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Piero Stefani "Storia di due spighe"

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· Ricchezza, povertà e beni terreni nella Bibbia ·

«So essere nell’indigenza, so essere nell’abbondanza» (Filippesi, 4, 12): questo passo è il filo conduttore al tradizionale appuntamento estivo promosso ad Assisi dal Segretariato attività ecumeniche (Sae), associazione interconfessionale di laici per l’ecumenismo e il dialogo, fondata da Maria Vingiani nel 1966 e oggi presieduta da Piero Stefani.
Dedicati a Le Chiese di fronte alla ricchezza, alla povertà e ai beni della terra , i sette giorni di lavori (29 luglio-4 agosto) sono stati introdotti dalla relazione che pubblichiamo quasi integralmente in questa pagina.

Una immagine, un titolo, un versetto. Queste sono probabilmente, nell’ordine, le sensazioni percepite da chi si trova ad avere in mano l’avviso della nostra sessione. Ognuno dei tre fattori ha un suo dritto e un suo rovescio: vi è la spiga rigogliosa e piena di chicchi e quella reclinata e mezza vuota, vi è la ricchezza e vi è la povertà, vi è l’indigenza e vi è l’abbondanza. Da che parte stiamo?

Se guardiamo alle due spighe la nostra prima reazione è di pensarci dalla parte di quella piena. Lo siamo collettivamente rispetto alla parte del mondo da noi abitata, ricca al punto da evidenziare quanto nell’immagine di origine biblica in effetti non dice, vale a dire che l’abbondanza dei chicchi di una spiga dipenda in larga misura dall’aver sottratto energie vitali all’altra. Lo siamo nella collocazione all’interno della nostra società. La semplice constatazione di essere riuniti qui attesta che non apparteniamo alla parte povera della popolazione del nostro paese. Secondo i dati Istat relativi al 2017 in Italia le famiglie residenti in povertà assoluta sono 1 milione e 778 mila, pari a 5 milioni e 58 mila individui (8,4 per cento della popolazione), dati in crescita rispetto al 2016 (7,9). Il valore più alto (9,6 per cento) lo si raggiunge fra le famiglie composte da persone di età inferiore ai 35 anni. La povertà relativa riguarda 3 milioni 171 mila famiglie residenti, 12,3 per cento (rispetto al 10,6 del 2016), e 9 milioni e 368 individui pari al 15,6 per cento della popolazione. Tra le famiglie composte da soli stranieri la percentuale di poveri sale al 34,4 per cento e nel sud tocca il 59,6. Quanti fra questi 15 milioni di persone sono presenti in questa sala?
Tra noi non ci sono, invero, neppure gli autentici grandi ricchi. I tipi di spighe nel campo della società sono in realtà ben più di due. È tuttavia innegabile che nel complesso siamo più prossimi alle spighe piene. Ciò è vero anche per un altro motivo: la ricchezza non va misurata soltanto sul piano strettamente economico; vi sono altre dimensioni che ci rendono ricchi a iniziare da quella culturale. Per comprendere l’esistenza e la rilevanza dell’ecumenismo, in un certo senso, occorre essere ricchi; infatti bisogna far propria una serie di riflessioni che affondano le loro radici tanto nella tradizione quanto nella storia. Esse non sono di tutti. Tra i riferimenti da tener presente è quindi opportuno aggiungere anche il sottotitolo: Una ricerca ecumenica. Queste riflessioni da sole mostrano che oggettivamente non stiamo facendo nostra una opzione pauperistica; altrimenti non saremmo qui. Le considerazioni appena proposte non sono di per sé colpevolizzanti. Sono un dato di realtà con cui confrontarci.
Guardando all’immagine per altri versi ci collochiamo però dalla parte della spiga semivuota. È così perché il movimento ecumenico rappresenta una piccola realtà rispetto al mondo. È tale sia in riferimento alla sua dimensione quantitativa sia in relazione alla sua capacità di incidere sulla realtà globale. Da decenni l’ecumenismo propone una triade che fa da sfondo anche al nostro incontro: giustizia, pace, salvaguardia del creato. È un impegno perseguito con costanza e sincerità, ma quanto ha influito sulla situazione del mondo? Quanto ha cambiato gli stili di vita e le mentalità? Se guardiamo alla realtà presente si è obbligati a concludere che, sul piano pratico, la sua incidenza è stata minima; anzi, lo sviluppo storico appare rivolto in direzione opposta a quella auspicata. La gracile spiga non riesce a contrastare la forza espansiva della grande. Simone Morandini chiude il suo recente Teologia dell’ecumenismo (Bologna, Edizioni Dehoniane, 2018, pagine 248, euro 23) citando il messaggio finale dell’assemblea del cec di Harare (1998).
