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Piero Stefani "Gesù eretico"

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n°226 luglio/agosto 2018
Eresia/Eresie

Piero Stefani "Gesù eretico"

1. Più silenzi che parole

Gesù eretico, per chi? La risposta a questa domanda ha due presupposti: uno generale, l’altro specifico. Il primo sta nell’evidenziare il carattere, per definizione relativo, dell’idea di «eresia».
Essa è applicata sempre dall’esterno ad altri. All’inizio della sua celebre Lettera sulla tolleranza John Locke afferma che ognuno è ortodosso ai propri occhi[1]. La qualifica di «eretico» non è però mai applicata a estranei intesi in senso assoluto. Nei secoli della cristianità i pagani erano ritenuti idolatri e gli ebrei «perfidi» (vale a dire, in senso proprio, privi di fede), mentre nessuno dei due era considerato eretico. Il secondo presupposto sta nel domandarsi se all’interno di una determinata comunità religiosa esista la categoria di «eresia» e, se sì, quale sia l’autorità che la applica. Per riferirla a Gesù occorrerebbe quindi collocarsi in un contesto in cui il figlio di Maria sia considerato «deviante», ma non «estraneo», da parte di autorità giudaiche. A questo riguardo dobbiamo tuttavia constatare tanto la mancanza sia di pronunciamenti ufficiali sia di semplici riferimenti ebraici a Gesù risalenti a un’epoca a lui coeva o di poco successiva[2]. In sostanza, non esiste alcun documento ebraico antico che dichiari Gesù eretico, anche nel caso in cui si prenda la parola in senso lato.
Nel secondo secolo è un autore cristiano, rivolgendosi all’ebreo Trifone (personaggio assai più letterario che reale), ad affermare che sono stati dei giudei a diffondere l’opinione secondo cui Gesù va considerato iniziatore di una eresia:

Li avete inviati per tutta la terra a proclamare che era sorta un’eresia empia e iniqua [alla lettera «atea e senza legge»] per l’errore di un certo Gesù, un galileo[3].

Sul fronte ebraico domina, invece, ancora il non detto. Nel giudaismo dei primi secoli dell’era volgare, rispetto a Gesù, le assenze sono più importanti delle presenze; in altri termini il silenzio sul Nazareno è più eloquente delle parole a lui dedicate. Alcuni studiosi hanno sostenuto la natura intenzionale di simili vuoti:

La reticenza delle fonti rabbiniche sia su Gesù sia sui suoi seguaci non sembra essere occasionale, ma piuttosto il frutto di una scelta strategica, se così si può dire, molto ben ponderata[4].

L’atteggiamento potrebbe senza dubbio equivalere all’esistenza di una radicale ripulsa; tuttavia esso non corrisponderebbe affatto alla logica dell’eresia la quale comporta, per definizione, un’aperta e pubblica formulazione della condanna a opera di qualche autorità.
Se ci si sposta in un periodo più tardo, vale a dire in età talmudica, troviamo qualche materiale in più. Nel complesso gli esigui riferimenti a Gesù, e soprattutto ai suoi discepoli, presenti nella letteratura rabbinica inducono a dar credito alla consapevolezza da parte ebraica di star rispondendo, in modo per lo più implicito, a documenti cristiani. In ogni caso va tenuto presente che, quando fu elaborato il Talmud babilonese (chiuso nella sua veste quasi definitiva solo alla fine del V secolo d.C.), ci si trovava ormai in un’epoca nella quale i due sistemi religiosi del giudaismo rabbinico e del cristianesimo erano già troppo distinti tra loro perché si facesse ricorso in modo pertinente alla categoria di «eresia».
Nella letteratura talmudica i passi che si riferiscono a Yešu ha-Nozrì, oltre a essere scarsi, sono sovente incentrati più sui discepoli che sul maestro. Ciò significa che non si era più nelle condizioni di distinguere tra Gesù e il movimento che da lui prese origine. Lo spirito che anima i passi talmudici dedicati a Gesù è ben riassunto dal nome impiegato per indicare «il figlio di Maria»: Yešu. Essi, quindi, non solo rifiutano di usare il termine classico di Yehošua‛ (Giosuè), ma prendono le distanze anche dalla sua comune contrazione Yešua‛. Il nome è, quindi, privato tanto della componente teofora allusiva al Tetragramma (Yhwh), quanto del riferimento alla dimensione salvifica (radice yš‛ «salvare»). Il testo più noto è il seguente:

Alla vigilia della Pasqua hanno appeso Yešu; un araldo per quaranta giorni andò gridando davanti a lui: «Egli viene condotto per essere lapidato perché ha praticato la magia e ha sedotto [nel senso che ha indotto all’idolatria] e ha fatto deviare Israele. Chiunque conosca qualcosa a sua discolpa venga e dia testimonianza per lui». Ma non si trovò per lui alcuna testimonianza a favore e lo si appese alla vigilia di Pasqua (Talmud babilonese, Sanhedrin 43).

In questa fonte Gesù rappresenta una specie di caso giudiziario anacronistico redatto in un’epoca in cui certamente agli ebrei non era consentito applicare alcuna legislazione relativa alla pena di morte. Si potrebbe sostenere che qui si cercò di creare una specie di precedente in uno spirito simile a una common law virtuale. In sostanza, la preoccupazione è di affermare che persino nel caso di Gesù, prima di giungere a comminare l’ormai inevitabile pena di morte, si applicarono le procedure prescritte da un diritto ebraico redatto in periodo largamente successivo ai fatti. Resta comunque la constatazione che proprio questa scelta conduce la componente ebraica ad assumersi la responsabilità per la morte di Gesù:

Quanto più sorprendente è che questo particolare [la vicinanza di Gesù al potere romano] esonera il governo romano dall’accusa di aver condannato a morte Gesù e di conseguenza, adottando il messaggio del vangelo, sposta l’accusa sugli ebrei[5].

La conclusione più significativa attorno a questo passo sta, dunque, nella rivendicazione «virtuale» della responsabilità ebraica per la morte di Gesù. Ciò costituisce un’ulteriore conferma che quanto davvero interessa ai rabbi è non già il «Gesù storico», bensì il ruolo, rispetto all’auto-comprensione giudaica, affidato ai brani che lo riguardano. Non bisogna, peraltro, trascurare il fatto che il passo costituisce solo un piccolo, solitario inciso nel gran mare del Talmud.

2. Discussioni legali

I passi talmudici in assoluto più istruttivi sono quelli relativi a opinioni fatte risalire a Gesù. Lo sono perché in essi si coglie l’eco di reali dibattiti svoltisi all’interno del mondo giudaico. Alcuni dei detti attribuiti a Gesù riportati nella letteratura rabbinica testimoniano una situazione ancora fluida. In effetti ciò è vero solo se ci si affida al nome dei maestri lì riportati; il discorso sarebbe invece diverso se si privilegiasse l’epoca della redazione, in quest’ultimo caso la datazione risulterebbe infatti molto più tardiva. Tuttavia, sia i contenuti sia i rabbi coinvolti inducono a ritenere, con buona approssimazione, che le discussioni forniscono alcune testimonianze di un periodo in cui i confini tra i seguaci di Gesù Cristo e gli altri ebrei fossero ancora in fase di definizione. In quel frangente, tra le varie componenti, ebbe luogo una dialettica vivace e a volte perfino aspra; essa presupponeva comunque che non si fosse ancora consumata una rottura definitiva. Uno dei passaggi più significativi è il seguente:

Rabbi Eliezer disse: una volta camminavo al mercato superiore di Sefforis e incontrai uno dei discepoli di Gesù il Nazareno, chiamato Giacobbe […]. Egli mi disse: «Nella vostra Torah è scritto: “Non porterai il denaro di una prostituta nella casa del Signore” (Dt 23,19). Com’è? Non si può con esso costruire un cesso per il sommo sacerdote?». Io non gli risposi. Egli mi disse: «Così ha insegnato Gesù il Nazareno: “Fu raccolto a prezzo di prostitute e in prezzo di prostitute tornerà” (Mi 1,7)[6]; da un luogo di sozzure è venuto e in un luogo di sozzura andrà». La parola mi piacque; perciò io fui arrestato per eresia (Talmud babilonese, ‘Avodah Zarah, 16b-17a).

