Dalla paura al timore: l’esperienza dell’Esodo
Attraverso la narrazione di alcuni episodi biblici, il biblista Jean Louis Ska prende in esame la paura dei potenti e la paura del popolo. La prima nasce dalla “perdita della memoria” e “dall’ignoranza” e conduce alla violenza sui deboli, la seconda può essere superata dal “timore di Dio”, che sconfigge l’umana paura. (Esodo 2/2019)
Voi infatti non avete ricevuto uno spirito di schiavitù per cadere nuovamente nella paura, ma avete ricevuto lo Spirito di adozione per il quale gridiamo: “Abba, Padre” (Rm 8,15)1
Paolo di Tarso, in questo passo della Lettera ai Romani, riassume l’essenziale di quanto dicono le Scritture sulla paura. Lo schiavo vive nella paura e, potremmo aggiungere, è schiavo finché vive nella paura. Il figlio, invece, anche il figlio adottivo, non ha paura. Vive nella serenità perché non ha nulla da temere: si trova a casa sempre e ovunque. La domanda è, ovviamente, come liberarsi dallo spirito da schiavi per ricevere lo spirito da figli adottivi. Ora, un libro dell’Antico Testamento descrive con precisione il passaggio dalla servitù alla libertà e alla figliolanza. Si tratta del libro dell’Esodo. Lo stesso libro illustra, inoltre, il legame stretto che lega paura, tirannia e schiavitù.
1. Un faraone impaurito e smemorato
In effetti, il libro dell’Esodo inizia quando il popolo d’Israele diventa molto numeroso in Egitto e il faraone, “che non conosceva Giuseppe” (Es 1,8), decide, per paura, di ridurlo in schiavitù. Notiamo le tre tappe del racconto.
Primo, la causa delle misure prese dal faraone è l’ignoranza. Lui non sa niente di Giuseppe, vale a dire di quanto abbia fatto per salvare l’Egitto dalla carestia (cf. Gn 41). Il faraone di Esodo 1 non ha memoria della storia. Vive solo nel presente, di fronte a un popolo straniero che prolifica. Non sa da dove questo popolo viene e in quali circostanze è arrivato in Egitto. La memoria del passato è, però, essenziale, e la “perdita di memoria” avrà gravi conseguenze. In poche parole, quando la memoria è cancellata, lo straniero diventa un potenziale nemico.
Secondo, il faraone vede nel popolo sempre più numeroso - e un popolo oramai sconosciuto - una minaccia: “Egli disse al suo popolo: Ecco, il popolo dei figli d’Israele è più numeroso e più forte di noi. Orsù, usiamo astuzia nei loro confronti, perché non si moltiplichino e, in caso di guerra, non abbiano a unirsi ai nostri nemici e combattere contro di noi, e poi andarsene dal paese” (Es 1,9-10).
Notiamo subito il linguaggio quantitativo del faraone. Parla solo di numeri, e vede il rapporto come un rapporto di forza. La minaccia, quindi, sta soltanto nel rapporto numerico. Il faraone, inoltre, immagina la minaccia.
Non si parla di un complotto da parte d’Israele, o di qualche informazione trapelata e trasmessa dai servizi segreti. Il faraone parla di possibile guerra perché niente e nessuno ha parlato di arsenali nascosti, di produzione di armi, o di piani strategici segreti tramati dagli Ebrei. Tutto sta nell’immaginario del faraone, che interpreta in questo modo l’unico dato di fatto, l’elevato tasso di natalità fra gli Ebrei.
Terzo, per proteggersi dal pericolo (immaginario), il faraone adotta una tattica ormai ben nota nel nostro mondo: il dispotismo. Ignorante e impaurito, il faraone diventa un despota, che impone la servitù agli Ebrei. Invece di provare a superare la sua ignoranza, il faraone priva il popolo della sua libertà.
Il racconto biblico è, nello stesso tempo, ironico e spietato nella sua concisione. In effetti, le misure del faraone si rivelano inefficaci. Il popolo ebreo fabbrica mattoni e continua a generare figli. In modo laconico, il racconto constata: “Ma più li opprimevano, più essi moltiplicavano e si estendevano; per questo gli Egiziani furono presi di spavento di fronte ai figli d’Israele” (Es 1,12). Il verbo usato dal testo originale significa “essere disgustato”, “provare avversione, ribrezzo”, “essere spaventato”, “essere inorridito”. In ogni modo, il sentimento è fortemente negativo e le relazioni fra Egiziani ed Ebrei non migliorano.
