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Dall’Antigone di Sofocle al testamento biologico

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Il Regno
Parole delle Religioni
Nessuno vive per sé
Dall’Antigone di Sofocle al testamento biologico
Piero Stefani

È dato di parlare di realtà contemporanee anche partendo da molto lontano. Così avviene anche nel caso del testamento biologico.


Primo quadro. Nel più celebre coro dell’Antigone di Sofocle (rappresentata ad Atene nel 442 a.C.) si legge che «molte sono le cose meravigliose/misteriose ma nessuna lo è più dell’uomo», lui che inventò le tecniche, vinse il mare e la terra, soggiogò gli animali e costruì case e città e «a se stesso insegnò l’uso dell’agile pensiero espresso in aeree parole e l’impulso di ordinarsi in città».

Nell’elenco trovano posto la cultura, la tecnica, la socialità e la politica. L’orizzonte generale vale anche per il nostro tema. Tutti i fattori nominati rientrano in gioco nel testamento biologico; tuttavia, se si fosse costretti a scegliere a chi dare la preminenza, bisognerebbe optare, almeno per certi versi, per la tecnica. È così perché è stata quest’ultima a realizzare quanto un tempo era giudicato impossibile. I problemi inediti sorgono là dove ci si inoltra su terreni un tempo preclusi.

La domanda se sia giusto o conveniente fare tutto quello che ci è dato di compiere sorge solo allorché è diventato possibile quanto un tempo era giudicato impossibile. «Ad impossibilia nemo tenetur»; i «possibilia», di contro, sono luoghi della scelta. La decisione implica la cultura, la socialità, la polis; essa non dipende perciò in modo diretto dalla tecnica. Tuttavia è quest’ultima (che naturalmente è, a sua volta, frutto della cultura) che ci costringe a confrontarci con scelte in precedenza precluse. Di fronte all’impetuosa crescita di quel che è dato di fare, insorge il problema di cosa sia giusto compiere o non compiere. I confini di pertinenza dell’etica si sono dilatati.

Secondo quadro. Le considerazioni fin qui compiute sono riferite a un ambito greco; cosa dire quando si prendono le mosse dalla Bibbia? In linea di massima si potrebbe affermare che una specie di corrispettivo biblico del coro dell’Antigone è costituito dal Salmo 8.

«Signore (JHWH), Signore (Adonay) nostro, quanto è magnifico il tuo nome su tutta la terra! / Poiché elevata sopra i cieli è la tua maestà, / dalla bocca di bimbetti e lattanti hai tratto forza a motivo dei tuoi avversari / per ridurre al silenzio nemici e ribelli. / Quando vedo i cieli, opera delle tue dita, / la luna e le stelle che hai collocato, / che cos’è l’uomo perché te ne ricordi, / il figlio dell’uomo perché vigili su di lui? / L’hai diminuito fino a essere di poco inferiore a Dio, / di gloria e onore lo hai incoronato / gli hai conferito il governo sulle opere della tua mano / tutto hai posto sotto i suoi piedi, / tutte le greggi e gli armenti / e anche le bestie della campagna, / gli uccelli del cielo e i pesci del mare / che percorrono le vie del mare. / Signore (JHWH), Signore (Adonay) nostro, quanto / è magnifico il tuo nome su tutta la terra!».1

Nel Salmo è racchiusa una domanda rivolta al tu divino: «Che cos’è l’uomo perché te ne ricordi?». Il testo biblico non solleva la questione filosofica del «che cos’è (ti esti)?» greco; esso però non chiede neppure «chi è l’uomo?» usando una forma personale (in ebraico sarebbe consentito farlo). Gli esseri umani, pur chiamati a governare la terra e a essere vicari e luogotenenti (khalifa, come dichiara il Corano 2,30-31) di Dio in questo mondo, sono legati alla condizione biologica del «che cos’è».

Il Signore ha affidato alle creature umane il compito d’amministrare la terra (che è sua, non nostra); tutto ciò rimanda però a un’ulteriore domanda avvertita fortemente nella nostra epoca: colui che governa gli altri è in grado di farlo nei confronti di se stesso? La creatura umana sa autogovernarsi? La risposta biblica è che è nelle condizioni di compierlo soltanto se si pone in ascolto del tu di Dio. La prospettiva vale ancora oggi? Vale per tutti?

Terzo quadro. Partiamo anche questa volta da un passo biblico che però assumeremo in modo largamente metaforico. È tratto dal libro del Levitico. Preso alla lettera, si tratta di una legge agricola e sociale: «Quando mieterete la messe della vostra terra, non mieterete fino ai margini del campo, né raccoglierete ciò che resta da spigolare della messe; quanto alla tua vigna, non raccoglierai i racimoli e non raccoglierai gli acini caduti: li lascerai per il povero e per il forestiero» (Lv 19,9-10).

Quando si miete un campo non si deve andare fino in fondo. Non bisogna fare tutto quanto si è nelle condizioni di attuare, occorre lasciare uno spazio non mietuto. Anche nel campo della vita si può decidere di non spingersi fino ai confini estremi resi accessibili dalla tecnica. Ci è concesso di sospendere la mietitura. C’è anche comandato di arrestarci? Il fattore decisivo sta nel fatto che quando ci si ferma, non lo si faccia solo per sé stessi. La sospensione deve andare a favore del povero.

