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Emiliano Biadene Accoglienza dello Straniero

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Domenica 5 GIUGNO 2016 | BIBLIOTECA COMUNALE "Ugo Nomi Venerosi Pesciolini"

Via Folgòre, 17 - San Gimignano

"Comunità aperte e solidali per un futuro condiviso"


L’iniziativa è promossa dallo Sprar di Siena in collaborazione con l’Arci Provinciale di Siena e la Parrocchia Santa Maria Assunta di San Gimignano.

ore 17.30 Proiezione e presentazione del progetto fotografico “NoiSiamoSoloAndata” di Alessio Duranti
ore 17.45 “Accogliere: come e perchè?” Parliamone con:
- Sami Elshami, rappresentante del Centro Culturale Islamico di Colle Val d’Elsa
- fr. Emiliano Biadene, monaco del Monastero di Bose, Fraternità di Cellole
- Serenella Pallecchi, Presidente Arci provinciale di Siena

ore 18.45 Testimonianza di alcuni beneficiari del progetto SPRAR (Sistema di Protezione per Richiedenti Asilo e Rifugiati) residenti in provincia di Siena
ore 19.30 Trasferimento al Campino e cena multietnica a offerta libera

Relazione di Emiliano Biadene, monaco di Bose, responsabile della Fraternità di Cellole

Accoglienza dello Straniero

Introduzione

Perché noi ci troviamo radunati qui questa sera per parlare di accoglienza? Perché in Italia, come ormai in tutta l´Europa occidentale, ci troviamo di fronte a un consistente fenomeno immigratorio: milioni di uomini e donne appartenenti a mondi, etnie, culture, lingue, religioni diverse si trovano a vivere fianco a fianco tra loro nel nostro paese e nella nostra cultura. Fenomeno certo non nuovo quello della migrazione - basterebbe pensare all´emigrazione italiana da quando esiste lo stato unitario fino a pochi decenni or sono - ma nuova è la convergenza simultanea di diversi flussi migratori verso l´Europa.
E’ una situazione oggettivamente complessa e in noi emergono continuamente gli interrogativi più diretti: «Perché vengono da noi?», «Perché non possono restarsene a casa loro?», «Che ne sarà del nostro Paese, della nostra cultura, del nostro modo di vivere?».
La prima consapevolezza da assumere è che da sempre non è il pane che si muove verso i poveri, ma sono i poveri ad accorrere verso il pane; da sempre quando gli uomini hanno speranza di trovare una vita migliore altrove sono pronti a tentare l´avventura della migrazione, anche a costi umani altissimi.
E’ la sofferenza, la miseria, le carestie, i conflitti internazionali, le lotte etniche, l’insicurezza, le violenze che accentuano periodicamente la pressione verso l’emigrazione. In verità noi occidentali siamo corresponsabili di queste tragedie, di questi esodi che si concludono spesso per molti uomini e donne nell’essere sommersi nel Mediterraneo: responsabili in modo diretto e indiretto. Basti pensare alla distribuzione delle ricchezze e dei beni sul globo terrestre, o alle politiche internazionali dell’economia. Dovremo almeno avere il coraggio di chiedere perdono per quanti tra di noi europei arrivano a essere blasfemi verso queste tragedie che si ripetono ogni giorno, e arrivano al dileggio e al sarcasmo, come ascoltiamo ogni giorno nei mezzi di comunicazione dalle labbra di personalità pubbliche.

Paure a confronto

La prima consapevolezza da assumere è che la presenza degli stranieri desta in noi timori e paure, perché lo straniero è veramente e radicalmente altro da me, perché era lontano e ora è vicino, perché era sconosciuto e ora me lo trovo accanto. Ma va messa in conto non solo la “mia” paura, la paura di chi accoglie, ma anche e forse soprattutto la “sua” paura, la paura di chi arriva in un mondo estraneo, dove non è di casa, un mondo di cui conosce poco o nulla, un mondo che non gli offre alcuna protezione e in cui non sa muoversi.
Questo importante fenomeno migratorio crea un terreno scivoloso dove dominano due paure a confronto! E non basta invocare elementi ideologici, principi religiosi o etici per esorcizzare la paura. La paura non va derisa né minimizzata, né sublimata con discorsi troppo teorici, ma va presa sul serio, fronteggiata, razionalizzata: solo così possiamo capirla e vincerla. Essa va affrontata come presa di consapevolezza della distanza, della diversità, della non conoscenza e, quindi, della non affidabilità. La paura dell’altro è una sensazione paralizzante che va superata non  rimuovendola bensì assumendola.