Il racconto biblico è rivelatorio addirittura nei suoi silenzi. Esso parla solo dei provvedimenti del faraone, però non dice niente della reazione degli Ebrei, il che crea un sentimento ben particolare nei lettori. Il silenzio del narratore sullo stato d’animo del popolo oppresso invita di sicuro i lettori all’empatia nei confronti degli schiavi. Siamo noi a immaginare la loro sofferenza o insofferenza, la loro vita fatta di lavoro quotidiano penoso, inumano, e senza speranza di cambiamento. Sapremo qualche cosa dello stato d’animo degli Ebrei solo alla fine del secondo capitolo, quando il gemito degli schiavi giunge alle orecchie di Dio (Es 2,23-25). Siamo pertanto invitati a sentire un grido diventato preghiera e ascoltato da Dio. Quest’ultimo, in effetti, non è come il faraone. Dio, quando sente il lamento degli Israeliti, si ricorda dell’alleanza conclusa con i patriarchi, Abramo, Isacco e Giacobbe (2,24). Il narratore ci informa della cosa perché sarà il motivo profondo dell’azione divina. La liberazione d’Israele è già decisa. Liberazione dall’oppressione e dalla paura degli oppressori.
2. Le due levatrici e il loro “timore”
A questo punto, vorrei introdurre una breve digressione su un episodio meno conosciuto, però molto significativo per il nostro tema. Ho in mente l’episodio delle levatrici, di cui, non a caso, la Bibbia ricorda anche i nomi, Sifra e Pua (Es 1,15-22).
In questo breve brano, il faraone prende una decisione alquanto sorprendente. Lasciamo da parte alcuni problemi di interpretazione per concentrarci sull’essenziale: il sovrano egiziano chiama le levatrici ebree e chiede loro di uccidere alla nascita tutti i neonati ebrei maschi. Che cosa fanno le levatrici? Obbediscono agli ordini del sovrano più potente della terra? In nessun modo. Come dice il racconto, nel suo solito stile stringato, “le levatrici temettero Dio” e non uccisero i neonati. La frase significa due cose essenziali.
Primo, siamo sorpresi perché le levatrici potevano temere di disubbidire a causa della paura per la loro sorte. Hanno timore, però, non del faraone, hanno timore di Dio. Ricordiamo che, in ebraico, lo stesso verbo significa “temere”, “paventare”, “avere paura”, “rispettare”2. Esiste, quindi, secondo questo brano, un timore più forte del timore del faraone e delle sue sanzioni.
Il faraone, se non esita a ordinare la morte dei neonati, non deve neanche esitare a ordinare la morte di chi gli disubbidisce. Per le levatrici, però, il timore di Dio è più forte del timore davanti al faraone.
Secondo, le levatrici asseriscono, nel loro modo di agire, che il potere del faraone è limitato. Non ha il diritto sulla vita e la morte dei neonati. Sembra una cosa anodina, però ha la sua importanza.
Il racconto oppone due tipi di paura o di timore. Da una parte, abbiamo la paura poco razionale del faraone che determina una serie di provvedimenti dittatoriali e crudeli. Dall’altra, troviamo il “timore di Dio” delle levatrici che rifiutano di compiere ordini barbari in nome di principi non specificati. Possiamo solo indovinare che le levatrici hanno un rispetto quasi istintivo per la vita dei neonati. Un rispetto per il diritto alla vita che nessuno può negare, neanche il faraone. Oggi, parleremmo dei diritti umani. Prima, si parlava più facilmente della coscienza. In antichità, si parlava della “legge non scritta degli dèi” come Antigone (Sofocle, Antigone, vv. 650-660). Nella Bibbia, si parla del “timore di Dio” che corrisponde, nell’occorrenza, con il rispetto del diritto alla vita dei neonati, un diritto che, secondo le levatrici, nemmeno un faraone può contestare e, soprattutto, pregiudicare.
Come reagisce il faraone? Si accorge ben presto di essere stato ingannato. Convoca le due donne, le interroga sul motivo della non esecuzione dei suoi ordini e riceve una risposta ironica: le donne ebree sono troppo rapide, le levatrici arrivano sempre troppo tardi. L’ironia, mi sembra, si nasconde anche in un fatto culturale: quando una donna partorisce, tutti gli uomini devono lasciare la casa. Solo le donne assistono al parto. Il faraone, quindi, non può in alcun modo verificare quanto dicono le levatrici. E, nello stesso tempo, deve riconoscere che il suo potere ha limiti stretti poiché non può entrare in un luogo ove una donna partorisce.