Di fronte a noi c’è la visione di una chiesa, popolo di Dio che cammina insieme, che affronta tutte le divisioni di razza, genere, età o cultura, che lotta per realizzare la giustizia e la pace, che salvaguarda l’integrità della creazione. Camminiamo insieme come un popolo che crede nella risurrezione. In mezzo all’esclusione e alla disperazione aderiamo, nella gioia e nella speranza, alla promessa della vita in tutta la sua pienezza. Camminiamo insieme come un popolo che prega. In mezzo alla confusione e alla perdita di identità, scorgiamo i segni che indicano il compiersi del disegno di Dio e attendiamo la venuta del suo regno.
Vent’anni dopo i punti più saldamente ancorati ai fondamenti della fede restano immutati; tuttavia i fattori contro i quali allora si dichiarava di lottare appaiono in crescita. Le divisioni di razza, genere, età e cultura sono tutte prepotentemente all’ordine del giorno. Colto sotto questa angolatura siamo dalla parte della spiga rinsecchita. Nel campo del mondo a essere rigogliosi sono altri generi di cereali.

Minima rispetto al mondo, la spiga ecumenica appare, per più versi, marginale anche nell’ambito di Chiese storiche sempre meno capaci, in Occidente, di essere punti di riferimento vivi per la maggioranza delle persone. Si aggiunga che le comunità ecclesiali in crescita sono spesso poco sensibili, se non addirittura avverse all’ecumenismo. Vista sotto questa angolatura la nostra spiga è piccola, il che non toglie che sarebbe inconciliabile con la nostra vocazione considerarla sterile. Occorre certo aver fiducia nell’azione dello Spirito, ma anche essere consapevoli che i chicchi di frumento non hanno in loro stessi la capacità di crescita del granello di senape simbolo del regno (Matteo 13, 31-32). Su di loro grava infatti il peso di identità storiche troppo titubanti a mettere in pratica l’esigente richiesta secondo la quale il grano per dare frutto deve morire (Giovanni 12, 24). Morire non estinguersi.
Dietro alle immagini delle spighe c’è un sottofondo biblico legato ai sogni del faraone. Ricorrendo a un’espressione gergale si potrebbe sostenere che nella storia della loro recezione le vacche hanno mangiato le spighe: il loro essere grasse e magre è diventato proverbiale, mentre ciò non è capitato in sorte ai cereali. Tuttavia nella decifrazione e nella messa in pratica dei sogni, sono proprio i prodotti della terra a giocare il ruolo più importante: nella storia genesiaca l’agricoltura prevale sull’allevamento; una conferma la si trova nella politica economica di Giuseppe diventato viceré d’Egitto.
Con Giuseppe e i suoi fratelli per la prima volta nella Bibbia entrano in scena grandi stati. Ciò avviene passando attraverso la dimensione onirica. Ci sono vari modi per presentare i sogni del faraone (cfr. Genesi 41,1-36); uno tra essi consiste nel parlare di sogni e politica. Conviene accostare tra loro due biblici interpreti di sogni: Giuseppe in Egitto e, secoli dopo, Daniele in Babilonia. Le analogie sono molteplici. Due re stranieri, il faraone e Nabucodonosor, fanno un sogno; il loro contenuto riguarda il destino dei rispettivi regni. Lo spirito di tutti e due ne resta turbato (Genesi 41,8; Daniele 2,1). In entrambi i casi i titolari ufficiali dell’interpretazione non ne vengono a capo; bisogna perciò rivolgersi a giovani ebrei. Sia Giuseppe sia Daniele affermano che il sogno è decifrato solo per merito di Dio.