I rischi della paura

Negare l’esistenza della paura porta con sé due rischi: l’assolutizzazione dell’altro oppure, al contrario, assolutizzare la propria identità. In entrambi i casi si dimentica che l’identità (intesa a vari livelli, personale, comunitario, sociale) si è sempre formata storicamente nell’incontro e si rinnova quotidianamente nell’incontro, nel confronto, nella relazione con gli altri, i diversi, gli stranieri. L’identità infatti non è statica ma dinamica, in costante divenire, plurale ed è un’illusione pensare che l’identità sia monolitica, perché è un tessuto costituito di molti fili e molti colori. Quando il fantasma dell’identità porta a ridurre le relazioni sociali alla materialità del dato etnico, all’omogeneità del sangue, della religione praticata, allora si arriva inevitabilmente a forme di politica, di cultura e di sentimenti intolleranti. Sono vie sterili che tendono all’esclusione dell’altro e si risolvono sempre in un autismo sociale, in cui si vive un auto-isolamento che si presume dorato ma che in realtà si risolve in un sistema chiuso, in uno spazio asfittico in cui può solo avanzare la barbarie.

Perché l’accoglienza?

Perché l’uomo è chiamato ad accogliere l’altro uomo? Perché l’essere umano è un essere relazionale; perché non c’è un uomo senza gli altri uomini, e ogni uomo fa parte dell’umanità, fa parte di una realtà in cui ci sono gli altri. E l’essere umano è in sé stesso relazione: basti pensare ai tre modi di relazione fondamentali, che permettono all’uomo di costruire la propria identità e di vivere:
- la relazione con se stesso, con il proprio intimo, cioè la vita interiore;
- la relazione con coloro che condividono la sua vita quotidiana: la famiglia, i parenti, gli amici, i vicini.
- la relazione con tutti gli altri, coloro che incontra sul suo cammino, i lontani, la società, il mondo
- infine, per i credenti, la relazione con Dio, alterità delle alterità.
È all’interno di questa complessità che occorre porsi la domanda: come percorrere i cammini dell’incontro, della relazione con gli stranieri?

Deontologia dell’incontro

Il riconoscimento dell’alterità  

Innanzitutto occorre riconoscere l’altro nella sua singolarità specifica, riconoscere la sua dignità di uomo, il valore unico e irripetibile della sua vita, la sua libertà, la sua differenza: è uomo, donna, bambino, vecchio, credente, non credente, ecc.

L’ascolto

Se c’è questo atteggiamento preliminare, allora diventa provare l’avventura dell’ascolto. E non lo si ripeterà mai abbastanza, ma l’ascolto non è un momento passivo della comunicazione, non è solo apertura all’altro, ma è atto creativo teso a instaurare una con-fidenza, una con-fiducia tra ospitante e straniero. L’ascolto è un sì radicale all’esistenza dell’altro come tale; nell’ascolto le rispettive differenze si contaminano, pèrdono la loro assolutezza, e quelli che sono dei limiti all’incontro possono diventare risorse per l’incontro stesso. Ascoltare uno straniero non equivale dunque a informarsi su di lui, ma significa aprirsi a una presenza, aprirsi al racconto che egli fa di sé, aprirsi all’umanità condivisa

Sentire insieme

Nell’ascoltare l’altro occorre rinunciare ai pregiudizi che ci abitano. Inutile negarlo, noi siamo abitati da pregiudizi ereditati dal passato e conseguenze della memoria collettiva. Si tratta quindi di sospendere le immagini di noi stessi e dello straniero e di riflettere criticamente sui condizionamenti culturali, psicologici, religiosi cui siamo soggetti.
E quando si sospende il giudizio, ecco che si appresta l’essenziale per guardare all’altro con occhi nuovi, (sym-pátheia), con un sentire insieme. L’ascolto richiede un atteggiamento che si nutra di un’osservazione partecipe la quale accetti anche di non capire l’altro, perché accogliere non è identificabile a comprendere.
Ognuno deve impegnarsi con umiltà a confrontarsi e a ricevere la verità che sempre precede ed eccede tutti: è proprio questo cammino condiviso verso la verità che può nutrire di senso la nostra vita. E’ su questo cammino comune che potrà manifestarsi l’umanità che è in noi: l’umanità condivisa.

