Dall’«ebraicità di Gesù» alla «cristicità dell’ebraismo»
Come è noto, la Terza ricerca sul Gesù storico è stata caratterizzata dalla riscoperta della cosiddetta «ebraicità di Gesù»; si è sostenuto con forza, in queste posizioni, che Gesù fosse anzitutto ebreo e che appartenesse, dalla sua nascita e per la sua provenienza, a quelle strutture culturali del mondo ebraico, anzitutto.
Invece, l’immagine di Gesù, promossa dalla tradizione credente e dalla critica, nel corso della storia della ricerca, era centrata sull’istanza dell’originalità di Gesù rispetto al suo contesto storico, funzionale a coglierne l’unicità e la peculiarità entro tale originalità; all’opposto, la linea interpretativa che volle vedere e rileggere Gesù nel suo contesto culturale ebraico – promossa in buona parte da alcuni eminenti studiosi di parte ebraica e non solo – ha condotto sempre più ad assottigliare tutti gli aspetti di originalità delle posizioni e delle azioni del Nazareno nel suo contesto, fino a rendere il paradigma dell’unicità e della peculiarità di Gesù sempre più inconsistente e frutto di operazione meramente ideologica, lontana da una presunta fedeltà storica. Questa è, in sintesi, oggi, la posta in gioco della deriva scaturita dalla riscoperta dell’«ebraicità di Gesù».
Occorre però rimarcare un elemento di novità in tutto ciò. Le ricerche pubblicate dal rabbino Daniel Boyarin e del suo seguito, in tema di «ebraicità di Gesù», hanno contribuito, in anni recenti, ad assottigliare ulteriormente le differenze tra Gesù e il suo contesto giudaico nella linea, però, di riconoscervi già in origine, una connessione stretta e connaturata tra ebraismo e cristianesimo, nel momento dell’origine (I secolo d.C.); poiché non di due religioni si trattava ma della stessa, entro distinte forme di comprensione delle identiche fonti e riferimenti istituzionali e legislativi. Diversamente, però, da come il teorema dell’«ebraicità di Gesù» era prima declinato – sostenendo che gli elementi di netta differenza tra ebraismo e cristianesimo fossero opera dell’interpretazione ecclesiale ma non certo del Gesù storico – Boyarin ritiene, in controtendenza, che questi stessi tratti (come la divinizzazione del personaggio gesuano, l’idea di una divinità sdoppiata in Padre e Figlio, di un redentore Dio e uomo insieme, soggetto agente di un processo di salvazione con la sua morte e resurrezione) sono già tutti inscritti e attestati tra i Giudaismi del Secondo Tempio, e l’esperienza storica di Gesù si sarebbe collocata in dialettica con tali aspetti.
Ciò che tradizionalmente veniva inteso come il «pacchetto teologico» della differenza e novità assoluta del cristianesimo, secondo il Boyarin, è invece già presente e preparato dallo stesso Giudaismo: l’originalità di Gesù consisterebbe, invece, nell’avere rivolto a sé e, con lui i suoi seguaci, tali caratteristiche già presenti nelle tradizioni teologiche di alcuni Giudaismi del Secondo Tempio. Il paradosso di tale esito di ricerca sull’«ebraicità di Gesù», che originariamente aveva spinto verso una radicalizzazione della differenza e della distanza tra Gesù e il Cristo, tra l’ebreo di Galilea e la Chiesa di Paolo, giunge con queste più recenti interpretazioni a ritrovare una sintesi di unità tra quelli che si ritenevano essere aspetti inconciliabili proprio in seno allo stesso ebraismo.
