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Fulvio Ferrario Protestanti nell’Europa secolarizzata

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L'Osservatore Romano del 22 agosto 2017

Quale futuro per le comunità ecclesiali nate dalla Riforma in un’Europa sempre più “areligiosa”?
È l’interrogativo a cui, nell’occasione del quinto centenario luterano, intende rispondere l’analisi del decano della facoltà valdese di teologia di Roma in un articolo uscito su «La Rivista del Clero Italiano», del quale riprendiamo ampi stralci.

Il cristianesimo protestante si è sempre posto in un dialogo particolarmente serrato con la società. L’uscita di Lutero dal convento non aveva, nelle intenzioni, nulla di secolaristico: si trattava, al contrario, di portare nel mondo la sfida dell’evangelo. Essa, secondo la Riforma, non dovrebbe tradursi in un cristianesimo “a due velocità”, uno per chierici e religiosi e l’altro per i laici. La pluralità di chiamate specifiche costituisce un’articolazione dell’unica vocazione battesimale. Esiste, certamente, un ministero della parola, che però non è concepito come sacerdozio ministeriale (anche perché la cena del Signore o eucaristia non è ritenuta un “sacrificio”). La Chiesa testimonia Cristo nel mondo mediante la predicazione e il servizio secolare dei suoi membri.
Il tema “Chiesa e società” si declina, in suolo protestante, in termini abbastanza specifici e il paradigma dominante, variamente articolato, è quello di una Chiesa immersa nella società, che la influenza e ne è influenzata in termini spesso osmotici.
Nei paesi nei quali quella evangelica è stata “Chiesa di popolo”, essa ha in realtà vissuto vicende abbastanza analoghe al cattolicesimo: si è cioè formato, nelle comunità, un nucleo di membri “impegnati” e, intorno a esso, un ampio ambito di persone con un chiaro riferimento alla Chiesa, ma espresso in termini diversi rispetto, per esempio, alla partecipazione al culto. Tale atteggiamento, nell’Ottocento e
nel primo Novecento, è anche assurto a dignità teorica nel cosiddetto “protestantesimo culturale” (Kulturprotestantismus): una visione del mondo e dell’etica ben strutturata, ricca di elementi teologici, di una competenza biblica di solito non banale e abituata a pregare, ma fondamentalmente orientata all’impegno nella società. Si tratta di un fenomeno essenzialmente borghese, condiviso da diversi ambienti aristocratici. L’espansione del proletariato industriale trova abbastanza impreparate anche le Chiese evangeliche. L’obiettiva tendenza a una accentuata secolarizzazione, che questo modello porta con sé, è compensata dai movimenti detti di “risveglio”, che intendono rafforzare il nucleo centrale delle comunità mediante un’intensificazione della dimensione biblica, liturgica, orante, meditativa.
A volte tali movimenti si cristallizzano in nuove formazioni ecclesiali: è il caso, ad esempio, del metodismo nell’Inghilterra del XVIII secolo.
Già nel Novecento si constata che, a parità di situazione sociologica, la secolarizzazione erode le Chiese evangeliche più velocemente di quanto faccia con la Chiesa cattolica. Le ragioni sono molteplici: molte di esse sono riconducibili alla maggiore ricchezza rituale del cattolicesimo, che sembra aiutare la Chiesa a mantenere un rapporto comunicativo di qualche tipo anche con persone e gruppi ormai abbastanza estranei al linguaggio della predicazione e alla pratica sacramentale in senso stretto. L’annuncio protestante nel secondo Novecento ha comunque la stessa struttura di fondo (naturalmente con tutte le varianti dovute al diverso assetto ecclesiale) di quello del cattolicesimo successivo al Vaticano II e che abbiamo collocato nella grande tradizione che potremmo definire “apologetica”, ispirata ad Atti degli apostoli, 17,23. Si è trattato, nell’insieme, di un tipo di annuncio che si rivolge anzitutto alla dimensione consapevole dell’esperienza di fede, articolato mediante íl linguaggio del “senso”. Sembra che, nella costellazione tardo-moderna, le difficoltà di questo modello di annuncio si siano radicalizzate. L'opinione pubblica religiosa, infatti, si dichiara refrattaria al tema del “senso”.