Il dialogo

Quando avviene l’ascolto reciproco nel riconoscimento reciproco ecco che possiamo parlare di dialogo. È il dialogo che consente di passare alla condivisione dei valori dell’altro, non per farli propri bensì per comprenderli. Dialogare non è annullare le differenze e accettare solo le convergenze, ma è far vivere le differenze allo stesso titolo delle convergenze: il dialogo non ha come fine il consenso ma una reciproca accoglienza, un avanzare insieme, una reciproca comprensione.
Così nel dialogo si aprono strade inesplorate della conoscenza reciproca. Dia-lógos: parola che si lascia attraversare da una parola altra; è un cammino di conversione e di comunione; unica via efficace contro la violenza che nasce sempre da spazi dove è assente la parola scambiata.

La responsabilità

Scriveva Emmanuel Lévinas: “Io sono nella sola misura in cui sono responsabile dell’altro”. Ecco ciò che siamo chiamati a vivere nell’ascolto, nell’incontro e nel dialogo con gli altri, tutti gli altri anche lo straniero.
Incontrare l’altro significa porsi come responsabile di lui senza attendersi reciprocità.
La responsabilità verso l’altro si manifesta come una relazione asimmetrica in cui la reciprocità non è richiesta, una relazione disinteressata e gratuita. Così la vicenda dell’incontro con l’altro si fa epifania di humanitas, manifestazione di umanità condivisa e, per chi crede, incontro con Dio.

La fede cristiana

Il contributo dei credenti  potrebbe essere più incisivo e stimolante se tornasse a quelle radici ebraico-cristiane che tanto hanno  dato e ancora oggi offrono alla cultura e alla società occidentale in particolare.

L’Antico Testamento

Ora, chi cercasse di cogliere il messaggio presente nella Bibbia sull’accoglienza dell’altro e sui rapporti da  tessere con lui incontrerebbe un dato a prima vista sorprendente: l’altro, lo straniero per l’Antico  Testamento è innanzitutto Israele stesso, il popolo di Dio. Israele è contrassegnato da una stranierità  ontologica, che è parte essenziale del suo essere: «Mio padre era un arameo errante», uno straniero,  confessa l’ebreo che al tempio si presenta davanti a Dio. Abramo, il grande padre, si è definito lui stesso  «straniero e di passaggio»; e quando viene raccontato l’esodo, cioè l’evento da cui nasce Israele, si ha il  coraggio di dire che dall’Egitto uscirono i figli di Israele insieme a «una grande massa di gente  promiscua» (Es 12,38).
Ma questa condizione di straniero è sperimentata da Israele soprattutto in Egitto, dove vive una lunga  esperienza di schiavitù nei confronti dell’impero del faraone. Qui Israele si sente non ospitato ma  oppresso e angariato; è in tale condizione che fa esperienza di essere  accolto dal Dio dei Padri, il Dio che sarà confessato come colui che non fa eccezione di persone, che fa  giustizia all’orfano e alla vedova, che ama lo straniero, al quale provvede pane e vestito. Dio guarda allo  straniero, all’immigrato, all’altro, e per questo guarda a Israele.
Così Israele sperimenta di essere accolto, ospitato da Dio, e così diventa il suo popolo, ma non  dimenticherà la sua condizione di stranierità, di alterità, di differenza. Anzi, proprio su questa esperienza,  su questa condizione vissuta dai padri in Egitto si fonderà l’etica di Israele verso lo straniero, e grazie ad  essa si giustificherà la sacralità dell’accoglienza dovuta agli stranieri e ai rifugiati. Quante volte infatti  risuonano come motivazione dell’accoglienza verso lo straniero le parole: «... perché  voi siete stati stranieri in terra d’Egitto», a ribadire una ragione innanzitutto umana dell’accoglienza,  prima di sottolinearne la conformità alla rivelazione della volontà di Dio.
La solidarietà con lo straniero diviene un comandamento del Dio  compassionevole e il leggersi come stranieri da parte dei credenti aiuta a comprendere, ad accogliere e ad  amare gli stranieri che si incontrano.

