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fratel Alois di Taizè "Il sogno e la favela"

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Cinquant’anni fa fratel Roger accompagnò Paolo VI nel pellegrinaggio apostolico a Bogotá

Cinquant’anni fa la Colombia fu la meta del sesto viaggio internazionale di Paolo VI, che dal 22 al 25 agosto 1968 si recò a Bogotá (facendo scalo, al rientro, ad Hamilton nelle Bermude) in occasione del trentanovesimo congresso eucaristico internazionale e della seconda conferenza generale dell’episcopato latinoamericano, riunito a Medellín.
Primo Pontefice a visitare l’America latina, al suo arrivo nella capitale Montini incontrò in cattedrale i vescovi e i preti del paese; quindi, nel campo eucaristico sede del congresso, conferì l’ordinazione a duecento sacerdoti e diaconi colombiani. Il giorno dopo, durante la messa per la “giornata dello sviluppo” nel campo San José alla presenza di trecentomila campesinos, il Papa rinnovò la severa denuncia degli squilibri e delle ingiustizie sociali già contenuta nell’enciclica Populorum progressio dell’anno precedente, ribadendo l’«affezione preferenziale» della Chiesa per i più poveri ed esortando, al tempo stesso, a evitare il ricorso alla violenza per promuovere le legittime aspirazioni della popolazione. Il Pontefice incontrò poi i rappresentanti delle Chiese cristiane, della comunità ebraica e del corpo diplomatico accreditato in Colombia. E il giorno successivo, ancora in cattedrale, inaugurò i lavori dell’assemblea dell’episcopato continentale, affidando ai presuli il compito di «favorire ogni onesto sforzo per promuovere il rinnovamento e l’elevazione dei poveri» e lanciando un chiaro monito: «non possiamo essere solidali con sistemi e strutture che coprono e favoriscono gravi ed opprimenti sperequazioni fra le classi e i cittadini d’un medesimo Paese». Dopo l’inaugurazione della nuova sede del Celam e gli incontri con le autorità civili e le religiose, il congedo dal paese e il rientro a Roma.

Quando, nel 1968, viene annunciato il viaggio apostolico di Paolo VI in Colombia (22-25 agosto), il cuore di fratel Roger vibra. Il priore di Taizé conosce bene il Papa da molti anni, da quando a Roma era ancora il giovane monsignor Montini, sostituto della Segreteria di Stato, e sogna di accompagnarlo in America latina. Quando viene a sapere che quel sogno si realizzerà e che, con un altro fratello della nostra comunità, fratel Robert, è invitato a viaggiare con il Santo Padre sullo stesso aereo, come “ospite e amico del Papa”, il suo cuore vibra ancora di più. Sono lieto di avere oggi l’opportunità di spiegarne il motivo. Non ero ancora nella comunità a quell’epoca ma avevo sentito spesso fratel Roger parlarne; e la memoria dei fratelli più anziani ha mantenuto vivo tra noi il ricordo di quel viaggio del nostro fondatore con il Papa a Bogotá.

L’idea di accompagnare il Santo Padre in quell’esercizio nuovo del suo ministero, che è un grande viaggio, avvince fratel Roger. In seguito, con Giovanni Paolo II, le visite apostoliche in tutto il mondo diventeranno parte integrante della vita di un Papa. Ma ai tempi di Paolo VI uno spostamento intercontinentale era ancora un fatto eccezionale. Fratel Roger è grato di potervi partecipare poiché, dopo gli incontri con Giovanni XXIII che l’hanno profondamente colpito, prosegue nel silenzio del suo cuore una meditazione sul significato del ministero di un pastore universale nel cuore della Chiesa. Ne parla poco pubblicamente, sa che è una questione scottante nei rapporti tra i cristiani separati. Ma vedere da vicino Papa Paolo VI esercitare la sua missione universale lo interessa e lo affascina.

