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Enzo Bianchi La rimozione della vecchiaia

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“il Fatto Quotidiano” del 22 aprile 2018
Enzo Bianchi
dal sito del Monastero di Bose

Come suggerisce il salmo, la vecchiaia si prepara “imparando a contare i propri giorni”. Si tratta di prendere coscienza durante tutta la vita, attraverso modalità e acquisizioni diverse, del proprio limite.
Scriveva Dietrich Bonhoeffer: “L’uomo comprende veramente se stesso solo a partire dal proprio limite”, cioè solo se sa leggere la propria vita come un cammino che ha un termine verso il quale, lo voglia o no, giorno dopo giorno si avvicina.

Non esiste però un farmaco anti-invecchiamento e il limite della vita umana, non certo la media dell’età dei decessi, è sempre quello fissato e testimoniato dalla Bibbia. Alcuni oltrepassano i cento anni, ma il limite dei centoventi resta invalicabile. Questo l’implacabile verdetto del Creatore: “Il mio spirito (ruach) non resterà sempre nell’uomo, perché egli è carne e la sua vita sarà di centoventi anni” (Genesi 6,3). Accettare il limite è un’arte che va imparata fin dalla nascita, ma che va praticata con più consapevolezza e assiduità nell’età matura, proprio per prepararsi a un mutamento, a una nuova tappa della vita.

Ricordo una pratica che mi è stata trasmessa quand’ero bambino: la domenica, dopo la visita al cimitero prima dell’imbrunire, vi era una passeggiata – forse l’unico tragitto a piedi che si faceva senza che ve ne fosse bisogno, non per recarsi a lavorare o a scuola, o per altri motivi pratici – in cui si ripeteva a mo’ di litania: “Gesù Cristo è la vita eterna!”. Lo si ripeteva migliaia di volte, quasi per convincersi che vi era comunione di vita con i propri cari già morti e che vi sarebbe stato un incontro con loro nella vita eterna, in un aldilà sereno e luminoso. La fine improvvisa era temuta come il male più grande e così ci era insegnato: oggi invece è facile sentir ripetere che questa subitanea et improvisa mors sarebbe per molti una beatitudine…

L’apprendistato più efficace alla vecchiaia è la vicinanza ai vecchi, il saperli vedere e ascoltare, l’impegnarsi ad avere cura di loro. Si potranno certamente anche leggere libri e ricerche sulla vecchiaia, ma nulla può prepararci a questa tappa quanto l’assiduità con chi la sta attraversando. Nella famiglia contadina i vecchi erano in casa, li si poteva osservare nel loro declinare, nella loro crescente debolezza, nel sopraggiungere in loro della malattia, scoprendo nel corpo vicino quei bisogni, quelle fatiche, quelle grida che un giorno potranno essere anche le nostre. Oggi invece i nonni sono presenza utile ma saltuaria: a loro si affidano i bambini quando si vuole essere un po’ liberi, ma non sono quasi mai una presenza quotidiana.

La vera scuola è invece quella di stare accanto agli anziani, mano nella mano, è il doverli aiutare quando non sono più autonomi e chiedono che siano tagliate loro le unghie dei piedi… Non dimenticherò mai questo servizio che mi chiedeva il rabbino Ravenna, ormai anziano e obeso. Ma mentre gli tagliavo le unghie, le sue parole luminose come diamanti mi cadevano addosso, ispirandomi a dirgli: “Rabbino, lei è una benedizione e perciò sia benedetto!”.

Ci renderemo conto prima o poi di cosa può significare la rimozione dei vecchi e della loro condizione dal tessuto quotidiano? Senza esperienza della finitezza, della vecchiaia, della malattia e della morte, tutte le età della vita sono danneggiate, impoverite e incapaci di maturare, per entrare in quella stagione che comunque giungerà inesorabile.

Non bisogna lasciare che la vecchiaia ci sorprenda e ci invada, ma essa chiede in verità un nostro impegno, ci chiede di prendere coraggio per un’avventura che ha dell’inedito ma che è sempre una tappa della vita. Nessun eroismo, ma il coraggio è una forza interiore per un cammino che è il penultimo, prima del passaggio a un’altra riva. E proprio perché oggi la durata della vita può essere più lunga, occorre trovare il proprio passo, la propria velocità di crociera, per poter andare avanti scoprendo e conoscendo nuovi orizzonti, nuovi paesaggi. Il coraggio richiesto è quello di vivere con semplicità, di vivere il presente senza lasciarsi imbrigliare dal passato e senza guardare al futuro con angoscia.

La vecchiaia non è un tempo inutile, né sterile, perché è ancora vita. Secondo James Hillman la vecchiaia non ha come fine la morte, ma a essa spetta un compito preciso: svelare e portare a compimento il proprio carattere. La vecchiaia potrebbe così essere un’epifania di se stessi, dalla propria vita interiore alla quale ci si può ormai dedicare senza essere divorati dalla frenesia della vita. Paolo di Tarso in una sua confessione riguardo all’anzianità usa una bella immagine: “Mentre il nostro uomo esteriore si va disfacendo, quello interiore invece si rinnova di giorno in giorno”. Sì, ne facciamo l’esperienza quando, dopo una malattia, una contraddizione, una prova, un’ora nella quale sembravamo fare naufragio, riprendiamo la vita con nuove forze.

Nella giovinezza e nella maturità non si sente in modo tanto forte questa esperienza del cadere e rialzarsi; per i vecchi, invece, la possibilità di rialzarsi è sorprendente, causa stupore e grande gioia.
Per un cristiano, poi, il coraggio viene confermato e ispirato anche dalla sua fede: si tratta infatti di prepararsi all’esodo, facendo preparativi pasquali. Sì, preparativi pasquali, perché “pasqua” significa “esodo-passaggio” attraverso le acque profonde, verso una terra dove il sole non tramonta, le lacrime non scendono più dagli occhi e la morte e il lutto non regnano più. Speranza folle? Ma è quella che nasce dalla fede e si nutre della convinzione che qualcosa di eterno lo abbiamo vissuto nella nostra vita: l’amore. Dell’amore vissuto nulla andrà perduto e ogni pepita di amore è promessa che l’amore vince la morte.

Nell’aldilà non vorrei essere “solo con Dio”, ma anche insieme a quelli che ho amato e mi hanno amato, insieme agli altri, all’umanità intera di cui faccio parte e nella quale sono stato concepito e generato, sono nato e cresciuto, vivendo “mai senza l’altro”. La vecchiaia si costruisce insieme, e solo una cultura umanistica che sappia mettere al centro la persona, con le sue fragilità, può aiutare tale edificazione. Ognuno di noi è chiamato “a morire e a vivere insieme”, scrive Paolo, non da solo; quindi, anche ad attraversare la vecchiaia, non in un viaggio solitario nel deserto ma in un itinerario di persone che camminano insieme, anche se il percorso di qualcuno è più breve. Perché non è vero che “gli altri sono l’inferno”, come affermava Jean-Paul Sartre: il vecchio capisce bene che l’inferno è non amare e non essere amati. Anche nella vecchiaia l’amore è sempre da inventare, ma con gli altri, non nella solitudine.
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