Il nuovo Testamento

Se l’Antico Testamento ci consegna un preciso messaggio sull’ospitalità dello straniero il Nuovo Testamento conferma e rinsalda ulteriormente questa pratica di ospitalità. Qui la «philoxenía», «l’amore per lo  straniero» appare un’espressione fondamentale dell’amore del prossimo, una delle più alte manifestazioni della  carità. Non solo, la figura del povero e dello straniero diventano nel Nuovo Testamento figure rivelative di  Dio stesso: è con loro che Dio manifesta una solidarietà radicale fino a renderli destinatari privilegiati,  clienti di diritto della sua Parola e della sua azione, ed è con loro che Gesù stesso si identifica non a livello  mistico, ma a livello storico, concreto, fin dalla sua nascita e per tutta la sua esistenza.
In questo senso Gesù è stato uno straniero che aveva come caratteristica l’essere ospitale: non aveva  casa, ma la sua persona intera creava uno spazio di accoglienza, di ospitalità per tutti quelli che venivano  a lui. Gesù viveva addirittura l’ospitalità scandalosa agli occhi dei giusti e degli uomini religiosi,  mangiando e bevendo alla tavola dei peccatori, andando ad alloggiare presso di loro, fino a sembrare  amico delle prostitute e dei peccatori manifesti. Se leggiamo i vangeli, siamo posti davanti a questa  capacità di ospitalità vissuta da Gesù: poveri, malati, stranieri, tutti trovavano in Gesù uno spazio di  ospitalità, la possibilità di un incontro umano in cui si sentivano accresciuti, richiamati a  un’umanizzazione, tutti gustavano cosa significhi la comunione con un altro uomo.
La fede con Gesù di Nazaret diventa strettamente legata all’accoglienza degli esclusi dal popolo di Dio nella prima Alleanza: legata all’accoglienza dei gojim, nome che indica le genti straniere, i pagani. Non dimentichiamo che i membri del popolo eletto e radunato da Gesù portano per sempre il nome di “stranieri e migranti” (pároikoi kaì parepídemoi: 1Pt 2,11), in perenne cammino verso una patria che qui non si trova (cf. Fil 3,20; Eb 11,14): il Regno dei Cieli.
I cristiani, sono stati a lungo considerati essi stessi “stranieri” rispetto alla cultura dominante e “pellegrini” rispetto ad appartenenze radicate nel territorio e per questo hanno sempre avuto al cuore della loro etica l’accoglienza dello straniero, del pellegrino, del viandante, secondo l’identificazione annunciata dal loro Signore: “ero forestiero e mi avete ospitato” (Mt 25,35).
Nel Vangelo di Matteo, in quel grande affresco riguardante il giudizio finale, il giudizio che deciderà la salvezza o la perdizione di ogni essere umano, credente o non credente, Gesù assicura che il Figlio dell’uomo, colui che esercita il giudizio in nome di Dio, dirà:
«Venite, benedetti del Padre mio, ricevete in eredità il regno preparato per voi fin dalla fondazione del mondo, … perché ero straniero e mi avete accolto. Via, lontano da me, maledetti, … perché ero straniero e non mi avete accolto (Mt 25,34-35.41.43)».
Cristo si identifica con lo straniero, così come con l’affamato, l’assetato, il povero, il malato, il carcerato: egli è qui e ora nell’uomo, l’unica e sola vera immagine di Dio (cf. Gen 1,26-27), non è altrove … Sì, l’atteggiamento verso lo straniero che vive tra di noi e con noi narra niente meno che il nostro atteggiamento verso Cristo stesso.
Forse allora, quando ci si appella all’identità cristiana e all’esigenza di difenderla da quanti cristiani non  sono, dovremmo riflettere con più attenzione a ciò che davvero questa identità comporta, dovremmo  ricordare non solo il nostro passato prossimo, ma anche quel progetto di umanizzazione piena che  scaturisce dalle pagine bibliche e dalla grande tradizione del cristianesimo vissuto in mezzo agli uomini e  alle donne di ogni tempo, etnia, nazione, lingua e religione.

Conclusione

Certamente per affrontare i problemi legati all’accoglienza dello straniero c’è bisogno di creatività, audacia per percorrere le vie dell’ascolto, del dialogo e della convivenza tra diversi; c’è bisogno di discernimento su una realtà estremamente complessa come quella della globalizzazione.
Tuttavia il discernimento fondamentale che un cristiano deve compiere è quello di riconoscere nel volto dell’altro la presenza di Cristo: l’esigenza evangelica di farsi prossimo a chi è nella sofferenza, l’esempio della primitiva comunità di Gerusalemme in cui non c’era nessun bisognoso perché tutto era messo in comune … restano infatti per il cristiano richiami costanti – e mai pienamente soddisfatti – a rendere la propria condotta degna di un autentico discepolo del Signore Gesù. Il cristiano sa che anche sul rapporto che intrattiene con lo straniero sarà giudicato, perché Gesù ha profetizzato: “Venite, benedetti, perché ero straniero e mi avete accolto!”.

San Gimignano, domenica 05 giugno 2016
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