Tre anni dopo il viaggio in Colombia, fratel Roger inizia a pronunciarsi sul ministero del Papa. Nel 1971, dirà in particolare e poi scriverà: «Contemporanei di quel testimone di Cristo che è stato Giovanni XXIII, è ancora possibile ricercare l’unità della Chiesa come ambito di comunione per tutti gli uomini senza porsi la questione del vescovo di Roma? Se ogni comunità locale ha bisogno di un pastore che sproni all’unità quanti si disperdono, come aspettarsi la Chiesa ricostituita nella sua unità senza un pastore universale? La sua vocazione non è forse di essere non a capo (il capo della Chiesa è Cristo), ma nel cuore del cuore?». E concluderà con la seguente riflessione, a cui non sono estranee le coraggiose parole di Paolo VI che ha udito a Bogotá: «Attraverso l’uso di una libertà evangelica, il Papa, servo dei servi, può far molto per sensibilizzare gli uomini di fronte all’oppressione e all’ingiustizia. Senza di lui, chi potrà esprimere l’insieme dei cristiani, al di là dei confini della Chiesa, nei momenti di minacce drammatiche per l’umanità?». Fratel Roger lo ripeterà in diverse occasioni, al prezzo di molte incomprensioni da parte di certi ambienti protestanti.

Accompagnare il Papa, e per di più accompagnarlo in America latina, rappresenta per fratel Roger un evento importantissimo. Da dieci anni il continente latinoamericano — e in particolare la Colombia — occupa molto i suoi pensieri e la sua preghiera a Taizé. La sua attenzione verso quel continente lontano è stata risvegliata da un incontro che ha avuto dieci anni prima, a Roma, nel 1958, con il vescovo cileno Larraín Errázuriz. Quell’anno fratel Roger assiste all’incoronazione di Giovanni XXIII poiché l’arcivescovo di Lione, cardinale Gerlier, ha chiesto al nuovo Papa, subito dopo la sua elezione, di ricevere il fondatore di Taizé per sensibilizzarlo sin dall’inizio al tema dell’ecumenismo. Papa Giovanni XXIII accetta e, il 7 novembre, tre giorni dopo la sua incoronazione, riceve fratel Roger e fratel Max, che si ritrovano così in cima alla lista delle udienze del nuovo Pontefice.

Soggiornando a Roma per diversi giorni in quella fine anno 1958, fratel Roger ne approfitta per prendere contatti e fare la conoscenza di due vescovi cileni, monsignor Larraín Errázuriz e monsignor José Manuel Santos Ascarza. Manuel Larraín Errázuriz, di Talca, è un uomo di una grande intelligenza e insieme di una viva sensibilità pastorale. Diventerà il più grande presidente del Consiglio episcopale latinoamericano (Celam). Espone a fratel Roger la sua visione della situazione latinoamericana, il suo rifiuto dell’ingiustizia che regna nel continente, la sua preoccupazione per i poveri. Tra i due nasce un legame di amicizia e di fiducia.

Fratel Roger è sorpreso e colpito di scoprire nel suo interlocutore anche un’autentica apertura ecumenica. Si azzarda a trasmettergli una sua preoccupazione: il protestantesimo europeo è a quel tempo molto scosso dalla situazione dei protestanti in Colombia che si dice vengano perseguitati. Monsignor Larraín ascolta e poi presenta fratel Roger all’arcivescovo di Bogotá, cardinale Crisanto Luque Sánchez, anche lui a Roma. Dopo il loro colloquio, il cardinale scrive una lunga lettera a fratel Roger dove, tra le altre cose, gli dice: «La gerarchia cattolica in Colombia non ha mai emanato direttive di persecuzione ne contro i protestanti né contro qualsiasi […]. Se fosse stato versato sangue protestante per motivi religiosi, come è stato detto — però non ne ho alcuna prova e alcuna informazione degna di fiducia —, sarei il primo a deplorarlo a e a chiederne perdono a Nostro Signore Gesù Cristo a nome di chi avrebbe osato compiere tali cose». Il porporato è pronto a pubblicare questa lettera ma purtroppo poco dopo muore. Fratel Roger darà la massima diffusione a quella testimonianza nel protestantesimo europeo.