L’autorevole Rabbi Eliezer (I-II secolo) fu per qualche tempo scomunicato dai suoi colleghi (forse a causa dei suoi orientamenti carismatici). Tenuto conto di ciò, la qualifica di «eretico» sarebbe in ogni caso applicabile a lui e non a Gesù o a Giacobbe. L’ambientazione e il modo di procedere del ragionamento riportati nell’episodio sono attendibili. Il detto di Gesù testimonia una grande libertà interpretativa che lo approssima ad alcune discussioni presenti nei Sinottici. Gesù, ricorrendo a passi biblici, sostiene che il denaro derivato dall’esercizio della prostituzione possa essere utilizzato nell’area più sacra dell’intera Gerusalemme. Per comprendere il caso, bisogna tener presente che al sommo sacerdote, in preparazione della grande festa di Yom Kippur, era proibito allontanarsi dal tempio per un’intera settimana; la presenza, in loco, di servizi igienici era, quindi, indispensabile.
La discussione richiama alcuni passi sinottici, in particolare quello in cui si afferma che nulla in se stesso è oggettivamente impuro: «Ma sono le cose che escono dall’uomo [cioè i propositi malvagi] a renderlo impuro» (Mc 7,15). Qui la categoria di impurità viene profondamente ridefinita. L’affermazione stando alla quale tutto ciò che entra nell’uomo dal di fuori non lo rende impuro viene giustificata dal vangelo con una frase difficile da rendere. Essa afferma che gli alimenti non entrano nel cuore ma nel ventre e di là vanno nella latrina «purificando (katharizōn) tutti i cibi» (Mc 7,19). A differenza di quanto avviene nelle traduzioni correnti («così rendeva puri tutti gli alimenti» CEI 2008), il participio greco non ha come soggetto Gesù. L’atto di rendere puri gli alimenti sembra perciò attribuito al processo di digestione che impedisce a essi di essere trattenuti nel corpo (cf. l’episodio di Rabbi Eliezer). Non è, comunque, difforme dalla Legge sostenere che l’uomo è reso impuro da ciò che esce dal suo cuore, vale a dire dalle sue intenzioni inique (Mc 7,20-22)[7]. L’impurità è creata dall’uomo; essa lo tiene lontano da Dio, è reale ma alberga nel cuore e non nelle cose. Vi è qualche altro esempio di affinità tra discussioni sinottiche e testimonianze tratte dalla letteratura rabbinica.
In un singolare brano talmudico ci si imbatte in un riferimento, piuttosto sorprendente, al detto matteano: «Non crediate che io sia venuto ad abolire la Legge e i Profeti, non sono venuto ad abolire ma a dare pieno compimento» (Mt 5,17). Va notato che una delle figure al centro del passo, Imma Šalom, è moglie di Rabbi Eliezer, il protagonista del brano precedente:

Imma Šalom, moglie di Rabbi Eliezer, era sorella di Rabbi Gamaliel. Nel loro quartiere viveva un filosofo che aveva la fama di essere incorruttibile. Si vollero burlare di lui, [Imma Šalom] gli portò una lampada d’oro. [Rabbi Gamaliel e Imma Šalom] vennero da lui. Ella gli disse: «Voglio che mi dia parte dei beni di famiglia». Rispose: «Divideteli». [R. Gamaliel] gli disse: «Sta scritto: se c’è un figlio, la figlia non eredita nulla [cf. Nm 29,8-11». «Dopo che siete stati esiliati dalla vostra terra, la legge di Mosè è stata ritirata[8], ora è scritto in questa legge il figlio e la figlia erediteranno in parti uguali». L’indomani [Rabbi Gamaliel] gli portò un asino della Libia. [Il filosofo] disse loro: «Ho consultato la conclusione del vangelo, e vi sta scritto: non sono venuto per togliere alla legge di Mosè né per aggiungere alla legge di Mosè, e sta scritto [in questa legge]: se c’è un figlio, la figlia non eredita nulla». [Imma Šalom] gli disse: «La tua luce risplenda come la lampada!». Rabbi Gamaliel gli disse: «L’asino è arrivato e ha dato un calcio alla lampada» (Talmud babilonese, Shabbat 116a-b).

Con ogni evidenza quello qui proposto è un discorso ironico che, però, mostra di conoscere altri passi del «discorso della montagna» oltre a quello relativo alla non abolizione della Torah (si pensi, per esempio, all’allusione alla lampada e alla luce, Mt 5,14-15). Oltre alla più immediata questione relativa all’incoerenza del filosofo (chiaramente un giudeocristiano) il quale, pur avendo fama di incorruttibile, si lascia corrompere dal ventilato dono di un asino (di valore molto superiore a quello di una lampada), il testo sembra lasciar trapelare qualcos’altro. L’aleatorietà delle conclusioni tratte dal filosofo diviene una spia dell’irrisolta ambiguità connessa all’atteggiamento cristiano nei confronti della Legge, la quale viene a un tempo abolita e conservata in un equilibrio che, osservato dall’esterno, appare, per forza di cose, precario se non incoerente[9].
In realtà, in relazione a Gesù, all’interno del Talmud si trova qualche passo che sembra parlare un linguaggio meno polemico. Yešu si era indubbiamente posto su una strada non buona, tuttavia la sua devianza sarebbe stata recuperabile; la critica perciò è rivolta anche nei confronti di chi lo ha scacciato non dandogli la possibilità di essere reintegrato all’interno della comunità:

I rabbi hanno insegnato: «La (mano) sinistra respinga sempre e la mano destra avvicini; e non come fece Eliseo che respinse Ghezi con entrambe le mani (2Re 5,19ss.) e non come Rabbi Yešua‛ ben Perachya che ha respinto Yešu con entrambe le mani» (Talmud babilonese, Sanhedrin 107 b; Sotah 47a).

Secondo un documento dedicato alla visione ebraica del cristianesimo, elaborato alla fine degli anni Sessanta del secolo scorso da una commissione nominata dal gran rabbino di Francia, il passo avvalorerebbe l’ipotesi stando alla quale «si poteva evitare di rigettare il cristianesimo. Si coglie un certo rammarico nel famoso aneddoto del Talmud babilonese»[10]. La considerazione sembra però troppo largheggiante. Dall’insieme del passo, infatti, si deve piuttosto concludere che per il mondo rabbinico l’immagine di Gesù era quella di un discepolo che si era sviato e aveva fatto uscire dalla retta via anche altri. Su Gesù viene, quindi, proiettata la visione che si aveva del cristianesimo, una religione proveniente dal giudaismo destinata a diventare avversaria e ostile[11]. In questa luce appare simbolico che il maestro rimproverato si chiami Yešua‛ e il discepolo respinto Yešu (dal punto di vista storico l’identificazione non è dotata di alcuna plausibilità, Yešua‛ ben Perachya è, infatti, un maestro vissuto tra II e I secolo a.C.).