Nel sogno interpretato da Daniele c’è l’immagine della statua fatta di materiali diversi e via via degradanti dalla testa ai piedi. Essa rappresenta una successione di regni ed epoche che alla fine subirà una drastica inversione quando la statua sarà colpita da una pietra staccatasi dal monte senza l’intervento di una mano umana (cfr. Daniele 2, 24-36). Gli orizzonti temporali sono lunghi e il sogno è interpretato all’insegna di una specie di determinismo apocalittico: così avverrà senza ombra di dubbio, rispetto a esso non ci sono contromisure (2, 46-49). In Giuseppe il tempo è più breve, i sette anni di vacche grasse e magre, di spighe piene e vuote, aprono la strada a una risposta attiva. L’interpretazione sfocia in scelte politiche. Il significato del sogno più che un dato oggettivo è frutto della sua stessa interpretazione. Nel caso di Giuseppe è stata la spiegazione a creare la decisione pratica. La politica è frutto di una lettura attiva di quanto sta per avvenire. Gli anni di buoni o di cattivi raccolti sono presentati come dati oggettivi; tuttavia è solo l’interpretazione del sogno a far sì che la sorte dell’Egitto si distinguesse da quella dei paesi circonvicini.
Le vacche siano esse grasse o magre escono tutte dal Nilo. Il riferimento è pertinente. Documenti, distesi sull’arco di molti secoli ribadiscono che l’economia in Egitto dipende dal grande fiume. Se il Nilo tracima vi è prosperità, «se è pigro, i nasi sono otturati e tutti sono poveri». Se il Nilo «è crudele — ha scritto Edda Bresciani — tutta la terra inorridisce, grandi e piccoli gridano». L’affinità anche qui si congiunge alla presenza di una differenza decisiva: nel testo biblico il Nilo viene detronizzato dalla sua qualità di soggetto; Giuseppe infatti dichiara che «Dio ha indicato al faraone quello che sta per fare» (Genesi 41, 25). Dio prende il posto del fiume. Anche se è Dio a stabilire i tempi non c’è però nulla di fatale. Giuseppe avrebbe potuto applicare a se stesso quanto scritto da un funzionario di Montuhopet ii (xi dinastia) che si autoelogiò per aver fronteggiato una carestia più lunga di quella legata alle vacche e alle spighe: «Quando avvenne la bassa inondazione durata venticinque anni non lasciai morire di fame il mio distretto (...) non lasciai che avvenisse la miseria, finché l’alta inondazione non venne di nuovo», scrive sempre Bresciani.
Le vicende di Giuseppe si collocano in un clima diasporico. L’ebreo collabora positivamente con un potere straniero. Si respira un’aria simile a quella presente nella lettera inviata da Geremia ai deportati in Babilonia nella quale il profeta imponeva loro di cercare il benessere del paese perché da esso dipendeva anche il loro (Geremia 29, 7). Anzi nel caso di Giuseppe l’integrazione è tanto stretta da far sì che egli sposasse Asenat, figlia di Potifera, sacerdote di Eliopoli. Da lei ebbe due figli, Manasse ed Efraim. A loro proposito il testo dice in modo esplicito che sono nati «prima che venisse l’anno della carestia» (Genesi 41, 50). Pare una notazione puramente cronachistica; per il Talmud però non è così: «Da qui apprendiamo che l’uomo ha il dovere di essere continente durante gli anni della carestia». Siamo di fronte a considerazioni che sembrano scritte dalla penna di Malthus. Quando le risorse sono scarse è necessario abbassare il tasso della natalità; durante le dure stagioni della carestia, sarebbe da irresponsabili mettere al mondo figli: «Ricchezza, povertà e beni della terra».
Quando dal preannuncio degli anni delle vacche magre e delle spighe semivuote si passa all’azione politica i resoconti biblici non collimano. Ce ne sono due: il primo è stringato e mite, il secondo è più ampio e non privo di risvolti inquietanti. Uno si limita ad affermare che Giuseppe aperse i depositi e vendette il grano agli egiziani e in seguito anche a coloro che provenivano da altri paesi (cfr. Genesi 41, 55-57); l’altro, collocato vari capitoli dopo, propone una musica ben diversa. In esso si sostiene che Giuseppe vendette il grano, tuttavia la carestia proseguì e le riserve di denaro dei sudditi si esaurirono. Allora fu loro chiesto, come contropartita, il bestiame. Un anno dopo si fu da capo. Oltre al denaro, ora era venuto meno anche il bestiame. La gente, pur di vivere, era disposta a essere ridotta in schiavitù e a cedere i propri campi. Giuseppe rifiutò la prima proposta, mentre accolse la seconda. Tutta la terra divenne così proprietà del faraone, fatto salvo il terreno dei sacerdoti. Quanto alla popolazione, essa fu trasferita in altre località da un capo all’altro dell’Egitto. Fu pure mantenuta la tassazione del 20 per cento (non particolarmente elevata per il Vicino oriente antico) adottata negli anni delle «vacche grasse»; i quattro quinti del prodotto restavano quindi ai produttori.