Nel 1962 si apre il concilio Vaticano ii. Fratel Roger è invitato come osservatore e vi ritrova il suo amico Manuel Larraín. Questi gli racconta che, con altri vescovi cileni, ha appena avviato l’iniziativa di una riforma agraria: «Abbiamo terre», gli dice, «abbiamo poveri, ma non abbiamo i mezzi necessari per lanciare cooperative agricole che, sostenute all’inizio, potrebbero poi diventare indipendenti». Fratel Roger intuisce che quello è un appello per Taizé a compiere un gesto ecumenico e l’anno successivo promuove una raccolta in Europa per aiutare le cooperative agricole create dalla Chiesa latinoamericana, non solo in Cile ma, poco a poco, in quasi tutti i paesi del continente. Chiama quella raccolta “operazione speranza”.

Due anni dopo, sempre nel concilio, monsignor Larraín suggerisce a fratel Roger di aggiungere un’altra componente alla raccolta per l’America latina: partecipare non solo alla promozione umana dei poveri, ma anche alla loro promozione spirituale. Sottolinea perciò la mancanza di copie del Nuovo testamento. Viene realizzata una nuova traduzione, che per la prima volta tiene conto dello spagnolo dell’America latina; l’“operazione speranza” finanzia la stampa di un milione di copie. Queste vengono inviate in piccoli pacchi alle parrocchie (anche ai protestanti, in proporzione al loro numero). Taizé mantiene a tal fine uno scambio epistolare non solo con tutti i vescovi ma anche con migliaia di parroci del continente. Poi, con lo stesso sistema, viene inviato in Brasile mezzo milione di copie del Nuovo testamento in portoghese.

Per tutte queste ragioni, quando nel 1968 fratel Roger riceve l’invito di Paolo VI ad accompagnarlo in Colombia, si rallegra infinitamente di poter passare alcuni giorni in quel continente tanto amato, dove non si è ancora mai recato. Gioisce anche al pensiero di ritrovarvi tanti vescovi divenuti suoi amici durante il concilio. Di fatto uno degli obiettivi del pellegrinaggio apostolico è di inaugurare a Bogotá la conferenza dei vescovi dell’America latina, che si terrà poi nella città di Medellín. Ma ecco che fratel Roger suscita stupore e preoccupazione esprimendo il desiderio di alloggiare in una favela a Bogotá. Vuole condividere il più possibile la vita dei poveri. Gli viene detto che è pericoloso. Risponde che non c’è alcun motivo di aver paura dei poveri. Gli viene detto che il traffico nelle strade della capitale colombiana è caotico, che la circolazione è resa ancora più intensa dalla presenza del Papa e di conseguenza non riuscirà mai, da una favela periferica, a partecipare ogni giorno alle cerimonie della visita. Risponde che i nostri amici colombiani conoscono bene la loro città e troveranno i percorsi che gli consentiranno di arrivare in tempo ai diversi incontri ufficiali. A quel punto, gli ambasciatori di Francia e di Svizzera a Bogotá, a conoscenza della sua doppia nazionalità, gli scrivono per dirgli che può soggiornare nella loro rispettiva ambasciata, ma lui li ringrazia e declina entrambi gli inviti.

