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Lidia Maggi Un giorno una parola agosto 2016

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22 agosto 2016 commento a Giovanni 12, 46

Sì, tu sei la mia lampada, o Signore, e il Signore illumina le mie tenebre
II Samuele 22, 29

Gesù dice: «Io sono venuto come luce nel mondo, affinché chiunque crede in me, non rimanga nelle tenebre»
Giovanni 12, 46


Mi capita di svegliarmi molto presto la mattina, qualche ora prima che il sole sorga. Mi piace scrivere o leggere, mentre in casa tutto tace, e attendere che la stanza si illumini con i primi raggi di sole. Il miracolo della nuova luce, capace di scacciare le tenebre, si compie ogni mattina. Attendo con fiducia il sorgere del sole, sapendo che le tenebre non rimarranno a lungo. Mi piacerebbe avere la stessa fiducia nel mio cammino di fede: imparare ad attendere, nelle situazioni tenebrose della vita, che la luce divina mi rischiari, come lampada, per attraversare le difficoltà; e nella confusione, nello smarrimento, ritrovare chiarezza. In ogni situazione difficile, vorrei saper aspettare che il Signore illumini le mie tenebre, come all’inizio ha illuminato il mondo. Illuminare le tenebre è l’atto originario che Dio ha compiuto per chiamare alla vita. La fede non è altro che questo: venire alla luce per avere vita piena. E tuttavia, una fede che nega le tenebre, le situazioni di smarrimento, di paura, di abisso e dolore, può dare alla testa, come il sole estivo a mezzogiorno. Le tenebre della vita vanno riconosciute, poiché sono il dato di partenza in cui agisce Dio. Ma una volta riconosciute, le tenebre non vanno assolutizzate. Vi è un reale rischio, spirituale ed esistenziale, di voler rimanere nelle tenebre e con esse costruire la nostra identità di persone ciniche e pessimiste, malati che non vogliono guarire. Ci si può innamorare del proprio dolore fino a costruire intorno ad esso un altare. Le tenebre dell’esistenza vanno riconosciute ma non per rimanervi, piuttosto per lasciarci sorprendere da quella luce che è in grado di diradarle, attraversandole insieme a noi.

23 agosto 2016 commento a Marco 2, 27

Lavora sei giorni e fa’ tutto il tuo lavoro, ma il settimo è giorno di riposo, consacrato al Signore Dio tuo; non fare in esso nessun lavoro
Esodo 20, 9-10

Il sabato è stato fatto per l’uomo
Marco 2, 27

Quando Israele, in Egitto, lavorava in condizioni disumane, senza interruzione, a ciclo continuo, non conosceva riposo e i giorni erano tutti uguali. È solo dopo la liberazione che il popolo poté accogliere il dono del sabato, quel modo diverso di abitare il tempo, da persone libere; solo allora i suoi orecchi furono pronti ad accogliere quel precetto che sancisce il diritto al riposo di tutti, anche degli animali. Nell’orizzonte di questa differente concezione del tempo, la vita non è tutta assorbita dalla necessità di produrre. C’è un tempo per ogni cosa, anche per il riposo e la festa. Ma per poter rispettare il sabato, la condizione necessaria è data dall’essere effettivamente liberi; ovvero, dall’essere nella condizione di potersi fermare e riprendere il lavoro, di poter mangiare e godere dei beni guadagnati. Per poter rispettare il precetto del sabato, bisogna prima di tutto avere il lavoro! Forse, c’è anche questo nella dura critica che Gesù muove ai suoi contemporanei a proposito dell’osservanza del sabato. Facile dire: «c’è un ritmo, rispettalo», se poi il salario è così basso che fermarsi significa non guadagnare il necessario per vivere. Come si può affermare che bisogna riposarsi dal proprio lavoro, come Dio si è riposato dalla creazione del mondo, se si lavora con il ricatto di perdere il lavoro, nel caso non si rispettino le tabelle produttive? E come fanno a riposarsi dal lavoro quelli che lavoro non hanno: i giovani disoccupati, i precari, gli stranieri e le tante donne il cui lavoro non viene riconosciuto? In nome della crisi, oggi, si disumanizza il lavoro. Si lavora male, senza diritti, sottopagati, in condizioni di sicurezza precaria, sotto ricatto di licenziamento. Riscoprire il sabato, il sabato per l’uomo, significa anche questo: vigilare e lottare perché vengano garantite condizioni di lavoro umane, nella società in cui predichiamo il Dio che salva e libera. Non è la società secolarizzata ad averci rubato il giorno del Signore, ma il cinismo di chi ricerca il profitto ad ogni costo e trasforma il lavoro in esperienza alienante, che nulla ha a che vedere con il gesto creativo con cui Dio ha messo in moto il mondo.