Questo significa riqualificare lo stesso paradigma dell’«ebraicità di Gesù»: non più teso a strappare il Gesù storico al cristianesimo, per ricollocarlo tra i suoi pari, nel contesto giudaico del primo secolo, attribuendo unicamente alla comunità primitiva la responsabilità d’avere, in qualche modo, tradito la realtà storica e l’intenzionalità originaria del proprio maestro, bensì rileggere e rieditare le stesse radici giudaiche al fine di aprirle ad interpretazioni che il cristianesimo ha fatto proprie nella storia, ma che già risiedevano presso la coscienza ebraica del I sec. della nostra era. Più che una relativizzazione del personaggio cristologico di Gesù di Nazaret, tale posizione tende ad un ampliamento di prospettive dello stesso contesto culturale e religioso dell’ebraismo di allora, troppo spesso letto in antagonismo con le idee teologiche che il cristianesimo ha fatto proprie e quindi ritenuto alieno a ciò che di più proprio appartenne al cristianesimo delle origini.
Questo tipo di apertura, dopo l’epoca della scoperta dell’«ebraicità di Gesù» vede ora, potremmo dire, una riscoperta della «cristicità dell’ebraismo», ovvero di quelle categorie storiche e teologiche che il cristianesimo delle origini è andato a rivisitare perché presenti nelle operazioni stesse della ricerca midrashica sulle Sacre Scritture, ricerca già avviata e istruita dallo stesso rabbì Gesù. La conseguenza più diretta che ne scaturisce è quella di far cadere la tradizionale frattura storica ed ermeneutica che ha caratterizzato tutta l’epoca della riscoperta dell’«ebraicità di Gesù» e, ancor prima, della ellenizzazione del cristianesimo: ovvero la rottura tra il Gesù della storia e il Cristo della fede, dove al primo corrispondeva l’istanza storica, meramente ebraica e al secondo l’interpretazione di una chiesa in missione e quindi profondamente ellenizzata nei suoi contenuti e intenti; il tutto a discapito di una continuità nella fedeltà storica del dato originario. Tale prospettiva più recente offre forse più chances nel ripensare una continuità sistemica già connaturata allo stesso alveo originante dove si diffuse l’input iniziale che diede vita ad una costellazione ideologica basilare e identitaria del personaggio Gesù di Nazaret, fondata su attese e riletture convalidate da alcune linee teologiche già preparate e attestate in alcuni Giudaismi del Secondo Tempio.
La stessa istanza universalistica che ha caratterizzato la missione del Giudaismo cristiano del I sec. è possibile rintracciarla al livello del Gesù storico in dialettica con il teorema maggioritario dei gruppi giudaici, quello universalistico-gerosolimitano che vedeva il convenire di tutte le nazioni a Gerusalemme, al monte Sion, verso il Tempio (cfr. Is 2,1-5 e Mi 4,1-3), sostenuto ulteriormente dall’opera di Erode il Grande e i suoi successori per l’ampliamento dell’area templare al fine di favorire al massimo livello le feste di pellegrinaggio e la centralizzazione dell’unico luogo di culto, con evidenti ricadute economiche di profitto. La posizione di Gesù si colloca invece entro uno schema che relativizzava il principio dell’unicità del luogo di culto in Gerusalemme, in difesa della libertà di Dio Padre di entrare ed uscire dal suo Tempio, e di abbandonarlo a motivo dell’infedeltà del popolo eletto; teologia conosciuta e consacrata nel libro santo del profeta Ezechiele che, dall’esilio, vede la «gloria del Signore» lasciare ed allontanarsi dal Tempio. Posizione teologica che Gesù fa propria, in territorio critico, come la Samaria: «Né su questo monte né a Gerusalemme adorerete il Padre…» (cfr. Gv 4,21ss).
E su queste e molte altre premesse vissute e difese fino alla morte da Gesù ha avuto inizio una storia millenaria di testimonianza di fede. Tale prospettiva richiede di prendere le distanze anche rispetto ad alcune conclusioni o sollecitazioni di Daniel Boyarin ma di trattenere l’intuizione di fondo, funzionale ad ampliare le facce del poliedro dell’interpretazione giudaica della cristologia, in origine.