Alcuni amici colombiani trovano quindi una famiglia in una favela pronta a ospitarli. I due fratelli, Roger e Robert, vi dormono per nove notti, mentre di giorno partecipano agli incontri della visita papale. Fratel Roger, di ritorno a Taizé, scrive: «A Bogotá ho scoperto un popolo dove gli ambienti poveri sono fondamentalmente attaccati a Cristo. Hanno il senso della provvidenza di Dio. A un certo punto, ho provato grande tristezza in una famiglia dove ci avevano accolti a cena come fratelli. Avevo un nodo alla gola per tutto ciò che vedevo attorno a me. Tutto sembrava disgrazia e rovina. Dieci bambini vivevano in una spazio ristrettissimo, una donna stava morendo nella casa accanto. La donna che ci accoglieva mi ha confessato il suo desiderio più caro, quello di veder costruire una piccola cappella. Nonostante la scarsità di mezzi, la gente del quartiere aveva già raccolto un po’ di soldi per costruirla. Mentre me ne parlava, questa madre di dieci figli irradiava felicità. Si riferiva all’Unico che può suscitare una gioia che consente di attraversare i deserti. La speranza che ci trasmettono le comunità cristiane sudamericane si può forse riassumere in una frase: aiuteranno noi, abitanti dell’emisfero nord, a costruire meglio la Chiesa che Dio ci sta preparando e che sarà una comunità di condivisione».

I momenti che il nostro fondatore trascorre in una favela di Bogotá gli aprono un cammino che riprenderà in seguito: ogni volta che ne avrà l’occasione, condividerà allo stesso modo la vita di famiglie povere, in quartieri diseredati, a Santiago del Cile, a Calcutta accanto a madre Teresa, a Nairobi in Kenya, e in altre parti del mondo.

Fratel Roger ritorna a Roma nell’aereo del Papa, con il quale ha un lungo colloquio durante il volo. Fratel Robert resta invece ancora qualche settimana in Colombia, come osservatore presso la conferenza dei vescovi a Medellín.

Il viaggio a Bogotá ha in serbo per fratel Roger un altro evento del tutto inatteso. Sull’aereo viene fatto sedere accanto a padre Pedro Arrupe (a sua volta invitato da Paolo VI) che da tre anni è preposito generale dei gesuiti. Non si conoscono e passano tutto il tempo a conversare. Quei due uomini di Dio sono fatti per capirsi: stesso carattere spontaneo, stessa apertura del cuore e della mente, stessa ampiezza di vedute, stessa passione per cercare come comunicare Cristo all’uomo contemporaneo.

Da quel momento manterranno un dialogo costante fino alla morte del preposito generale dei gesuiti. Si incontreranno spesso a Roma. Quando parlava di padre Arrupe, fratel Roger lo presentava come un santo contemporaneo, definendolo con due parole: discernimento e audacia. Dopo la visita di padre Arrupe a Taizé, a Pentecoste del 1972, fratel Roger scrive: «Quest’uomo è il Giovanni XXIII del suo ordine, è tra i testimoni della primavera della Chiesa». Al di là delle loro persone, da quell’amicizia è scaturita una comunione profonda tra la compagnia di Gesù e la comunità di Taizé.

Quando la malattia annientò padre Arrupe, fratel Roger continuò ad andare a visitarlo ogni anno alla curia generalizia dei gesuiti, vicino al Vaticano, ascoltando le poche parole che poteva pronunciare e chiedendogli ogni volta la sua benedizione. Lo vedeva non solo lottare contro la malattia fisica, ma anche soffrire per la Chiesa, senza mai provare amarezza. Si commosse a tal punto da compiere un gesto unico, che non aveva mai fatto per nessuno; gli propose di divenire priore di Taizé al suo posto. Sotto i suoi occhi, scrisse: «Venga a Taizé. Sarà per noi un animatore della nostra piccola comunità. Ha le forze per farlo. Venga per indicarci l’essenziale, a noi che cerchiamo la riconciliazione senza ulteriori indugi. Non sarebbe un problema per me cederle il posto». Ero presente anch’io quel giorno. Arrupe ascoltò fratel Roger leggere ad alta voce quelle parole. Lo vidi sorridere. Non poteva accettare ma quel gesto di fiducia offriva un po’ di consolazione alla sua sofferenza.

Fu così che, sotto molti aspetti, l’invito che fratel Roger ricevette da Papa Paolo VI cinquant’anni fa non solo fu per lui l’occasione di fare un’esperienza molto creativa, ma ebbe anche conseguenze profonde sulla storia successiva della nostra comunità di Taizé.

di fratel Alois
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