Prese nel loro insieme, le misura adottate da Giuseppe esprimono una concezione statalista di norma estranea alla Bibbia. In proposito si sono fatte varie ipotesi. Tra esse vi è quella di individuare in questa pagina la presenza di una linea antimonarchica attestata anche altrove, per esempio là dove si afferma che il diritto del re gli consente di requisire campi, vigne e oliveti o quanto meno di tassarli per favorire i suoi ministri (cfr. 1 Samuele 8, 14-17).
Tuttavia a proposito della “politica agraria” di Giuseppe vi è anche una interpretazione opposta secondo la quale il testo biblico vuole far trasparire una certa ammirazione per un intervento, fiscalmente non esagerato, capace di salvare la nazione dal disastro economico (ma come prendere alla leggera il trasferimento forzato della popolazione?). Sul fronte della lettura più benevola si attesta Thomas Mann nell’ultimo volume della sua monumentale quadrilogia dedicata a Giuseppe e ai suoi fratelli. Il passo risente del clima tipico del New Deal.
Mann, durante i suoi anni americani, ammirò e conobbe personalmente il presidente Roosevelt. In alcune pagine di Giuseppe il nutritore, lo scrittore tedesco opta per un profilo apologetico in base al quale presenta l’antico viceré ebreo come una specie di esponente, ante litteram, di un intervento statale sensibile al benessere sociale della popolazione ma nel contempo difensore della proprietà privata. Purtroppo non fu compreso: «Il sistema economico di Giuseppe era una sorprendente mescolanza di socializzazione e di diritto alla proprietà individuale, che però fu intesa come una furberia, il gioco scaltro di un semidio».
La Bibbia quando prende in considerazione (per lo più sia pure in modo indiretto) l’ambito della politica economica, mostra aspetti ambivalenti legati a complessità di situazioni che per quanto solo narrative sono accostabili a circostanze reali nelle quali si è di frequente costretti ad assumere scelte opinabili anche nel caso in cui siano mosse da rette intenzioni.
Le Chiese di fronte alla ricchezza, alla povertà e ai beni della terra: è il cuore del nostro discorso. È in primis su questo fronte che si applica la qualifica di «ricerca ecumenica». In realtà si tratta di un tema antico presente fin dal sorgere delle prime comunità cristiane. Da allora non ci ha mai abbandonato. Pur rifacendosi alla stessa fede, nella storia delle Chiese le linee di condotta assunte in questo campo sono state spesso diametralmente opposte. Forse in nessun altro ambito sono convissuti e convivono orientamenti e prassi tanto divergenti, senza che nessuna di esse sia riuscita a prevalere in modo definitivo. È una prospettiva su cui occorre riflettere. Non è dato abitare sulla terra e camminare nella storia senza beni. Il problema, si dirà, è come gestirli. Tuttavia quel che si scopre quando si guarda con sincerità al proprio particulare vale anche per le comunità ecclesiali: spesso è arduo trovare una linea di confine che separi l’eccessivo dal limitato, l’opportuno dallo sconveniente e in qualche caso anche il consentito dall’illecito. Nelle situazioni concrete le scelte specifiche, anche se mosse da buone intenzioni, sono di frequente contraddistinte dal chiaro-scuro.
