Enzo Bianchi Gesù di Nazaret affascina ancora oggi
dal sito di Famiglia Cristiana (tratto da Vita Pastorale di febbraio 2018)
La Chiesa che è in Italia è dotata di molti doni ed è ancora una realtà viva in questa nostra società segnata dalla secolarizzazione, certo, ma soprattutto dall’indifferenza verso ciò che costituiva la sua anima fino a mezzo secolo fa: la “religione cattolica”.
Non siamo ancora in una situazione di cristiani in diaspora e neppure di piccole comunità di credenti che testimoniano il Vangelo in condizione di minoranza. Il panorama è variegato, ma ci sono ancora regioni in cui le comunità cristiane sono realtà visibili, eloquenti, nelle quali, seppur in diminuzione, non sono esigue le vocazioni al ministero presbiterale. Vi è,dunque, una grande opportunità per il cristianesimo e, di conseguenza, per le Chiese, che dovrebbero restare vigilanti più che mai e dotarsi di un nuovo soffio di vita. Sono, cioè, chiamate a favorire una maturazione della soggettività dei battezzati, un rinnovamento della fede, sempre più pensata, e l’esercizio di uno stile che sappia essere eloquente, trasmettendo il Vangelo agli uomini e alle donne che ancora chiedono, anche se in modo non esplicito: «Vogliamo vedere Gesù» (Gv 12,21).
Siamo tutti consapevoli del grande mutamento in atto, con velocità accelerata, negli ultimi dieci anni: sono vistosi sia la diminuzione dei partecipanti all’eucaristia domenicale sia l’assottigliarsi della presenza delle donne nelle liturgie e nelle diverse diaconie parrocchiali. Ma, soprattutto, le nuove generazioni sono segnate da incertezze nel credere, da mancanza di appartenenza alla Chiesa, da rigetto delle immagini tradizionali di Dio e della morale cattolica. La loro terra è “la terra di mezzo”, senza le polarizzazioni dell’ateismo o della militanza religiosa. Le analisi, non solo sociologiche ma anche ecclesiali, che Armando Matteo e Alessandro Castegnaro hanno proposto, ci ammoniscono da tempo sul cammino da percorrere.
Non siamo ingenui e sprovveduti, né entusiasti, ma crediamo che, anche in questa situazione, sia possibile avere fiducia per il futuro del Vangelo. Infatti, anche se oggi il discorso su Dio è diventato addirittura un ostacolo alla fede, anche se la Chiesa con le sue miserie e fragilità non gode di buona fama, tuttavia il Vangelo e Gesù Cristo continuano a intrigare e ad affascinare i nostri contemporanei. È significativo che, oggi, l’ateismo militante abbia conosciuto una “dolce morte”, che gli atei non si professino più tali, che i non credenti confessino di “credere”. E che, in ogni caso, tutti mostrino nei confronti di Gesù di Nazaret grande attenzione, simpatia, interesse. È emblematico che un libro di Massimo Cacciari su Maria e una sua recente intervista sul Natale autentico di Gesù, abbiano avuto grande eco nella società, oltre che presso i cristiani.
Questo è un tempo favorevole per un’evangelizzazione che non sia proselitismo, né propaganda né arrogante apologia, ma una proposta semplice e chiara del Vangelo, nient’altro che del Vangelo. Quali sono, dunque, le urgenze per la Chiesa? Innanzitutto, credo sia necessaria una conversione di prospettiva. Siamo abituati a pensare il cristianesimo come un’eredità del passato da conservare gelosamente, impedendo ogni possibile impoverimento e discontinuità. La Chiesa è cattolica non solo nell’estensione sulla terra, ma anche nel tempo: dalla Pentecoste fino a noi, la Chiesa è una comunione che non può smentire sé stessa, né amputare le sue radici. Resta però vero che, come scriveva profeticamente Aleksandr Men’, «il cristianesimo non fa che iniziare, ogni giorno inizia». Occorre che noi pensiamo il cristianesimo come inadempiuto, non ancora realizzato; un cristianesimo che sappia esplorare nuove vie nella storia e nella società, che entri in consonanza con le domande degli uomini e delle donne di oggi, i quali sono soprattutto in ricerca di senso.