Concludo dicendo che il primo capitolo del libro dell’Esodo descrive due tipi di “paure” o “timori”. Da una parte, il faraone immagina un pericolo in realtà non-esistente e, dall’altra, le levatrici dimostrano, nel loro comportamento, che esiste un “timore” diverso che protegge la vita di chi è debole e indifeso. Il timore, quindi, può avere una valenza negativa e generare la brutalità della tirannia oppure avere una valenza positiva e far rispettare i valori fondamentali dell’esistenza umana.
3. Dalla paura al timore
Un terzo brano di grande interesse per il nostro argomento è Es 14,1-31, un testo che descrive “il passaggio del mare”. Nei capoversi seguenti, mi limito all’essenziale e non entro nelle problematiche del racconto, soprattutto nella combinazione di diverse versioni del “miracolo del mare”.
Dopo la decima piaga, la morte dei primogeniti (Es 12,29-42), il faraone si decide finalmente a lasciar partire Israele. Tre giorni dopo, però, egli cambia idea perché si ritrova senza manodopera. Prepara il suo esercito e si lancia all’inseguimento del popolo d’Israele. Lo raggiunge mentre quest’ultimo si prepara ad accampare davanti al mare.
Nella parte seguente, vorrei rilevare alcuni dettagli più significativi del nostro racconto. Notiamo soprattutto un triplice uso del verbo “temere” che, come sappiamo, ha una gamma di significati che va dallo spavento fino alla deferenza, la riverenza (Es 14,10.14.31). Incontriamo il primo uso nel momento in cui gli Egiziani raggiungono gli Israeliti, che si sono fermati per bivaccare davanti al mare: “Gli Israeliti alzarono gli occhi ed ecco, gli Egiziani stavano marciando dietro loro, ed ebbero una gran paura; e gli Israeliti gridarono verso il Signore” (14,10).
Il racconto, tuttavia, ha preparato questo momento in modo sottile. Gli Israeliti, come sappiamo, camminano da tre giorni nel deserto dopo essere stati liberati. Il narratore segue prima gli Israeliti, felici della libertà conquistata, poi ci trasporta nel palazzo del faraone, ove si delibera sulla situazione
creata dall’assenza di operai nei cantieri. Assistiamo, come lettori, al dibattito, e prendiamo atto della decisione di andare a riprendere gli schiavi liberati. Assistiamo in seguito - impotenti, diremmo - alla preparazione del formidabile esercito del faraone, il più formidabile esercito del tempo, con i carri, i cocchieri e i cavalli (Es 14,5-7). Cresce la tensione, cresce il timore - da parte dei lettori - per la sorte degli Israeliti, inconsapevoli di quanto si prepara. Inizia l’inseguimento, vediamo i carri volare di gran carriera nel deserto, poi, in uno spot rapido, il narratore ci mostra gli Israeliti, sempre all’oscuro di quanto accade, che si godono - per quanto tempo ancora, si chiede il lettore - una libertà “nuova di zecca” (14,8-9). Chi vede il pericolo e chi sente la tensione crescere? Non gli Israeliti inermi, certo, bensì i lettori.
L’ultimo atto dell’inseguimento è scontato: gli Egiziani raggiungono gli Israeliti mentre quest’ultimi si sono fermati davanti al mare e preparano l’accampamento per la notte (Es 14,9-10).
Anche in questo caso, i lettori si accorgono subito della situazione disperata degli Israeliti. Sono intrappolati fra il mare, da un lato, e gli Egiziani dall’altro. Finalmente, gli Israeliti notano la presenza degli Egiziani giunti con tutto il loro formidabile esercito. E sale il grido di paura che, una volta di più, i lettori avevano anticipato da parecchio. Il racconto è sobrio, come sogliono essere i racconti biblici. Possiamo facilmente immaginare lo scompiglio nell’accampamento degli Israeliti: paura, panico, terrore... e grida di ogni sorta. Il testo biblico, tuttavia, ricorda solo una cosa, vale a dire il grido d’Israele verso il suo Dio, il Signore: “I figli d’Israele alzarono gli occhi ed ecco, gli Egiziani stavano marciando dietro a loro! Ed ebbero gran paura e i figli d’Israele gridarono verso il SIGNORE” (Es 14,10).