24 agosto 2016 commento a I Tessalonicesi 5, 14-15

Seminate secondo giustizia e farete una raccolta di misericordia
Osea 10, 12

Vi esortiamo, fratelli, ad ammonire i disordinati, a confortare gli scoraggiati, a sostenere i deboli, a essere pazienti con tutti. Guardate che nessuno renda ad alcuno male per male; anzi cercate sempre il bene gli uni degli altri e quello di tutti
I Tessalonicesi 5, 14-15

Come è difficile vivere un’esperienza comunitaria! La chiesa è un laboratorio per imparare a limare le proprie spigolature, una famiglia dove ci si scopre fratelli e sorelle senza esserci scelti. La conflittualità può essere alta ed è richiesta tanta pazienza. Ma essere pazienti non significa accettare tutto, in nome di un’ipotetica armonia. Pazienza non è far finta di niente o sopportare tutto, ma avere tempo per tutti, un tempo necessariamente differente. La madre sa che il neonato ha bisogno di continue cure. Il suo pianto è un richiamo che può trasformarsi in angoscia, se non è ascoltato immediatamente. Il tempo e le energie materne saranno necessariamente pilotati nell’accudire i bisogni del neonato. Se però quella madre non cambia la modalità di relazione quando il piccolo cresce, pronta a soddisfare pazientemente ogni bisogno ancor prima che venga espresso, quella donna combinerà danni educativi: non permetterà a suo figlio di crescere, invadendone gli spazi, non rendendolo autonomo.

La pazienza evangelica, più che essere l’arte di saper sopportare ogni cosa (questo è masochismo!), è la capacità di ricercare di continuo il bene degli altri.

Per essere pazienti, bisogna prima di tutto saper ascoltare. Capire dove è l’altro nel momento in cui si relaziona con te; e lavorare per ristabilire la giusta realtà, che non necessariamente è realtà uguale per tutti. I disordinati devono essere aiutati a fare ordine nella propria vita, gli scoraggiati vanno aiutati a ricercare le motivazioni perdute, i deboli vanno sostenuti affinché diventino forti e possano sostenere altri.

Quando la chiesa è laboratorio di pazienza dove si ricerca il bene di tutti, allora si semina giustizia e si raccoglie misericordia.

25 agosto 2016 commento a Luca 10, 20

Le mie labbra esulteranno, quando salmeggerò a te
Salmo 71, 23

Rallegratevi perché i vostri nomi sono scritti nei cieli
Luca 10, 20

Conosci la paura di attraversare la vita come una meteora, senza lasciare segno? Il sospetto di aver vissuto invano che ti porta a fare a tutti i costi qualcosa: progettare, ristrutturare case da lasciare ai figli, o a scrivere memorie? Il desiderio di farsi un nome è antico come il mondo e sembra attraversare ogni creatura umana. Ce ne parla il mito di Babele, che mette in scena il progetto di costruire una torre per arrivare a scrivere il proprio nome nel libro della vita: «Venite, costruiamoci una città con una torre, la cui cima sia nei cieli, e facciamoci un nome, per non esser dispersi sulla superficie di tutta la terra» (Gen. 11, 4).

