco allora l’auspicio: “Invece di lasciare le comunità senza l’eucaristia, si cambino i criteri di scelta e preparazione dei ministri autorizzati a celebrarla” (n. 126). E ancora: “È necessario passare da una ‘chiesa che visita’” – cioè da una chiesa che è impegnata con i suoi attuali ministri a fare visita alle comunità perché non manchino i sacramenti – “a una ‘chiesa che rimane’, accompagna ed è presente attraverso ministri che emergono dai suoi stessi abitanti” (n. 129). E se il celibato è un dono grande che la chiesa nella sua disciplina latina chiede ai presbiteri, come nelle altre chiese (anche cattoliche, si pensi alle chiese orientali), quando vi siano le condizioni, si possono anche ordinare uomini che vivono il sacramento del matrimonio (cf. ibid.). Accanto a questa apertura dettata dal principio della salus animarum, la chiesa sia audace e nella libertà dello Spirito santo, come la chiesa nascente ha saputo creare il ministero dei sette senza riferimento alle istituzioni giudaiche (cf. At 6,1-7), così conferisca un ministero da affidare alle donne, che già ora rivestono un ruolo centrale nella vita delle comunità cristiane, non solo amazzoniche (cf. n. 129).
Questo documento è veramente capace di indicazioni profetiche per la vita della chiesa, e il sinodo non sarà una celebrazione senza ricadute per la vita delle altre chiese. Non resta dunque che pregare affinché vi sia ascolto di ciò che lo Spirito dice alle chiese.
Soggetto ecclesiale, questa “chiesa sorella” delle altre che compongono l’unità cattolica si interroga su se stessa, sulla sua vita quale comunità di credenti in Cristo, sulla sua collocazione nel mondo e su ciò che sta accadendo nella storia del pianeta terra.
Ecco perché il titolo del sinodo è “Amazzonia: nuovi cammini per la chiesa e per una ecologia integrale”. Questo sinodo, ormai è diventato evidente, vedrà la chiesa dell’Amazzonia come un soggetto paradigmatico che, in ascolto di ciò che lo Spirito santo ispira e chiede, getterà luce anche sulla vita e sul futuro delle altre chiese, soprattutto delle nostre chiese in occidente. Si rifletterà sull’Amazzonia, ma ciò che si dirà avrà una ricaduta universale e causerà quello scambio di doni che rende davvero multicolorata e universale la chiesa del Signore Gesù Cristo, la “fraternità” – come la chiama l’apostolo Pietro (1Pt 2,17; 5,9) – presente tra le genti della terra.
Dopo due anni di preparazione, processo che ha coinvolto concretamente le comunità cristiane dell’Amazzonia (vescovi, presbiteri, missionari, fedeli uomini e donne), si è giunti a redigere l’Instrumentum laboris pubblicato il 17 giugno scorso. È un documento che sorprende, perché traccia con audacia nuovi cammini per l’evangelizzazione e la vita ecclesiale e con passione profetica chiama i cristiani e gli uomini tutti a diventare consapevoli del loro atteggiamento nei confronti del potere politico, economico e tecnocratico, e di conseguenza nei confronti del futuro del pianeta, a partire dalla regione amazzonica. Comincio questa mia breve riflessione ricordando che il documento è composto di tre parti: la prima parte è un ascolto del grido dell’Amazzonia, che si autodefinisce e mostra la sua identità; la seconda è un ascolto del grido dei popoli indigeni, dei poveri sofferenti nelle periferie o nei movimenti migratori; la terza raccoglie le sfide e le speranze della chiesa presente in quelle terre.
Nell’insieme del documento sono presenti riflessioni che meriterebbero di essere commentate per esteso, ma mi soffermo soltanto sulla terza parte, quella che traccia il cammino profetico della comunità cristiana. Non senza però aver prima messo in risalto un’affermazione metodologica che illumina il cammino di conversione ecclesiale: “Il processo di conversione a cui è chiamata la chiesa implica disimparare, imparare e reimparare. Questo cammino richiede uno sguardo critico e autocritico che ci permetta di identificare ciò che dobbiamo disimparare, ciò che danneggia la casa comune e i suoi popoli” (n. 102).
La conversione contiene questa dinamica del tralasciare, del dimenticare atteggiamenti e consuetudini nella misura in cui sono in contrasto con il Vangelo: è ciò che il linguaggio classico definiva deformata riformare. Si tratta dell’incessante impegno della chiesa, la quale deve sempre fare un esame di coscienza e convertirsi, cambiare, rinnovare anche ciò che pareva assodato ma che il discernimento spirituale operato qui e ora giudica in contraddizione con il Vangelo. Certo, la chiesa confessa le sue colpe e vuole “lascia[re] alle spalle una tradizione coloniale monoculturale, clericale e impositiva [per] discernere e assumere senza timori le diverse espressioni culturali dei popoli … L’universalità o cattolicità della chiesa, quindi, è arricchita dalla bellezza di questo volto pluriforme dovuto alle diverse manifestazioni delle chiese particolari e delle loro culture, formando una chiesa poliedrica” (n. 110).