Paradossalmente, anche la lunga tradizione ecumenica e l’atteggiamento dialogico delle chiese protestanti contribuiscono, almeno da un certo punto di vista, alla loro debolezza.
Essi vengono a volte interpretati come elementi di incertezza identitaria e anche dottrinale. Nella competizione del mercato religioso si presentano con forza assai maggiore i movimenti “evangelicali” o “neoprotestanti”, che propongono modelli teologici estremamente semplificati. In alcuni casi, tale semplificazione giunge a esiti estremamente problematici di tipo brutalmente “binario”: giusto-sbagliato, dentro-fuori, salvezza-disperazione.
Una sorta di manicheismo casareccio camuffato da radicalità evangelica, che comunque sembra affascinare gruppi abbastanza ampi.
Un fenomeno che ha coinvolto, negli ultimi anni, diversi paesi europei (Paesi Bassi, Francia, Belgio) costituisce probabilmente la reazione più energica e consiste nell’unificazione organica di chiese riformate e luterane.
Nell’ecclesiologia protestante, il raggiungimento di un’unione strutturale non rappresenta l’unica forma possibile di pienezza della comunione, ma certamente può contribuire a semplificare il quadro istituzionale e a risparmiare risorse finanziarie. Gli effetti positivi sull’efficacia della testimonianza, tuttavia, non sono automatici e non è affatto detto che l’unione di due organizzazioni in difficoltà si traduca in un rafforzamento. Comunque questi processi di unificazione esprimono un tentativo piuttosto robusto di presa d’atto della realtà. Essi andrebbero accompagnati da forme di ripensamento teologico che, se pur sono in atto, si manifestano ancora piuttosto timidamente.
La scadenza del 2017 mobilita molte energie. Alcune voci critiche, provenienti da fronti anche piuttosto diversi, esprimono il timore che la celebrazione prevalga sulla riflessione autocritica e sulla programmazione. Bisogna auspicare che così non sia. Il nucleo di una proposta pastorale per un protestantesimo europeo in difficoltà è presto detto: alla contrazione quantitativa deve corrispondere, non fosse che per ragioni sociologiche, un’intensificazione qualitativa. Il modello della Chiesa di popolo, con un tasso di impegno medio non elevatissimo, può reggere solo con grandi numeri e in una situazione nella quale il ruolo sociale della Chiesa, il suo prestigio pubblico e la sua capacità di essere, in ogni caso, un fattore di orientamento, non siano messi seriamente in discussione. Nella condizione in parte areligiosa e in parte postsecolare che caratterizza l’Europa, appare piuttosto difficile che le chiese continuino a lungo a godere di tali rendite di posizione. Può essere che alcuni paesi (per esempio l’Italia per il cattolicesimo) offrano una maggiore resistenza alle dinamiche secolarizzanti, ma nel permanere di una tendenza di fondo. Mi sembra essenziale accettare questo ruolo di minoranza come una possibilità e non solo come un destino. Non sono poche le chiese che si attardano nella difesa di situazioni ormai superate. Si tratta di una battaglia di retroguardia, che ha una sua dignità, nient’affatto superficiale, ma che non considererei raccomandabile. Preferisco accettare la condizione di minoranza come parte della vocazione che Dio rivolge alla sua Chiesa. Se l’essere minoranza è una condizione, l’essere “consap evole” è un compito: utilizzo questo aggettivo in quanto mi appare più modesto di “confessante”, ma il significato è sostanzialmente lo stesso. Il compito di questa minoranza è la testimonianza di Cristo, in parole e opere. Esso non è diverso da quello della Chiesa di massa, che a modo suo lo ha svolto. La minoranza consapevole non è un reparto scelto, che si distingue per un livello spirituale particolare. È però un gruppo di uomini e donne che si sa portatore di un messaggio non omogeneo a quelli socialmente egemoni e che sa comportarsi di conseguenza.
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