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Rosanna Virgili Un amore viscerale La misericordia nella Bibbia

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Amare a doppio filo
Un Dottore della Legge venne un giorno ad interrogare Gesù: “Maestro cosa devo fare per ereditare la vita eterna?”. Gesù gli rispose: “Cosa è scritto nella Legge? Cosa vi intendi?” Quegli rispose: “Amerai il Signore tuo Dio con tutto il tuo cuore, con tutta la tua anima, con tutta la tua forza, con tutta la tua mente e amerai il prossimo tuo come te stesso” (Lc 10,25-28). Quell’uomo aveva ragione e Gesù glielo riconobbe: nell’amore consiste la fedeltà a Dio, da cui si eredita la vita eterna. L’amore decide del destino della nostra vita.
Ma amare Dio e amare il prossimo sono inscindibili: ci vogliono ambedue! Ciò vuol dire che amare non sia qualcosa che si esaurisca in un’intima esperienza spirituale, in una semplice relazione interiore in cui sono io e il mio Dio, ma chieda l’apertura al prossimo, alle persone in carne ed ossa. L’amore si deve incarnare, deve diventare gesti concreti, atti di coraggio, coinvolgimenti spesso scomodi con la comunità umana. Chi vuole ereditare la vita eterna non può sfuggire ad una decisione: quella di abbracciare il corpo dell’altro.
La naturalezza dell’amore
L’esempio che viene da Gesù è straordinario circa la dinamica dell’amore: essa è un trasporto che esce dalle viscere! Gesù non ubbidisce a un comandamento, non segue un imperativo morale quando ama, ma si lascia semplicemente trascinare da un impeto naturale, da una spinta che sale dal basso del suo corpo. Quando un lebbroso gli si avvicina per chiedergli di guarirlo, Gesù non ci pensa due volte e tocca la carne di lui, per restituirgli la salute. Semplice come il sole e spiazzante come la meraviglia, è questo gesto spontaneo di Gesù!
Avrebbe potuto provare ribrezzo di fronte ai lacerti delle membra del lebbroso; avrebbe potuto essere nauseato dall’odore cattivo delle sue piaghe.
Avrebbe potuto preoccuparsi di restare nei canoni della Legge che vietava il contatto col lebbroso. Avrebbe potuto arretrare dinanzi all’avvicinarsi di quell’uomo malato, temendo di esserne contagiato.
Avrebbe potuto giudicare maledetto quell’uomo e caricare sulle sue colpe la responsabilità della sanzione di Dio e lasciarlo isolato e distante, come facevano i pii giudei. Tutte queste reazioni sarebbero state non soltanto possibili, ma anche comprensibili e perfino dovute, invece Gesù si lascia prendere da quella più forte, da un “morso” che avverte alle viscere e che lo spinge a toccare, ad abbracciare il lebbroso. “Lo voglio, sii guarito!” è la sua certezza! (Mc 1,41-42).
Gesù, vedendo quella creatura deforme e infelice, un vero e proprio cadavere ambulante, provò un brivido nel profondo della sua intimità, una fitta di desiderio e di dolore che lo rese capace di rigenerare quella creatura alla vita.
L’umanità della misericordia
La reazione di Gesù dinanzi al suo prossimo, l’amore concreto e assoluto che lo lega ad esso non è solo la manifestazione della sua natura divina, ma anche un segno della sua umanità. Il suo è, per noi, un chiaro messaggio: la più autentica natura umana non è quella della violenza, dell’egoismo, della paura dell’altro, del rifiuto e dell’indifferenza, ma, al contrario, è quella dell’amore verso il prossimo, del desiderio di aiutare l’altro, di accoglierlo, soccorrerlo, toccarlo, amarlo.
Questa è una verità che non dovremmo mai dimenticare: nell’intimo delle nostre viscere, sia maschili, sia femminili, c’è, prima di tutto, la spinta dell’amore verso l’altro, il desiderio di dare e condividere la vita. Purtroppo siamo portati a credere il contrario, a vedere, cioè, soltanto l’istinto alla violenza, al disamore, all’individualismo egoista e alle braccia conserte, piuttosto che aperte, al volto del prossimo. Tutto ciò è, al contrario, la corruzione della più genuina umanità.
Nelle nostre viscere c’è voglia di amore e forza di vita e incontrare un “Figlio dell’uomo” è ciò che ci aiuta a crederci ed a farlo. Dobbiamo recuperare quell’umanità che è iscritta nella parte più umile e potente della nostra carne. Proprio la capacità dell’amore e della tenerezza verso chi si trovi nel bisogno è quanto ci qualifica come figli di Dio, ma anche come autentici esseri umani.
Fare misericordia significa riflettere sul cinismo morale e sociale in cui spesso vediamo cadere i nostri simili. Molti di noi sono diventati refrattari alla vita comune, affatto disinteressati al destino ed al bene del prossimo. Una perdita di umanità che ha bisogno di essere curata. Ad aver bisogno di misericordia siamo tutti noi, quando lasciamo che l’egoismo e la cupidigia ci rendano ottusa l’anima.
L’arte di amare
Nell’Amoris Laetitia, Papa Francesco parla del coniuge come del prossimo. Stupende sono le sue parole quando descrive l’amarsi della coppia. Un quadro di perfetta “misericordia”. Innanzitutto: “L’amore tutto scusa, tutto crede, tutto spera, tutto sopporta”, dice citando l’Inno all’Amore di Paolo (cf 1Cor 13,7).
L’amore di coppia è palestra di pazienza, di allargamento di orizzonti, di umiltà, ancorché di “stile”: “Amare significa anche rendersi amabili. Vuole dire indicare che l’amore non opera in maniera rude, non agisce in modo scortese, non è duro nel tratto. I suoi modi, le sue parole, i suoi gesti, sono gradevoli e non aspri o rigidi. Detesta far soffrire gli altri” (AL 99).
La vita di coppia è una prestigiosa scuola di amore, dove: “in mezzo ad un conflitto non risolto e benché molti sentimenti confusi si aggirino nel cuore, si mantiene viva ogni giorno la decisione di amare, di appartenersi, di condividere la vita intera e di continuare ad amarsi e perdonarsi” (AL 163).
E un altro impegno da non dimenticare è quello verso le altre coppie, specialmente le più ferite: “non condannare eternamente nessuno; effondere la misericordia di Dio, evitare giudizi che non tengano conto della complessità delle diverse situazioni; è necessario essere attenti al modo in cui le persone vivono e soffrono a motivo della loro condizione” (AL 296).

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