Uno solo sembra non perdere la calma nella confusione generale, ed è Mosè. Si rivolge agli Israeliti con parole più che sorprendenti, vista la situazione: “Non temete. State pronti e vedrete la salvezza che il SIGNORE compirà oggi per voi; infatti gli Egiziani che vedete quest’oggi, non li rivedrete mai
più. Il SIGNORE combatterà per voi e voi ve ne rimarrete a bocca aperta” (Es 14,13-14). Per quale misterioso motivo Mosè può parlare in questo modo? Da dove gli viene tale sicurezza? Gli viene dalla sua fede in Dio, potremmo dire. Però, che cosa può significare concretamente? Ha attirato intenzionalmente gli Egiziani in questa zona? O ha intuito all’istante un modo di cavarsela da una situazione più che problematica? Non lo sapremo mai.
Il racconto ci dice una sola cosa: Mosè è fiducioso e cerca di incutere la sua fiducia al popolo. È come se l’esercito del faraone esistesse solo a causa della paura degli Israeliti e dovesse sparire nel momento in cui sparisce la paura. In ogni modo, Mosè annunzia la scomparsa definitiva del temibile esercito egiziano.
Conosciamo l’andamento delle cose. La narrazione, con ogni probabilità, combina due versioni del miracolo del mare. Nel racconto più conosciuto, Dio dà ordini a Mosè che li esegue puntualmente. Vediamo da una parte il popolo entrare nelle acque, inseguiti dagli Egiziani. Israele attraversa il mare fra due muraglie d’acqua, raggiunge l’altra sponda, poi Mosè, su ordine divino, stende la mano una seconda volta sul mare cosicché le acque ricoprono gli Egiziani che stavano inseguendo gli Israeliti in
mezzo al mare.
D’altra parte, sentiamo un forte vento soffiare tutta la notte e respingere le acque del mare, vediamo anche l’esercito egiziano fermato dalla notte e da una fitta nube e - probabilmente - su un terreno acquitrinoso, poco appropriato per un esercito di cavalli e di pesanti carri. In seguito, il vento smette di soffiare verso la fine della notte, il mare torna al suo posto, il panico s’impadronisce degli Egiziani, che tentano di fuggire nel buio della notte, però i carri rimangono incagliati nel terreno bagnato e tutti sono travolti dal mare.
Checchessia la natura del miracolo, il risultato è lo stesso. Al mattino, gli Israeliti contemplano i cadaveri degli Egiziani, tutti annegati, sulla sponda del mare. Segue la conclusione, il momento più importante, in cui incontriamo il terzo uso del verbo “temere”: “Israele vide la grande potenza con cui
il SIGNORE aveva agito contro gli Egiziani. Il popolo perciò ebbe timore del SIGNORE, credette nel SIGNORE e nel suo servo Mosè” (Es 14,31).
Israele è passato dalla paura davanti al faraone al timore di Dio, dalla servitù alla libertà e al servizio del suo Signore, dal panico alla fede, dall’Egitto al deserto, e dal gemito sotto le fruste dei suoi aguzzini al cantico di vittoria sulla sponda del mare (Es 15,1-21). Attraversando il mare, di notte, vale a dire il mondo della morte, il popolo ha anche superato la sua paura di morire. Ha accettato il rischio di inoltrarsi nel mondo ostile delle acque e del buio della notte. Quando sparisce la paura, sparisce anche la servitù. È proprio ciò che dice Paolo nel testo citato all’inizio della nostra riflessione.
Chi ha superato la paura, però? Gli Israeliti, certamente. Aggiungerei che i lettori sono invitati a percorrere la stessa strada. Essi avvertono il pericolo prima degli Israeliti, sono sorpresi dalla reazione di Mosè e assistono al “miracolo” che conferma quanto l’uomo di Dio aveva promesso. I lettori sono quindi anch’essi invitati a rivivere la paura e il superamento della paura che sfocia nel timore di un Dio che comanda al vento e al mare per liberare il suo popolo dalla servitù.
Jean Louis Ska
Note
1) Le traduzioni dei testi biblici sono riprese dalla Sacra Bibbia Nuova Riveduta (1994), con qualche leggera modifica per rendere il testo più chiaro.
2) Inoltre, il testo gioca sulla somiglianza, in ebraico, fra i verbi “vedere“ e “temere“. Invece di “vedere" se è un maschio o una femmina, le levatrici“ temono Dio“.