A patto di non essere vittime di una completa ipocrisia individuale o collettiva, nella maggior parte dei casi né agli individui né alle comunità ecclesiali è dato applicare il detto evangelico stando al quale si scorge la pagliuzza nell’occhio altrui mentre si ignora la trave che è nel proprio (Luca 6, 41-42). L’immagine va ridimensionata; tuttavia proprio in questa sua attenuazione essa risulta valida a vasto raggio. In effetti negli occhi di alcune persone, imprese, aziende, multinazionali, banche e istituzioni ci sono delle vere e proprie travi a cui sono sospesi metaforici cappi, simbolo di molte delle ingiustizie che dilagano nel mondo. Di fronte a questo scenario le Chiese sono chiamate a denunciare le ingiustizie, a bollare l’autonomia assoluta dei mercati, la speculazione finanziaria e a sollecitare ad aggredire le cause strutturali dell’iniquità (cfr. Evangelii Gaudium , nn. 53, 55-56; 202). Ciò non significa però che nei nostri occhi non ci siano schegge derivate dallo stesso legno di cui è composta la trave. Nessuno è nelle condizioni di chiamarsi davvero fuori. Le schegge non hanno certo le stesse dimensioni delle travature, ma non per questo sono inesistenti. Lo sguardo va rivolto anche verso l’interno; senza lasciarsi avviluppare da una colpevolizzazione paralizzante, ma anche senza assumere atteggiamenti giustificatori e autoassolutori. Quest’anno è uscito un documento cattolico intitolato Oeconomicae et pecuniariae questiones. Considerazioni sul discernimento etico .circa alcuni aspetti dell’attuale sistema economico-finanziario a firma della Congregazione della dottrina della fede e del Dicastero per il servizio dello sviluppo umano integrale. Il testo è molto informato e propone analisi puntuali, a volte sorrette da un linguaggio dichiaratamente tecnico; per limitarci a un solo esempio, un passaggio del testo è dedicato alla «cartolarizzazione dei mutui subprime». Domanda: è segno dei tempi che l’ex Sant’Uffizio si occupi di questi temi? Il documento avanza alcuni parametri per aiutare un discernimento etico in campi molto complessi, ma ormai ineludibili. Eppure va detto che leggendolo si trovano, se così si può dire, molti riferimenti alla trave ma nessuno alla scheggia. Non si tratta di un’osservazione di taglio scandalistico; non è necessario evocare lo Ior, parlare di “Vaticano spa”; basta evidenziare il dato palese in base al quale la Chiesa cattolica non è nelle condizioni di affermare di appartenere a un mondo estraneo alla finanza. Non sono situazioni che riguardano solo gli altri, in un modo o in un altro esse toccano tutte le realtà ecclesiali; per questo, in molti casi concreti, è difficile saper come muoversi in prima persona.
È solo un’apparente banalità affermare che per aiutare gli altri bisogna essere dotati di risorse e possedere beni. Se il buon samaritano non avesse avuto con sé i due denari non li avrebbe dati all’albergatore. Ciò vale anche quando i denari sono ben più di due; anzi, in questi casi si è obbligati a confrontarsi con il salto qualitativo e quantitativo comportato dalla presenza di ingenti capitali. La ricchezza da un lato può diventare fonte del benessere altrui, dall’altro, però, è legata a logiche interne che ne rendono ambiguo il governo.
Vi è un aspetto simbolico nell’andare alla ricerca del sottotesto biblico del detto evangelico in cui Gesù afferma: «I poveri infatti li avete sempre con voi ma non sempre avete me» (Matteo 26, 11; Marco 14, 7; Giovanni 12, 8). Sono le ultime parole della risposta rivolta a chi protestava contro lo spreco di profumo, di gran valore, versato da Maria sui piedi di Gesù. Nel corso dei secoli la frase è stata prospettata come giustificazione di visioni che dichiaravano impossibile estirpare la povertà dalla faccia della terra e che denunciavano come vana ogni speranza di instaurare un’autentica giustizia sociale in questo mondo. Che si tratti di un uso improprio è fuori discussione. Eppure non bisogna neppure sottovalutare l’ironico proverbio yiddish stando al quale: «Dio ama i poveri e aiuta i ricchi». In effetti, esso si presenta come efficace correttivo a troppo facili esaltazioni della predilezione divina riservata ai poveri. Gli indigenti vivono in una condizione che ci angoscerebbe al solo pensiero che ci riguardasse in prima persona. Senza penalizzarne il taglio ironico, in realtà dal proverbio è ricavabile una conclusione impegnativa: se Dio aiuta i ricchi tocca a questi ultimi e non a Dio soccorrere i poveri. Come? Indagare sui sottotesti del passo evangelico che attesta la permanenza dei poveri va al di là della pura filologia.
Il detto evangelico rimanda a un passo del Deuteronomio dedicato all’anno sabbatico, vale a dire a uno dei brani di norma citati quando si parla di giustizia sociale: «Poiché il povero non mancherà in mezzo alla terra, perciò Io ti ordino: “Apri, apri la tua mano al tuo fratello, al tuo indigente, al tuo povero nella tua terra”» (15, 11). In questo versetto vi è un ritorno incalzante dell’aggettivo «tuo». In senso stretto, nel contesto dell’anno sabbatico, è indubbio che con quel «tuo» ci si riferisca a un altro ebreo (Deuteronomio 15, 1-11); tuttavia non è improprio attribuire a esso una valenza più estesa.
