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Enzo Bianchi "Eremiti e terre estreme"

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Luoghi dell'Infinito
Luglio 2018
Enzo Bianchi
dal sito del Monastero di Bose

“Volete sentire da me perché e come vada amato Dio? Ve lo dico: Dio va amato per Dio – questa è la causa. Smodatamente, invece, è il modo”.
Così si apre il De diligendo Deo di san Bernardo. E la storia e la geografia del bacino del Mediterraneo sono ricche di nomi e di luoghi dove hanno vissuto, sovente in perfetta solitudine, degli “smodati” amanti di Dio, uomini – più raramente anche donne, al seguito della tradizione che colloca gli ultimi anni di vita di Maria Maddalena nelle grotte della Sainte Baume in Francia – che scelgono località estreme per il loro faccia a faccia con Dio, sottraendosi alla vista dei loro simili per scrutare l’Invisibile.

Ben presto, poiché “non si accende una lampada per metterla sotto il moggio” (Mt 5,15), questi solitari vengono raggiunti da discepoli e, successivamente, nel breve volgere di qualche anno dalla loro morte, i luoghi estremi diventano mete di pellegrinaggi via via meno estremi. Così, tornando oggi in quei luoghi, non è sempre possibile cogliere la potenza estrema che emanava quando vennero scoperti da discepoli di Cristo in fuga dalla mondanità.

Se andiamo oggi alla grotta di sant’Antonio nel deserto egiziano – una semplice fessura nella roccia – solo qualche centinaio di ripidi scalini ci separa da un cenobio di oltre cento monaci che accoglie ogni giorno migliaia di pellegrini: solo la vastità del deserto attorno non è mutata nel corso dei secoli, così come la limpida fonte di acqua che quasi miracolosamente sgorga dalla roccia, oggi come milleseicento anni fa.

Qualcosa di analogo – seppure in un ambiente naturale completamente diverso e con la presenza di una comunità oggi meno numerosa – lo abbiamo al Sacro Speco di Subiaco, santuario edificato a custodia della grotta in cui san Benedetto visse i suoi primi anni da eremita, ricevendo periodicamente del cibo da un monaco di nome Romano, come racconta Gregorio Magno nei suoi Dialoghi: “dal monastero di Romano non era possibile camminare fino allo speco, perché sopra di questo si stagliava un’altissima rupe; Romano quindi dall’alto di questa rupe, calava abilmente il pane con una lunghissima fune, a cui aveva agganciato un campanello: l’uomo di Dio sentiva, usciva fuori e lo prendeva”.

Se invece percorriamo a piedi le strade del monte Athos, il “Giardino della Madre di Dio”, centro spirituale del monachesimo ortodosso, dobbiamo inerpicarci fino a improbabili skiti abbarbicate sul monte per cogliere qualcosa dell’atmosfera che doveva pervadere tutti quei luoghi prima che i poderosi insediamenti monastici ne facessero un arcipelago di cittadelle di Dio sulla Santa Montagna. Analogamente, i massi erratici delle Meteore in Grecia, cui un tempo si accedeva solo issati a braccia in una cesta di corda, hanno oggi il problema di coniugare il permanente richiamo alla vita interiore e la dimensione di pellegrinaggio spirituale con la devozione popolare e la sempre più pressante curiosità turistica.

Altri luoghi, invece, da rifugio inaccessibile di un singolo eremita estremo sono diventati nel corso della storia monasteri di una certa consistenza, pur sempre austera e ritirata, come l’eremo di Monte Cucco a Pascelupo, eremo camaldolese per iniziativa di Paolo Giustiniani: testimonianza di audacia ascetica e di serena consapevolezza che, per fare del deserto un giardino, il primo luogo da irrigare è il proprio cuore, attraverso l’assiduità con Dio nella preghiera.

Ci sono poi realtà nate come memoria evangelica posta sul monte, verso la quale sollevare gli occhi dalla pianura pulsante di vita che, per tragiche vicende storiche, si sono trasformate in rifugi di sopravvivenza per una popolazione, una cultura e una fede osteggiate fino alla persecuzione: è il caso dello stupendo monastero di Mor Mattai in Iraq, nei pressi di Mosul, ora strenuo baluardo che dalla costa rocciosa del monte cerca faticosamente di dispensare speranza ai superstiti cristiani della regione.

E che dire di isole un tempo selvagge come Lerins e Saint Honorat di fronte a Cannes, scelte per la loro solitudine da eremiti provenienti dall’Egitto, popolate poi da monaci richiamati lì da tutta Europa, e che ora vedono il monastero accerchiato da flottiglie di natanti e da flussi vacanzieri che a volte di selvaggio hanno i modi e non più la natura. Se poi ci spingiamo fino all’Egeo e raggiungiamo Amorgos, la più orientale delle isole Cicladi, restiamo semplicemente abbagliati dal monastero della Panaghia Chozoviotissa, una squarcio di bianco aggrappato alla rupe dove negli ultimi anni monaci provenienti da diversi paesi hanno saputo riprendere il testimone dei predecessori. Così il canto delle melodie bizantine ha ripreso a echeggiare nella chiesa ricavata da un antro della rocca che domina l’isola.

Ciò che accomuna tutti questi luoghi – e li differenzia da altre ascesi estreme, come quelle dei monaci stiliti, impassibili sulle loro alte colonne di pietra – è proprio la capacità di irradiamento dei primi solitari che hanno scovato luoghi reconditi per essere “soli con il Solo”. Proprio la familiarità con il Dio “filantropo”, amante degli uomini, ha finito per attirare verso i margini del mondo e della società dapprima sparute comunità di discepoli e poi generazioni di uomini e donne alla ricerca di Dio nella banalità “estrema” del quotidiano delle loro vite.
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