3. La «benedizione per gli eretici»

Le storie denigratorie e popolari su Gesù note come Toledot Yešu risalgono ormai al periodo medievale. La loro diffusione fu assai vasta, tutte le varie versioni sono però dominate dalla completa identificazione di Gesù con il cristianesimo visto come una realtà esterna e ostile[12]. È evidente che qui si esce dai parametri dell’eresia intesa come devianza attribuita a chi è ancora in qualche modo considerato interno. Ben diverso il discorso per la questione assai più antica connessa alla Birkat ha-minim[13], testo di cui è obbligo parlare anche se esso non concerne in modo diretto la persona di Gesù. Per tre volte nel vangelo di Giovanni (e solo in esso) torna il termine aposynagogòs, impiegato per indicare l’allontanamento dalla sinagoga di coloro che credono in Cristo (Gv 9,22; 12,43; 16,2). La pura lettura dei passi giovannei conferma la mancanza di un’autonoma volontà dei credenti in Gesù di allontanarsi dalla sinagoga. L’espressione aposynagogòs, più che una volontà di separazione, sembra quindi voler rimarcare l’esistenza di un’aspra polemica intragiudaica legata all’alternativa tra la scelta o il rifiuto di credere in Cristo.
Fino a tempi relativamente recenti nella ricerca storica i passi giovannei connessi all’espulsione dalle sinagoghe sono stati incrociati con un dato esterno al vangelo, inteso come conferma dell’esistenza di una precisa volontà da parte degli ebrei di rompere in modo drastico con i cristiani. Si tratta appunto della cosiddetta Birkat ha-minim (benedizione [eufemismo per maledizione] degli eretici) contenuta nelle Diciotto benedizioni, la più solenne preghiera quotidiana sinagogale. Secondo il rito palestinese antico il testo è il seguente:

Non ci sia speranza per gli apostati; sradica il regno dell’orgoglio, presto ai nostri giorni. E i nazorei e i minim spariscano all’istante, cancellati dal libro della vita e non scritti con i giusti. Benedetto tu Signore che umili i reprobi[14].

L’ipotesi a lungo sostenuta è che questa benedizione sarebbe stata inserita dalle autorità rabbiniche sullo scorcio del I secolo e avrebbe avuto di mira vari gruppi di eretici tra cui tutti i giudeocristiani – indicati attraverso il termine di nazorei in essa presente. I credenti in Gesù Cristo non avrebbero così potuto partecipare alla liturgia sinagogale perché se l’avessero fatto avrebbero maledetto se stessi.
L’attendibilità storica di questa visione al giorno d’oggi è però destituita di fondamento. Gli studi più accreditati concludono che, in base all’esame delle varie redazioni della preghiera e delle altre fonti disponibili, non emerge alcuna attendibile prova che ci permetta di affermare che prima del IV secolo la Birkat ha-minim riguardi effettivamente i cristiani o i giudeocristiani. In ogni caso i nazorei non sono considerati cristiani neppure dai Padri della chiesa; né disponiamo di alcuna prova concernente la loro esclusione dalla chiesa o dalla sinagoga. Inoltre, nonostante l’esistenza di un’imprecazione nei loro confronti, i nazorei continuarono a frequentare le sinagoghe[15]. Lungi dall’essere collocabile durante la vita di Gesù la rottura definitiva e complessiva tra ebrei e cristiani non è fissabile con precisione neppure all’interno dell’ampio orizzonte costituito dai primi tre secoli della nostra era.
Com’è ovvio, la stessa forma liturgica della Birkat ha-minim, vale a dire il suo essere una preghiera sinagogale in cui tutto era legato al fatto che pronunciare un «amen» avrebbe provocato la propria maledizione, indica come essa fosse una misura interna che poteva colpire solo coloro che continuavano ad andare in sinagoga. Anche se accolta nella sua ricezione «classica» e ormai non attendibile che la fa risalire alla fine del I secolo d.C., la «benedizione» non rappresenta perciò nessuna forma diretta di espulsione o di scomunica. Solo nel IV secolo i «giudeocristiani» sarebbero stati considerati «eretici» sia sul fronte ebraico sia su quello cristiano.

