Sorelle di Bose "Una tenue luce che vince il male"
Nel vangelo secondo Marco questo episodio di guarigione di un fanciullo indemoniato o, come si pensa, affetto da epilessia, è incastonato fra due annunci della passione di Gesù: infatti alle parole sul ritorno di Elia che precedono questo testo Marco ne aggiunge alcune sulla passione del Figlio dell’uomo (cfr. 9, 12), che fanno da cornice con quelle che seguono nel secondo annuncio della passione (cfr. 9, 30-32).
Il presente testo, dunque, richiede di essere letto alla luce del mistero pasquale, alla luce di quella passione, di quella discesa nelle tenebre della sofferenza e della morte a cui Gesù andrà incontro, ma che non avrà su di lui l’ultima parola, come ha prefigurato e annunciato l’episodio, appena precedente al nostro testo, della trasfigurazione di Gesù a opera del Padre. Trasfigurazione che è annuncio e primizia della vita nuova del risorto (cfr. 9, 9-10) e, con lui, di ogni creatura.
In questo tempo di grazia che è la quaresima, la luce della risurrezione guida e orienta il cammino dei credenti, gli conferisce senso e criterio di discernimento, fonda la speranza dei cristiani, li sostiene e incoraggia nella lotta contro il male.
Questa pagina del vangelo, infatti, ci annuncia che non esiste devastazione esistenziale in cui la luce della risurrezione non sia già presente e operante. Magari come un tenue barlume in fondo all’abisso di una tenebra, ma tenue barlume che possiede in sé la forza, la “potenza” o “possibilità” — è il linguaggio connesso alla radice di dýnamis, “potenza”, che ricorre nei versetti 22-23 — che gli viene dalla vita nuova ormai presente e operante in Gesù crocifisso e risorto. Per questo Gesù dice che «questa specie di demoni non può uscire con niente altro se non con la preghiera» (versetto 29): perché la preghiera si pone come apertura e accoglienza di una vita e di una forza vitale che l’uomo non può darsi da solo, ma che può solo ricevere da Dio.
Vi sono forze del male, come quella che si impossessa di questo fanciullo, che devastano la vita degli uomini, perché più forti della capacità della ragione di dominarle e della volontà umana di contenerle. L’uomo sperimenta talvolta di essere come posseduto, abitato, trascinato, spinto da forze negative di cui si sente preda, di cui non conosce l’origine e che lo inducono a fare il male, a distruggere vite, compresa la sua. L’uomo fa l’esperienza che ci sono in lui forze più forti di lui a cui sente di non essere in grado di resistere. Il Vangelo non nega questo, e non ci dice neanche perché ciò avvenga. Ci porta soltanto la buona notizia che di fronte a colui che si presenta come forte, di una forza anche devastante nella vita degli umani, il Signore Gesù si pone come colui che è più forte, capace di imprigionare e di togliere la preda a chi dell’uomo si è impossessato (cfr. Marco 3, 27).
Per questo Marco dice che «Gesù, presa la sua mano, lo fece alzare ed egli si levò»: Gesù afferra, prende (verbo kratèo) la sua mano, con atto che indica la sua presa di possesso, la sua definitiva vittoria sul male e il suo potere sulla morte. E poi ci sono due verbi che nei vangeli indicano la risurrezione: «Lo fece alzare» (verbo eghèiro, cfr. Marco 16, 6), e il fanciullo «si levò» (verbo anístemi, cfr. Marco 16, 9).
Nessun trionfalismo, però, da parte dei cristiani, sia perché nella storia la morte e il male sono ancora operanti, sia perché, ci dice Marco, i discepoli stessi di fronte a questo lieto annuncio restano increduli (cfr. versetto 19) e inadeguati (cfr. versetti 28-29), così come lo saranno di fronte all’annuncio della risurrezione di Gesù (cfr. Marco 16, 8). E tuttavia, consapevoli della propria incredulità, essi sono chiamati a domandare quella fede che è apertura all’azione del Dio a cui «nessuna parola è impossibile» (Luca 1, 37), e che perciò rende «tutto possibile a chi crede» (Marco 9, 23). E ad annunciare così a ogni creatura la buona notizia della risurrezione (cfr. Marco 16, 15).