«Tuo» comporta una chiamata imperativa alla responsabilità: «Apri, apri la tua mano». La mano è tua, non sua, non loro. Nessun’altra la deve sostituire. Non è il pugno chiuso che rinserra quanto ha afferrato; è la mano aperta che dà e incontra un’altra mano. «Il tuo fratello povero e indigente»; di nuovo «tuo», non già suo o loro; è il povero che ti sta davanti, rispetto al quale ti è comandato di entrare in relazione. Vale a dire l’indigente diviene «tuo» in virtù della relazione instaurata con lui, in caso contrario egli rimane irrimediabilmente un estraneo. «Tua terra». Quale? Nel contesto del Deuteronomio è senza dubbio la terra d’Israele. Ma essa è tua soltanto perché è «il Signore tuo Dio» a donartela. Non sei stato tu a conquistarla, non sei tu a possederla; la terra è data dal Signore come «possesso ereditario» (Deuteronomio 15, 7). Essa è dunque una eredità: ne trai beneficio per quel che sei, non già per quel che fai; tuttavia il tuo comportamento può essere causa della sua perdita. È proprio come avviene nel caso di un’eredità. Il libro del Levitico ha al riguardo parole dure: se non se ne è degni la terra d’Israele vomita i propri abitanti (18, 28). In termini laici, stare sulla propria terra come eredità significa assumere sotto la prospettiva della responsabilità il dato casuale di essere nati in una parte del mondo privilegiata. Non sei tu ad aver scelto il luogo della tua nascita, ma sei tu a dover dar ragione del tuo modo in cui vivi in quella parte del mondo. La terra è tua anche perché tu sei qui e non altrove. Quella terra non ti consente alibi, parola che vuol dire appunto essere altrove. Il povero è sulla tua terra, non sulla sua o sulla loro. «Tuo Dio, tuo fratello, tuo povero, tua terra» si è sempre di fronte a un «tu» che interpella e comanda.
Il contesto originario in cui si colloca il comandamento che impone di aprire la mano al proprio fratello è l’anno sabbatico (Deuteronomio 15, 1-11; cfr. Levitico 25, 1-7). Si tratta di un’istituzione particolare; assunta in senso stretto anch’essa è legata soltanto alla terra d’Israele. Tuttavia pure in questo caso è dato proporre considerazioni più estese. L’anno sabbatico è tempo di «condono» e di «remissione». Nel settimo anno i debiti vengono rimessi. Quando si avvicina quella scadenza si è tentati di non concederli, infatti lo si farebbe in perdita. È proprio a questo punto che erompe l’ammonimento biblico più vigoroso. Nel caso in cui ci si rifiuti di concedere il prestito, il povero innalza a Dio il suo atto di accusa: «Egli griderà contro di te al Signore e un peccato sarà in te» (Deuteronomio 15, 9). In questa circostanza non è stata commessa alcuna angheria diretta, c’è stato solo un rifiuto. Il suo peso è però determinante. Il peccato deriva non da quanto si è commesso ma da quel che non si è compiuto; si tratta di omissione. A suscitarlo è la mancanza di un prestito che si sapeva già in partenza essere a fondo perduto. Avere un prestito è diritto del povero. Concederglielo non è misericordia, è zedaqah, giustizia. Eppure sul piano pratico sappiamo che affidarsi alla generosità senza tener conto dell’interesse è una via socialmente e politicamente perdente. Lo attesta anche una questione specifica tratta dalla antica legislazione rabbinica. Per la precisione è il cosiddetto prosbùl istituito da Hillel. Si tratta di un accordo tra debitore e creditore in virtù del quale quest’ultimo poteva esigere dal primo il suo debito anche dopo l’anno della remissione.
Questa è uno delle cose che Hillel il vecchio ha istituito. Quando vide che ci si rifiutava di fare prestiti a vicenda e contravveniva a ciò che era scritto nella Torah: «Bada bene che non ti entri nel cuore questo pensiero iniquo di non prestare più nulla» (cfr. Deuteronomio 15, 9), egli si alzò in piedi e istituì il prosbùl. Questa è la forma del prosbùl: «io tale consegno a voi, giudici di tale località [la dichiarazione] che ho con il tale, in qualunque momento vorrò. E i giudici sottoscriveranno, oppure i testimoni. È dunque possibile far questo? Secondo la Torah scritta, l’anno sabbatico rimette [il debito] e Hillel ha stabilito che esso non lo rimette? (...) Piuttosto ha pensato così io ordinerei in proposito: sebbene non sia scritto esso è uguale a ciò che è scritto (Talmud babilonese, Ghittin 36 a-b).
