Enzo Bianchi Il nostro Dio si rivela attraverso il povero e lo straniero
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Oltre alle parole di saluto e di augurio di Papa Francesco, è stato letto il messaggio inviato dal cardinale presidente del Pontificio Consiglio per la promozione dell’unità dei cristiani, Kurt Koch, che ha rilevato come il tema del convegno tratti del «cuore della spiritualità cristiana» e sia «essenziale» nelle «relazioni ecumeniche». Il porporato sottolinea poi come «oggi la questione dell’ospitalità è una delle principali sfide delle società contemporanee alle porte delle quali bussano tanti uomini e donne costretti a lasciare il loro paese». Sfide a cui, sia livello personale che politico, occorre rispondere con «scelte etiche» guidate da «convinzioni» e applicate con «responsabilità». Una strada, ricorda il cardinale Koch, già indicata con efficacia dal Pontefice, dal patriarca ecumenico Bartolomeo e dall’arcivescovo greco-ortodosso di Atene, Ieronymos, nella dichiarazione congiunta firmata a Lesbo il 16 aprile 2016, nella quale «hanno dimostrato che la vera responsabilità non è limitare l’ospitalità, ma al contrario di estenderla, e al contempo rispondere alle cause stesse che portano uomini e donne a lasciare le loro case per cercare migliori condizioni di vita». In modo simile, ha aggiunto il porporato, Papa Francesco e il patriarca di Mosca Cirillo, nella loro dichiarazione congiunta del 12 febbraio 2016, «chiamavano a risolvere soprattutto le cause delle migrazioni, siano i diversi conflitti o l’ineguale distribuzione delle ricchezze». In questo senso, ha spiegato, tali recenti dichiarazioni «mostrano che le la questione delle migrazioni e dell’ospitalità è un tema essenziale delle relazioni tra cattolici e ortodossi e, in generale, delle relazioni ecumeniche». Una sottolineatura presente anche nel messaggio inviato dal patriarca Cirillo, il quale ricorda come «le tradizioni dell’ospitalità degli stranieri continuano a vivere e a svilupparsi anche al nostro tempo, sia nella Chiesa ortodossa russa, sia nelle altre chiese, in risposta al comandamento dell’amore per il prossimo». Aggiungendo che «un chiaro esempio di ospitalità cristiana è quello che mostra oggi il monastero della Trasfigurazione di Bose, che è diventato una casa accogliente per i rappresentanti delle diverse chiese e comunità, collaborando al dialogo tra i cristiani e alla comprensione reciproca». I lavori sono proseguiti con la prolusione del patriarca Bartolomeo, l’intervento del patriarca greco-ortodosso di Alessandria, Teodoro II, e con la relazione sui «fondamenti teologici dell’accoglienza allo straniero» affidata al fondatore di Bose, della quale pubblichiamo ampi stralci.
Nella ricerca biblica sul tema dello straniero è consueto sottolineare lo statuto dello straniero nella legislazione di Israele, nella quale indubbiamente sono affermati rispetto e protezione, innanzitutto per ragioni culturali comuni all’ambiente mediorientale, che considerava sacra l’ospitalità. In Israele ciò era dovuto anche a ragioni storiche, essendo stato il popolo di Dio «straniero» in Egitto e «nomade» per molte generazioni, nonché a ragioni teologiche, perché Dio veniva confessato come «amante dello straniero» (cfr. Deuteronomio, 10, 18). Ma mi pare necessario mettere in evidenza soprattutto la dimensione rivelativa della condizione di stranierità, testimoniata a partire dal libro dell’Esodo. La rivelazione di Dio a Mosè, dunque a Israele come popolo, avviene in un contesto preciso, contrassegnato da stranierità, oppressione e povertà. C’è un’etnia, quella dei figli di Israele, che dimora in Egitto come straniera, subisce oppressioni e persecuzioni, perciò fa salire il lamento, eleva il suo grido. In risposta, Dio si rivela come “colui che ascolta il grido e conosce”, cioè penetra il bisogno umano e se ne prende cura nel suo amore. I rabbini sottolineano con finezza che quel gemito non è preghiera, non è rivolto in primo luogo a Dio, ma è un gemito umano di sofferenza. Ebbene, proprio a questo gemito il Signore risponde, perché ascolta il bisogno e la sofferenza, e di conseguenza interviene nella storia con una conoscenza che è una “presa in cura”, che è amore efficace. Per questo, nella rivelazione del roveto ardente a Mosè il Signore ribadisce: «Ho visto la miseria del mio popolo in Egitto, ho ascoltato il suo grido a causa dei suoi aguzzini: conosco le sue sofferenze, sono sceso per liberarlo» (Esodo, 3, 7-8).