Con questa premessa comprendiamo il proposito di una chiesa accogliente e missionaria che sappia incarnarsi nelle diverse culture. È un’operazione faticosa che, soprattutto nel secondo millennio, è parsa quasi impossibile, impraticabile, impedendo di fatto all’evangelizzazione la sua fecondità e imponendo con poco rispetto delle altre culture un vangelo nella forma monoculturale occidentale e cattolica-romana. Quante difficoltà, anche durante la recente riforma liturgica postconciliare, di fronte alle richieste e ai desideri soprattutto delle genti dell’Africa che diventavano cattoliche…
L’Instrumentum laboris presenta dunque proposte coraggiose, avanzate con audacia, passione e convinzione: “La diversità culturale non minaccia l’unità della chiesa, ma esprime la sua autentica cattolicità mostrando la bellezza di questo volto pluriforme” (n. 124). Solo così la chiesa di una regione, di una cultura, diventa soggetto, diventa pienamente chiesa. Il mutamento del paradigma missionario è radicale. Si tratta infatti di andare tra le genti annunciando il Vangelo eterno, ma con l’atteggiamento di chi annuncia: “C’è tra di voi uno che non conoscete” (Gv 1,26), con l’attenzione ai segni dei luoghi e dei tempi, con la positiva ricerca dei “semi del Verbo” presenti nelle culture e nelle tradizioni di coloro ai quali si indirizza il Vangelo. Nessuna imposizione esterna, nessuna pretesa di portare la cultura, nessun atteggiamento di possesso della verità, ma un vero ascolto dell’altro, nella convinzione che le genti non sono sprovviste di doni fatti loro dal Signore nel corso dei secoli: doni di fede, di speranza e di carità, vissuti in obbedienza alla loro coscienza ma anche alle loro tradizioni spirituali e religiose, che abbisognano certo di un discernimento ma che non possono essere semplicemente sottovalutate, dimenticate o addirittura rinnegate.
Ecco dunque aperto il cantiere della teologia, della spiritualità e, non ultimo, quello della liturgia. La chiesa dovrebbe fare maggiormente memoria di come nel primo millennio è riuscita a esprimersi nelle diverse culture dell’area mediorientale: con teologie e liturgie diverse, perché diverse erano le culture e le lingue che le esprimevano, come testimoniano i diversi riti orientali. Non si abbia quindi paura: nessuno spontaneismo, ma neanche nessuna paura di percorrere nuove strade, di “trovare i nuovi segni, i nuovi simboli, una nuova carne per la trasmissione della Parola” (n. 124) e per la celebrazione del Vangelo nelle liturgie cristiane. Come già in Evangelii gaudium, si ribadisce infatti che “senza questa inculturazione la liturgia può ridursi a un ‘pezzo da museo’ o a ‘un possesso di pochi’” (ibid.).
E qui mi si permetta una confessione. Quante volte, partecipando in Africa o in Asia alla liturgia eucaristica celebrata dai missionari là presenti, mi sono chiesto perché quelle assemblee dovevano vivere una liturgia addirittura in latino e, dopo la riforma, comunque all’insegna dell’“ingessata” ritualità romana… Non basta l’uso delle lingue locali (soprattutto in alcuni canti), ma occorre che la preghiera eucaristica stessa sia espressione della cultura autoctona, fermo restando il suo significato di irrinunciabile memoriale pasquale. Creatività non a basso prezzo, non superficiale, ma pur necessaria per esprimere nella sua integrità l’eucaristia che la chiesa ha ricevuto e trasmesso nei secoli (cf. 1Cor 11,23-26).
E affinché i fedeli possano vivere una vita sacramentale piena e una liturgia che non si riduca soltanto a “Parola predicata”, ecco allora l’auspicio: “Invece di lasciare le comunità senza l’eucaristia, si cambino i criteri di scelta e preparazione dei ministri autorizzati a celebrarla” (n. 126). E ancora: “È necessario passare da una ‘chiesa che visita’” – cioè da una chiesa che è impegnata con i suoi attuali ministri a fare visita alle comunità perché non manchino i sacramenti – “a una ‘chiesa che rimane’, accompagna ed è presente attraverso ministri che emergono dai suoi stessi abitanti” (n. 129). E se il celibato è un dono grande che la chiesa nella sua disciplina latina chiede ai presbiteri, come nelle altre chiese (anche cattoliche, si pensi alle chiese orientali), quando vi siano le condizioni, si possono anche ordinare uomini che vivono il sacramento del matrimonio (cf. ibid.). Accanto a questa apertura dettata dal principio della salus animarum, la chiesa sia audace e nella libertà dello Spirito santo, come la chiesa nascente ha saputo creare il ministero dei sette senza riferimento alle istituzioni giudaiche (cf. At 6,1-7), così conferisca un ministero da affidare alle donne, che già ora rivestono un ruolo centrale nella vita delle comunità cristiane, non solo amazzoniche (cf. n. 129).
Questo documento è veramente capace di indicazioni profetiche per la vita della chiesa, e il sinodo non sarà una celebrazione senza ricadute per la vita delle altre chiese. Non resta dunque che pregare affinché vi sia ascolto di ciò che lo Spirito dice alle chiese.