Lo scopo a cui mira il versetto biblico in questione è che sia concesso il prestito, una forma di aiuto finanziario presente solo in società di disuguali. Per raggiungere l’intento non è produttivo far conto solo sulla generosità, bisogna affidarsi a compromessi che, sapendo qual è la natura umana, garantiscano il minor male possibile in una situazione di disuguaglianza radicale. La logica della decisione rabbinica è quella stessa che presiede alla politica.
La dimensione del denaro resta per sua natura legata a un’ambivalenza insuperabile. È indispensabile, con esso si è nelle condizioni di fare bene consegnando due denari all’albergatore o finanziando progetti di enormi portata che danno lavoro a migliaia di persone; eppure un detto popolare parla del Dio denaro mentre l’evangelo lo identifica con Mammona: «Non potete servire Dio e la ricchezza (Mammona)» (Matteo 6, 24). La radicalità di quest’alternativa indica a un tempo un contrasto insanabile e un’affinità distorta. La potenza del denaro ha in se stesso qualcosa di misterioso. È un idolo fatto dalle mani d’uomo che regna sopra le moltitudini. L’idolatria sta nel servirsi di Dio in luogo di servirlo; la fedeltà a Dio comporta servirsi del denaro mentre in questo caso l’idolatria si esplicita nel servirlo. Sono considerazioni dotate di una loro pertinenza e tuttavia anche in alcuni modi di servirsi del denaro è inscritta una realtà per più versi inquietante.
Si legge nel Faust: «Eh, diavolo! Certamente mani e piedi, testa e sedere sono tuoi! Ma tutto quel che io mi posso godere allegramente, non è forse meno mio? Se io posso pagarmi sei stalloni, le loro forze non sono le mie? Io ci corro su, e sono perfettamente a mio agio come se io avessi ventiquattro gambe».
Quello del Faust è un passo molto suggestivo; tuttavia, per così dire, si può fare meglio, le potenzialità più autentiche della frase sono state infatti messe in evidenza non già dal grande Goethe, ma dal giovane Marx: «Ciò che mediante il denaro è a mia disposizione, ciò che io posso pagare, ciò che il denaro può comprare, quello sono io stesso, il possessore del denaro medesimo. Quanto è grande il potere del denaro, tanto è grande il mio potere. Le caratteristiche del denaro sono le mie stesse caratteristiche e le mie forze essenziali, cioè sono le caratteristiche e le forze essenziali del suo possessore. Ciò che io sono e posso, non è affatto determinato dalla mia individualità (...). Io, considerato come individuo, sono storpio, ma il denaro mi procura ventiquattro gambe; quindi non sono storpio. Io sono un uomo malvagio, disonesto, senza scrupoli, stupido; ma il denaro è onorato, e quindi anche il suo possessore. Il denaro è il bene supremo, e quindi il suo possessore è buono; il denaro inoltre mi toglie la pena di essere disonesto; e quindi si presume che io sia onesto (...). Io che con il denaro ho la facoltà di procurarmi tutto quello a cui il cuore umano aspira, non possiedo forse tutte le umane facoltà? Forse che il denaro non trasforma tutte le mie deficienze nel loro contrario? E se il denaro è il vincolo che mi unisce alla vita umana, che unisce a me la società, che mi collega con la natura e gli uomini, non è il denaro forse il vincolo di tutti i vincoli? Non può esso sciogliere e stringere ogni vincolo? E quindi non è forse anche il dissolvitore universale? Esso è tanto la vera moneta spicciola quanto il vero cemento, la forza galvano-chimica della società».
Torniamo al quindicesimo capitolo del Deuteronomio, in esso è contenuto un paradosso che evidenzia tutta l’ambivalenza della povertà. I poveri ci sono, hanno diritti, obbligano, chiamano in causa la responsabilità; eppure, per altri versi, essi non ci dovrebbero essere; la loro esistenza indica anche una forma di inadeguatezza, di stortura, di imperfezione sostanziale presente nella società. Il Deuteronomio, poche righe prima di dichiarare che il povero non mancherà mai nel paese, aveva affermato: «Soltanto che non ci sarà presso di te alcun povero perché il Signore ti benedirà grandemente nella terra che il Signore tuo Dio ti darà in possesso ereditario» (15, 7). Non ci saranno poveri eppure essi non mancheranno mai. La promessa di benedizione eccede sempre la benedizione di cui ci è dato effettivamente di beneficiare. Nel cammino della fede è sempre così. Ci si trova davanti a un’eccedenza che, invece di farci fuggire in un lontano futuro, ci obbliga nel presente. Nello stesso tempo essa è però aperta verso l’avvenire di Dio. L’eccedenza della promessa resta un tratto costitutivo della fede e lo è proprio nel momento in cui si collega a un impegno concreto nell’oggi.