Chissà se le difficoltà che incontriamo nel portare altri al Signore non sono anch’esse legate all’ansia di farci un nome: la paura che le nostre piccole chiese si svuotino così che del protestantesimo e del suo modo particolare di vivere la fede, non ne rimanga traccia. Preoccupati di noi stessi, induciamo il sospetto di voler portare l’altro a Cristo più che per la sua salvezza per quella del futuro delle nostre chiese. Se questo ci accade, dobbiamo chiedere a Dio di soccorrerci e perdonarci.

Come liberarci dall’ansia di scomparire, dal desiderio di essere visibili come grattacieli (campanili)? Gesù dice ai suoi, inviati in missione, dispersi a due a due per le vie del mondo: «non vi rallegrate perché gli spiriti vi sono sottoposti, ma rallegratevi perché i vostri nomi sono scritti nei cieli» (Lc. 10, 20). Non dobbiamo temere l’invisibilità. Sono i nostri peccati ad essere scritti nella sabbia, mentre i nostri nomi sono custoditi nel cuore di Dio.

Oggi il vangelo ci raggiunge per annunciare alla sua Chiesa, dispersa in tutto il mondo, che non deve preoccuparsi di farsi un nome sulla terra, poiché è nell’anagrafe del cielo ad essere scritto il suo nome. Dio ci chiama alla missione per raggiungere altri, senza pensare troppo a noi stessi. Quando questa consapevolezza ci raggiunge, le nostre labbra esultano e il nostro annuncio diventa canto, preghiera, musica che arriva al cuore del mondo.

26 agosto 2016 commento a Ebrei 10, 35

Daniele fu tirato fuori dalla fossa e non si trovò su di lui nessuna ferita, perché aveva avuto fiducia nel suo Dio
Daniele 6, 23

Non abbandonate la vostra franchezza che ha una grande ricompensa!
Ebrei 10, 35

«Io sono una persona franca. Le cose non le dico dietro le spalle. Non ho paura a dire quello che penso. E se qualcosa non mi sta bene, lo dico forte e chiaro». Quante volte abbiamo sentito qualcuno parlare in questi termini; forse anche noi stessi abbiamo usato parole come queste per giudicare chi sparla alle spalle. Certo, il parlare in faccia, affrontando chiaramente le questioni, evita i mormorii e i commenti così disdicevoli in qualsiasi comunità, ma ancor di più nella chiesa di Cristo. E tuttavia, anche questo stile diretto ha i suoi risvolti dolorosi. In nome della franchezza, si buttano altri nella fossa dei leoni!

Perché dietro il dire senza mezzi termini quello che si pensa, il parlare a ruota libera, può nascondersi il diritto a ferire e giudicare l’altro. Sotto gli abiti delle persone «franche», possono insinuarsi fiere pronte a sbranare. Le nostre assemblee di chiesa, a causa di questo malinteso che confonde la franchezza evangelica con il diritto di dire tutto quello che si pensa, a volte si trasformano in incontri di pugilato. La franchezza diventa aggressione verbale, le parole sono pugni. Solo apparentemente il sistema di comunicazione è democratico: di fatto, prevarica il più forte e l’assemblea è tenuta in ostaggio da chi interviene più a lungo.

Questo tipo di franchezza mondana non va confusa con la franchezza evangelica, che è invece coerenza di vita e si esprime con atti e parole che fanno di noi testimoni credibili dell’evangelo. Il prezzo che si paga, a volte, è molto alto e può arrivare fino al martirio. Anche Gesù, che parlava e agiva con franchezza, è stato gettato nella fossa dei leoni della storia e non ne è uscito indenne come Daniele. Diventare persone franche può voler dire essere persone scomode, che disturbano coloro che gestiscono male il potere, ma può anche voler dire educarsi ad usare le parole con sapienza, conformando anche il nostro parlare allo stile richiesto da Cristo, che agiva e parlava con gentilezza.
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