Accanto a questa rivelazione del “Dio dei poveri e degli stranieri”, va necessariamente colta quella del “Dio ospitante”. Dio discende e si pone dalla parte degli stranieri per liberarli e donare loro «una terra dove scorrono latte e miele» (Esodo, 3, 8.17; 13, 5; 33, 3). Israele riceve la terra da Dio e perciò non può possederla ma solo accoglierla come dono, nella consapevolezza di essere ospitato da Dio stesso, senza averla perciò in proprietà, senza farne un luogo di cittadinanza. Questo per Israele è «un modo di stare al mondo» diverso da quello di tutti gli altri popoli, è un modo altro che rende Israele altro, santo-distinto (qadosh), come Dio è santo: «Siate santi perché io, il Signore Dio vostro, sono santo» (Levitico, 19, 2; 1 Pietro, 1, 15-16); santi accogliendo, per esempio, la dinamica del sabato, giorno distinto dagli altri e perciò santo. Al cuore della “legge di santità” ecco allora risuonare il comando: «Quando si troverà a dimorare con te uno straniero nel vostro paese, voi non vi approfitterete di lui: come un nativo del paese sarà per voi lo straniero che dimora con voi; tu l’amerai come te stesso, poiché siete stati stranieri in terra d’Egitto. Io sono il Signore vostro Dio» (Levitico, 19, 33-34).
Se la condizione di povertà e di stranierità è stata un “luogo teologico” nella rivelazione di Dio, tanto più diventa necessaria per la rivelazione del Dio fatto carne in Gesù Cristo. Non è un caso che la nascita di Gesù a Betlemme avvenga proprio nel segno del dramma dell’ospitalità — «non c’era posto per loro nel caravanserraglio» (Luca, 2, 7) — e che egli sia dunque costretto a venire al mondo per strada, in una stalla, deposto poi in una mangiatoia. E come dimenticare che Gesù dovrà ben presto conoscere la condizione di esiliato in terra d’Egitto, a causa della persecuzione da parte di uno dei potenti di questo mondo?
L’immagine più evidente di Gesù quale straniero appare nel vangelo secondo Luca, nel racconto dell’incontro con i due discepoli incamminati verso Emmaus (cfr. Luca, 24, 13-35). Dopo l’uccisione e la sepoltura di Gesù, «profeta potente in opere e in parole», come alla fine di una storia due suoi discepoli abbandonano Gerusalemme e la comunità per dirigersi verso il villaggio di Emmaus. Mentre costoro discutono animatamente, Gesù si accosta, cammina con loro come uno sconosciuto e appare ai due come uno straniero che non conosce nulla di ciò che è avvenuto (cfr. Luca, 24, 18). Poi, improvvisamente, lo sconosciuto-straniero risponde rivelando la necessitas di quella morte, ma anche questa esegesi non svela la sua identità. Giunti a destinazione, egli sembra voler continuare il suo cammino, ma vista la notte ormai vicina i due gli chiedono di restare con loro. E il racconto sfocia in questo celebre quadro: «Quando fu a tavola con loro, prese il pane, pronunciò la benedizione, lo spezzò e lo diede loro. Allora si aprirono loro gli occhi e lo riconobbero. Ma egli sparì dalla loro vista» (Luca, 24, 30-31).