«So essere nell’indigenza, so essere nell’abbondanza» (Filippesi 4, 12): in quale contesto si colloca questa frase di Paolo, vale a dire dell’autore neotestamentario che, più di ogni altro, parla di se stesso? Nelle sue lettere l’apostolo comunica vari aspetti della sua vita, eppure quando tocca temi legati al proprio sostentamento rivela sempre un certo imbarazzo. Nella prima lettera ai Corinzi Paolo, all’interno di un argomentazione articolata e rivolta in altra direzione, afferma di aver rinunciato al suo diritto (fondato su una parola di Gesù trasmessaci solo da lui) che chi annuncia il Vangelo viva del Vangelo (9, 14). Egli perciò si sostiene grazie al proprio lavoro. Lo scenario però a volte si complica. Alla fine della lettera ai Filippesi, Paolo ringrazia questi ultimi per il dono che gli hanno trasmesso tramite Epafrodìto (2, 25). L’apostolo è stato soccorso nelle sue necessità, è buona cosa ricevere aiuti; eppure Paolo rende esplicito pure una specie di disagio che è di tanti poveri. Nessuna ombra si estende sulla gratitudine provata nei confronti di chi lo ha aiutato, eppure l’apostolo si preoccupa di esprimere anche la dignità di essere autosufficiente. Tanti poveri aspirano a esserlo. La riconoscenza non comporta la dipendenza. Paolo si richiama al lessico improntato alla gioia con cui aveva iniziato la lettera (definita da alcuni come la più affettuosa fra tutte le sue epistole), nel contempo però ribadisce la propria autarkeia (Filippesi 4, 11). In definitiva soltanto la persona libera può esprimere in modo limpido e disinteressato la propria riconoscenza verso gli altri e si trova in tale situazione perché egli, in prima istanza, si affida a Colui che lo rende forte. «So essere nell’abbondanza, so essere nell’indigenza» attiene anche al nostro rapporto con le persone. Ci sono legami con parenti, amici, maestri, guide, discepoli che riempiono le nostre vite, ma avvengono anche perdite che la segnano. Il nostro pensiero quest’anno, assieme ad altri volti che ci hanno lasciato, va innanzitutto a Placido Sgroi, nostra competente e appassionata guida nei campi dell’ecumenismo e dell’etica. Lo ricordiamo con affetto nella preghiera e nella speranza di un incontro posto al di là del velo della morte che solo la fede è capace di alimentare.
Lo ricordiamo nella preghiera. Tra tutte quelle che abbiamo appreso nessuna ci è più cara del Padre nostro. In essa non c’è nulla da aggiungere e nulla da togliere. Eppure... Nella preghiera di Gesù in relazione ai peccati si usa un’espressione economica allusiva alla prassi indicata dal Deuteronomio in relazione all’anno sabbatico: «Rimetti a noi i nostri debiti come anche noi li rimettiamo ai nostri debitori».
Il Padre è sempre creditore nei nostri confronti, noi invece non sempre lo siamo nei confronti degli altri. Nel caso in cui si tratti di etica e non già di finanza nella preghiera perfetta è pensabile aggiungere un’ulteriore invocazione: «Fa’ che i nostri creditori abbiano la larghezza di cuore di rimettere i debiti che noi abbiano nei loro confronti». Nel cammino ecumenico l’invocazione andrebbe formulata in modo reciproco. Riusciamo a perdonarci gli uni gli altri solo se, al pari di Paolo, diciamo: «posso ogni cosa in colui che mi rende forte». La forza dell’autentico perdono travalica le capacità del nostro cuore umano. Con tutto ciò diventare consapevoli di essere chiamati a svolgere con coraggio un compito comune è via feconda per riempire di chicchi le spighe della nostra riconciliazione.
Lo vogliamo esprimere, in conclusione, con alcuni versi di David Maria Turoldo: «Torniamo al tempo del rischio, / a fare delle nostre rare speranze / il mazzo di spighe / raccolte dai campi più devastati».
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