Si tratta di non avere paura di andare al largo, verso nuovi lidi che ci permetteranno di sperimentare nuovi modi e stili di vivere il Vangelo, nuovi modi di invocare Dio, nuovi linguaggi per dire la nostra speranza nell’amore più forte della morte. La società fondata sull’immagine di un Dio che si imponeva come potenza assoluta, un Dio di cui non dubitavano né la filosofia né la cultura, è ormai alle nostre spalle, incapace di intrigare gli uomini. La parola “Dio” è diventata ambigua. E,quando ascolto i giovani, li sento associare Dio al fanatismo, al terrorismo, all’intolleranza. Nella migliore delle ipotesi, lo concepiscono come un’entità indefinita che tutte le religioni propongono, l’una in concorrenza con l’altra. I giovani di oggi hanno perso ogni interesse per Dio. Se per la mia generazione la formula quaerere Deum, “cercare Dio”, era fonte di grande passione, oggi solo attraverso un quaerere hominem, una ricerca dell’umano, si può instaurare un dialogo con i giovani, che non può non mettere in evidenza Gesù di Nazaret, colui che con la sua vita di uomo, pienamente umana, ha raccontato Dio.
La visione trionfante e autoritaria di Dio è ormai afona. E oggi mi pare urgente uscire anche dal paradigma che ha dichiarato la sua morte. Di fatto, abbiamo la grazia di essere stati liberati da assetti religiosi venati di idolatria, che davano al nostro Dio un volto “perverso”. I maestri dell’ateismo ci hanno obbligato a riscoprire, in altro modo, il Dio che pensavamo di conoscere bene; e a rileggerlo a partire dalle sante Scritture, in particolare dal Vangelo. Non bisogna, dunque, temere un cristianesimo inadempiuto, caratterizzato da novità che oggi non supponiamo. Dio continua a dirci: «Ecco, io faccio una cosa nuova. Proprio ora germoglia, non ve ne accorgete?» (Is 43,19). Il Signore viene per tutta l’umanità, chiedendole di vivere, com’è venuto nella carne di Gesù di Nazaret «per insegnarci a vivere in questo mondo» (cf Tt 2,12). Quando parla di “Chiesa in uscita”, Francesco indica anche una Chiesa aperta al futuro, al nuovo, al non preventivato.
In questa conversione pastorale occorrerà battere strade inedite, correndo il rischio di una nuova enunciazione della fede. Si tratta non solo di rinnovare il linguaggio ma, più in profondità, di osare – come fece l’apostolo Paolo – un’operazione transculturale, in modo che la salvezza, la liberazione portata da Cristo e il messaggio della sua resurrezione siano esprimibili ed eloquenti oggi nelle diverse culture. Per questo è richiesta grande fiducia nel popolo di Dio, popolo profetico, cioè chiamato a parlare a nome di Dio all’umanità. Dare fiducia al popolo di Dio significa essere veramente convinti che a ogni battezzato spetti la missione di testimoniare ed evangelizzare, e che a ogni cristiano spetti il compito di edificare la Chiesa, la quale ha come suo primo nome “fraternità”. Se la comunità cristiana riesce a essere fraternità, grembo dell’amore di Dio, e dunque maternità generatrice, il Vangelo potrà compiere la sua corsa nel mondo, con esiti imprevedibili mai spirati dallo Spirito e da lui resi dinamici ed efficaci.
Tutto questo, sempre accompagnato dalla convinzione fondamentale, essenziale: ieri, oggi, sempre occorre guardare a Gesù di Nazaret, al suo stile, fonte di ispirazione in ogni tempo e in ogni terra. Quando egli riesce a emergere con la sua autorevolezza, con la sua coerenza tra il parlare, l’operare e il sentire, allora gli uomini e le donne sono attirati. Sì, attirati, secondo la sua promessa: «Quando mi vedranno nell’atto di dare la vita e di affermare solo l’amore, contro ogni inimicizia e violenza, di affermare il perdono invece della vendetta, allora si sentiranno tutti attirati da me» (cf Gv 12,32).