È significativo che il riconoscimento del Risorto vivente non avvenga su un piano intellettuale, solo mediante la spiegazione delle Scritture, che peraltro faceva ardere il cuore dei suoi compagni di cammino (cfr. Luca, 24, 32), ma a tavola, nella condivisione del cibo, e soprattutto alla vista del suo gesto dello spezzare il pane, in una vera pratica di ospitalità che i discepoli avevano imparato stando con Gesù. Lo straniero si fa riconoscere come Gesù risorto: ecco una volta di più la stranierità, la paroikía come luogo di rivelazione. Nel volto dello sconosciuto, dello straniero, dell’altro è rintracciabile il volto del Cristo vivente.
Proprio per aver vissuto questa condizione di stranierità e di spogliazione, secondo la testimonianza concorde e polifonica dei vangeli, Gesù sa vedere anche al di là delle barriere costruite in nome della purità e regolate dalla Torah. Per questo, incontrando uno straniero come il centurione romano, può discernere in lui una fede trovata presso nessuno in Israele (cfr. Matteo, 8, 10; Luca, 7, 9) e dedurre che al banchetto messianico prenderanno parte anche stranieri venuti dall’oriente e dall’occidente, mentre alcuni eredi del Regno di diritto resteranno nelle tenebre, fuori (cfr. Matteo, 8, 1-12; Luca, 13, 28-29). In questo incontro di Gesù con il centurione vi è la rivelazione che non è l’appartenenza religiosa a introdurre nel Regno, ma l’autenticità, la sincerità della fiducia personale.
Anche l’incontro di Gesù con una donna cananea, siro-fenicia, avvenuto in terra straniera, è molto significativo (cfr. Marco, 7, 24-30; Matteo, 15, 21-28). Egli sa che la sua missione è rivolta alle «pecore perdute della casa d’Israele» (Matteo, 15, 24), che deve adempiere la promessa di Dio fatta ai padri, ma l’ascolto di quella straniera, che testardamente chiede la guarigione della figlia e mostra fiducia nella misericordia di Dio, suscita in lui il grido: «Donna, la tua fede è grande!» (Matteo, 15, 28). In tal modo, Gesù comprende e annuncia una volta di più che la grandezza della fede non dipende da confini confessionali, dalle frontiere tracciate dalle dottrine. La cananea è veramente straniera, non avrebbe nessun diritto di ricevere il dono del pane del Regno, ma di fatto costringe Gesù a mutare atteggiamento e a donare gratuitamente ciò che era venuto a portare come salvezza.
Alla luce dell’itinerario percorso, comprendiamo bene l’affresco del giudizio finale, del giorno del Signore (cfr. Matteo, 25, 31-46). Quando il Figlio dell’uomo verrà nella gloria, la rivelazione finale e definitiva mostrerà che lui stesso nella storia è stato l’affamato, l’assetato, lo straniero, il malato, il prigioniero che ogni uomo ha incontrato, restandogli indifferente oppure esercitando nei suoi confronti misericordia. Su questa scelta ognuno di noi sarà giudicato, questo l’ultimo esame della vita cristiana. C’è una sacramentalità esistenziale del Signore Gesù Cristo che purtroppo noi dimentichiamo, mentre affermiamo con forza e fede la sua sacramentalità liturgica. Ma questa è schizofrenia spirituale che può essere causata solo da un cuore malato di sclerocardia e diventato purtroppo insensibile alla parola di Dio e all’immagine di Dio presente nell’essere umano.
Come ricorda l’autore della Lettera agli Ebrei, «alcuni, praticando l’ospitalità, senza saperlo hanno accolto degli angeli» (13, 2), hanno accolto Dio stesso (cfr. Genesi, 18, 1-16). L’orizzonte escatologico che Gesù ha tracciato, l’orizzonte del giorno del Signore, deve essere costantemente ricordato, perché l’incontro con Dio e la comunione con lui qui sulla terra sono la nostra vita e la nostra salvezza eterne. L’accoglienza, l’ospitalità verso gli stranieri è uno dei parametri del giudizio finale. L’altro, il radicalmente altro da me, che era lontano e ora mi è vicino, prossimo, è rivelazione del Dio vivente, è sacramento di Cristo.
Fonte: L'Osservatore Romano
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