Nel lessico corrente l’aggettivo «povero» è riservato al morto; poveri sono tuttavia anche coloro che sopravvivono, privati della presenza di chi è a loro caro. La scelta di non impugnare più la «falce» non deve essere frutto di una pura autodeterminazione. Il criterio da seguire da parte di tutti è una recezione laica del detto di Paolo: «Nessuno vive per se stesso, nessuno muore per se stesso» (Rm 14,7); a questo la fede aggiunge una sua motivazione specifica: «Perché se viviamo, viviamo per il Signore, se moriamo, moriamo nel Signore» (Rm 14,8). Tuttavia si può giungere alla seconda parte solo passando per la prima, che vale per tutti.

Sul testamento biologico. Nel caso del testamento biologico entrano in gioco fattori anche più specifici di quelli finora elencati. Essi sono riconducibili in buona misura all’ambito di tre coppie.2 La prima è costituita da un confronto tra «biofilia» e «biolatria». Occorre essere amanti della vita, ma non porla come valore assoluto. Vi sono circostanze in cui il credente è chiamato a ripetere con il salmista: «Poiché il tuo amore è meglio della vita» (Sal 63,4). Ma vi sono pure situazioni che vanno coniugate in modi, per così dire, più laici.

Quasi ogni persona sa che, a volte, rinunciare alla vita in favore di altri può essere un valore più alto che trattenerla. Il punto è così chiaro che al riguardo non ci sono molte parole da aggiungere. Più significativo è occuparsi del secondo binomio nel quale si confrontano tra loro «biocentrismo» e «antropocentrismo». Su questo fronte si è infatti assistito alla nascita di un atteggiamento inedito definibile «biocentrismo antropocentrico».

Quando si afferma che la vita va rispettata fino alla sua fine naturale, oltre ad applicare un aggettivo improprio a una condizione che sussiste solo a motivo di una dose molto elevata di artificialità, si riserva un integrale rispetto biologico esclusivamente all’essere umano. Tuttavia, sul piano della biologia la vita è inserita in una rete relazionale che esclude ogni netta separazione tra ambiti.

L’approccio evolutivo ha dimostrato in modo inconfutabile il legame tra le vite. Nell’ambito del biologismo nulla riesce a separare la vita della specie umana da quella di altri viventi; se si vuole individuare una distinzione occorre dunque situarla su un altro piano. Il biologismo antropologico che si ostina a prolungare la vita umana mentre non avanza alcuna obiezione alla soppressione di quella animale è dunque una contraddizione logica da cui derivano, a cascata, una serie di improprie conseguenze etiche.

Il kerygma della risurrezione. «Nessuno vive per se stesso»: la massima interagisce anche con la nostra terza coppia che mette in relazione tra loro «vita biologica» e «vita biografica». Nella prospettiva biologistica tutto si colloca su un piano che esula dalla soggettività personale; non così nell’ambito delle biografie, nel quale l’autocoscienza soggettiva e le relazioni con altre persone svolgono un ruolo determinante.

Nelle scelte relative alla parte finale della vita, la componente biografica è chiamata a prevalere su quella biologica; in questo caso, il versante qualitativo conta molto di più di una estenuata componente quantitativa orientata a un puro e semplice prolungamento dell’esistenza. Occorre dunque cercare di dar senso al vissuto non isolando la morte dell’individuo da quanto ha costituito il multiforme tessuto della sua vita.

Le prospettive fin qui indicate sono ormai largamente condivise dalle Chiese, le quali in molti casi sembrano propense a promuovere una nuova forma di ars moriendi volta a donare senso e conforto all’atto di congedarsi dalla vita. In questo ambito, si forniscono aiuti d’ordine spirituale non alieni da apporti psicologici e si favorisce il controllo del dolore compiuto attraverso il potenziamento di cure palliative.

L’aspetto positivo di questa linea di condotta è evidente. Rimane l’interrogativo se il compito insostituibile delle Chiese sia soltanto quello di proporre un modo d’agire largamente condiviso pure da approcci etico-sapienziali di orientamento laico, o non comporti soprattutto la presenza nei dibattiti e nella prassi di quanto raramente emerge: l’annuncio del kerygma della risurrezione.

Darlo come un ovvio presupposto dottrinale, non bisognoso d’essere riannunciato di fronte a ogni morte, è segno inequivocabile dello smarrimento di un autentico linguaggio di fede. L’annuncio perciò viene avvolto nel silenzio, proprio nei momenti fondamentali nei quali sarebbe chiamato a testimoniare la presenza di un orizzonte che trascende sia il dominio della tecnica sia i benefici arrecati da una condivisa sapienza etica.


1 Traduzione mia.

2 Per queste tre coppie sono debitore all’intervento di don Roberto Massaro, pronunciato nel corso del convegno promosso dal gruppo SAE di Napoli: «Testamento biologico e tematiche di fine vita: aspetti etici, psicologici e spirituali», Napoli, 15.3.2018..
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