Nota bibliografica

Oltre a quanto citato nelle note, si vedano pure i seguenti testi: G. Boccaccini - P. Stefani, Dallo stesso grembo. Le origini del cristianesimo e del giudaismo rabbinico, EDB, Bologna 2012; D. Boyarin, Il Vangelo ebraico. Le vere origini del cristianesimo, Castelvecchi, Roma 2015; P. Schäfer, La nascita del giudaismo dallo spirito del cristianesimo, Paideia, Brescia 2014; G. Steimberger, La Birkat ha-minim, in P. Stefani (ed.), Quando i cristiani erano ebrei, Morcelliana, Brescia 2010, 103-125; P. Stefani, Gesù nelle fonti ebraiche: dal Testimonium flavianum alle Toledot Yešu, in G. Bellia - V. Garribba (edd.), La riscoperta del Gesù ebreo. Atti del XVI Convegno di studi neotestamentari (Napoli, 10-12 Settembre 2015), EDB, Bologna 2017, 213-226.

[1] J. Locke, Lettera sulla tolleranza, in Id., Scritti sulla tolleranza, Utet, Torino 1977, 131.

[2] Prescindiamo dal discusso caso del Testimonium flavianum, il quale peraltro è ben lontano dall’applicare a Gesù la categoria di «eretico», Giuseppe Flavio, Antichità giudaiche, vol. 2: Libri XI-XX, Utet, Torino 1998, 1247.

[3] S. Giustino, Dialogo con Trifone 108, 2, Paoline, Milano 1988, 315.

[4] C. Gianotto (ed.), Ebrei credenti in Gesù. Le testimonianze degli autori antichi, Paoline, Milano 2012, 148.

[5] P. Schäfer, Jesus in Talmud, Princeton University Press, Princeton 2007, 73 (tr. mia).

[6] Il passo di Michea è, nel contesto originario, riservato agli idoli e perciò, di norma, è interpretato in modo diverso da quello qui riportato.

[7] Cf. G. Ibba, Il Vangelo di Marco e l’impuro, Morcelliana, Brescia 2014, 95-99.

[8] Nel manoscritto di Oxford si trova la lezione: «La legge di Mosè è stata ritirata e la legge del Vangelo è stata data».

[9] Per una discussione su questo brano cf. D. Jaffé, Il Talmud e le origini ebraiche del cristianesimo. Gesù, Paolo e i giudeocristiani nella letteratura talmudica, Jaca Book, Milano 2008, 111-121 (or. fr. 2007).

[10] C. Touati, Le cristianisme dans la théologie juive, in «Revue des Êtudes juives» 160 (2001) 493-498 (tr. it. in «Il Regno-Documenti» 19 [2002] 640-641, qui 640).

[11] Cf. Jaffé, Il Talmud e le origini ebraiche, 154.

[12] R. Di Segni, Il Vangelo del Ghetto, Newton Compton, Roma 1985. Vale la pena di sottolineare l’inadeguatezza della scelta a effetto adottata per il titolo italiano per questa, peraltro pregevole, edizione delle Toledot Yešu. L’opzione era, in effetti, già stata fatta propria dalla versione francese: J.-P. Osier, L’Évangile du ghetto ou comment les Juifs se racontaient Jésus (IIe -Xe siècles) (Éditions Berg International, Paris 1984), ripubblicata con il titolo: Id., Jésus raconté par les juifs. L’Évangile du ghetto: la légende juive de Jésus du IIe au Xe siècle (Éditions Berg International, Paris 1999).

[13] «Minim», il termine generalmente reso in modo approssimativo con «eretici», indica tutta la galassia di correnti e movimenti giudaici che non si conformano alle norme proprie del giudaismo rabbinico.

[14] J.J. Petuchowski - C. Thoma, Lessico dell’incontro cristiano-ebraico, Queriniana, Brescia 1992, 30.

[15] L. Vana, La Birkat ha-minim è una preghiera contro i giudeocristiani?, in G. Filoramo - C. Gianotto (edd.), Verus Israel. Nuove prospettive sul giudeocristianesimo. Atti del Colloquio di Torino, 4-5 novembre 1999, Paideia, Brescia 2001, 147-189.
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