Il presente testo, dunque, richiede di essere letto alla luce del mistero pasquale, alla luce di quella passione, di quella discesa nelle tenebre della sofferenza e della morte a cui Gesù andrà incontro, ma che non avrà su di lui l’ultima parola, come ha prefigurato e annunciato l’episodio, appena precedente al nostro testo, della trasfigurazione di Gesù a opera del Padre. Trasfigurazione che è annuncio e primizia della vita nuova del risorto (cfr. 9, 9-10) e, con lui, di ogni creatura.
In questo tempo di grazia che è la quaresima, la luce della risurrezione guida e orienta il cammino dei credenti, gli conferisce senso e criterio di discernimento, fonda la speranza dei cristiani, li sostiene e incoraggia nella lotta contro il male.
Questa pagina del vangelo, infatti, ci annuncia che non esiste devastazione esistenziale in cui la luce della risurrezione non sia già presente e operante. Magari come un tenue barlume in fondo all’abisso di una tenebra, ma tenue barlume che possiede in sé la forza, la “potenza” o “possibilità” — è il linguaggio connesso alla radice di dýnamis, “potenza”, che ricorre nei versetti 22-23 — che gli viene dalla vita nuova ormai presente e operante in Gesù crocifisso e risorto. Per questo Gesù dice che «questa specie di demoni non può uscire con niente altro se non con la preghiera» (versetto 29): perché la preghiera si pone come apertura e accoglienza di una vita e di una forza vitale che l’uomo non può darsi da solo, ma che può solo ricevere da Dio.
Vi sono forze del male, come quella che si impossessa di questo fanciullo, che devastano la vita degli uomini, perché più forti della capacità della ragione di dominarle e della volontà umana di contenerle. L’uomo sperimenta talvolta di essere come posseduto, abitato, trascinato, spinto da forze negative di cui si sente preda, di cui non conosce l’origine e che lo inducono a fare il male, a distruggere vite, compresa la sua. L’uomo fa l’esperienza che ci sono in lui forze più forti di lui a cui sente di non essere in grado di resistere. Il Vangelo non nega questo, e non ci dice neanche perché ciò avvenga. Ci porta soltanto la buona notizia che di fronte a colui che si presenta come forte, di una forza anche devastante nella vita degli umani, il Signore Gesù si pone come colui che è più forte, capace di imprigionare e di togliere la preda a chi dell’uomo si è impossessato (cfr. Marco 3, 27).
Per questo Marco dice che «Gesù, presa la sua mano, lo fece alzare ed egli si levò»: Gesù afferra, prende (verbo kratèo) la sua mano, con atto che indica la sua presa di possesso, la sua definitiva vittoria sul male e il suo potere sulla morte. E poi ci sono due verbi che nei vangeli indicano la risurrezione: «Lo fece alzare» (verbo eghèiro, cfr. Marco 16, 6), e il fanciullo «si levò» (verbo anístemi, cfr. Marco 16, 9).
Nessun trionfalismo, però, da parte dei cristiani, sia perché nella storia la morte e il male sono ancora operanti, sia perché, ci dice Marco, i discepoli stessi di fronte a questo lieto annuncio restano increduli (cfr. versetto 19) e inadeguati (cfr. versetti 28-29), così come lo saranno di fronte all’annuncio della risurrezione di Gesù (cfr. Marco 16, 8). E tuttavia, consapevoli della propria incredulità, essi sono chiamati a domandare quella fede che è apertura all’azione del Dio a cui «nessuna parola è impossibile» (Luca 1, 37), e che perciò rende «tutto possibile a chi crede» (Marco 9, 23). E ad annunciare così a ogni creatura la buona notizia della risurrezione (cfr. Marco 16, 15).
a cura delle sorelle di Bose