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Enzo Bianchi Rivalutare la tenerezza

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Avvenire, 14 ottobre 2015
di ENZO BIANCHI
da sito del Monastero di Bose

Recentemente è stato edito il volume I vangeli, tradotti e commentati da quattro bibliste (2015), un’opera che tra l’altro vuole mostrare come siano possibili una traduzione e un commento “altri” rispetto alla maggior parte di quelli già esistenti. Credo sia più che accettabile l’ipotesi che una donna biblista commenti la Scrittura in modo altro rispetto agli uomini; più discutibile, forse, è che anche la sua traduzione sia altra. E tuttavia mi pare significativo che siano proprio delle donne bibliste a insistere, per esempio, sul fatto che il termine ebraico tradotto nelle lingue neolatine con “misericordia” possa essere reso con “tenerezza”.


In verità il vocabolario ebraico dell’amore è molto ricco (chen, chesed, rechem/rachamim, termini che a volte si influenzano reciprocamente e mescolano i loro significati), anche se va riconosciuto che nella traduzione dall’ebraico al greco e poi al latino della Vulgata questa varietà lessicale si è progressivamente condensata intorno al termine “misericordia”. Le attuali versioni bibliche – e mi riferisco soprattutto a quella a cura della CEI pubblicata nel 2008 – seguono questa tradizione, anche se da qualche tempo si sono levate voci che chiedono di rendere rachamim con “tenerezza”, caldeggiando di conseguenza lo sviluppo di una teologia biblica della tenerezza di Dio. Poiché rechem/rachamim designa un movimento intimo, istintivo, causato da un fremito di amore che diventa com-passione, soffrire con, sensibilità; e poiché si tratta di un sentimento materno, che nasce dalle viscere, dalle interiora della madre, allora sembrerebbe più indicato tradurre con tenerezza invece che con misericordia, “cuore per i miseri”. Occorre anche riconoscere che spesso si comprende la misericordia non nella sua autentica portata biblica, ma la si equivoca come un termine che designerebbe un sentimento di pietà, dall’alto in basso (come d’altronde può avvenire anche con il termine “compassione”). Nel contempo, però, anche il concetto di tenerezza non è esente dai medesimi rischi, soprattutto quando si usa l’aggettivo “tenero”, che può assumere connotazioni sdolcinate: dire che qualcuno è tenero, spesso suona inadeguato a definire la sua capacità di affetto e di com-passione. Può essere anche utile ricordarne l’etimologia: “tenerezza” viene dal latino tenerum, che significa “di poca durezza, che acconsente al tatto”, dunque “sensibile”; ed è significativo che in alcuni dizionari lo si accosti, in senso figurato, a “sdolcinato”, addirittura a “effeminato” (si veda il Vocabolario etimologico della lingua italiana di O. Pianigiani)…

Queste precisazioni lessicali sono necessarie per interpretare con fedeltà il pensiero di papa Francesco, che indubbiamente ha immesso nel magistero pontificio il termine “tenerezza”, con immediate ricadute nel linguaggio spirituale ed ecclesiale. Fin dall’omelia di inizio del pontificato (19 marzo 2013), Francesco ha affermato: “Non dobbiamo avere paura della bontà, anzi neanche della tenerezza!”. Nella sua predicazione si serve spesso di questo termine, a commento dei testi più diversi dell’Antico e del Nuovo Testamento. Nell’esortazione apostolica Evangelii gaudium (24 novembre 2013) parla per ben 11 volte di tenerezza, ricorrendo a questa parola in modo sempre pensato, con molto discernimento. Parla di “tenerezza combattiva contro gli assalti del male” (§ 85), di “infinita tenerezza del Signore” (§ 274), di “tenerezza” come “virtù dei forti” (§ 288), di “forza rivoluzionaria della tenerezza” (ibid.), avendo coscienza che la tenerezza è appunto una virtus, una forza attiva e pratica, non solo un sentimento. Arriva a scrivere che “Il Figlio di Dio, nella sua incarnazione, ci ha invitato alla rivoluzione della tenerezza” (§ 88). Perché questa insistenza sulla tenerezza? Perché la vita è un duro mestiere, perché i rapporti oggi si sono fatti duri, senza prossimità, anaffettivi, e gli uomini e le donne del nostro tempo sentono soprattutto il bisogno di tenerezza. Tenerezza come sensibilità, apertura all’altro, capacità di relazioni in cui emergano l’amore, l’attenzione, la cura. La tenerezza – lo ribadisco – non è un sentimento sdolcinato, ma è vero che soprattutto gli uomini, debitori di una cultura dell’uomo forte, solido, che sa sempre usare la ragione a costo di non ascoltare il cuore, di una cultura diffidente verso le emozioni, non hanno coltivato in passato e forse non coltivano nemmeno oggi questa straordinaria virtù. Per questo il papa esorta a non aver paura della tenerezza e denuncia: “Quanto bisogno di tenerezza ha oggi il mondo!” (Omelia della notte di Natale, 2014). A ben vedere, la tenerezza è davvero ciò che oggi più manca. Quante relazioni tra sposi o amanti vengono meno, vedono depotenziarsi la passione oppure finiscono per essere affette da violenza e cosificazione dell’altro, proprio perché manca la tenerezza; quante relazioni di amicizia ingrigiscono perché non si è capaci di rinnovare il legame con la tenerezza; quanti incontri non sbocciano in relazione per mancanza di tenerezza… Ecco perché la tenerezza deve vedersi ed essere riconosciuta su un volto: altrimenti il volto diventa rigido, duro, inespressivo!

Se la tenerezza è un sentimento di viscere materne, allora sta anche per misericordia, e per questo Francesco spesso le accosta. In ciò è fedele alle sante Scritture, che ci forniscono immagini straordinarie, veri e propri “elogi delle carezze di Dio”. Basti pensare alla vicenda di Osea, profeta che ama perdutamente la sua donna, prostituta e adultera: vuole attrarla a sé, nonostante le sue infedeltà, vuole portarla nel deserto, in un luogo appartato, per poterle parlare nell’intimità “cor ad cor” (cf. Os 2,16). Non solo, ma quando Osea deve descrivere l’amore di Dio per il suo popolo, parla di un Dio che attira a sé con legami di bontà, con vincoli d’amore, come un padre che solleva il proprio bimbo portandoselo alla guancia, guancia a guancia (cf. Os 11,4), in un esercizio di reciproca sensibilità tattile che racconta la dolcezza dell’amore. E Isaia ci consegna con audacia l’immagine di un Dio dai tratti materni, che allatta, porta in braccio, accarezza e consola il proprio figlio (cf. Is 66,12-13), figlio che non potrà mai dimenticare né abbandonare (cf. Is 49,14-15). Da questi testi l’amore di Dio è rivelato innanzitutto come tenerezza, quella che Dostoevskij ha definito “la forza di un amore umile”.

Proprio perché la tenerezza è misericordia, quando è stata praticata e narrata da Gesù, essa ha suscitato scandalo. È il papa stesso a dirlo: “Per Gesù ciò che conta, soprattutto, è raggiungere e salvare i lontani, curare le ferite dei malati, reintegrare tutti nella famiglia di Dio. E questo scandalizza qualcuno! E Gesù non ha paura di questo tipo di scandalo! Egli non pensa alle persone chiuse che si scandalizzano … di fronte a qualsiasi carezza o tenerezza che non corrisponda alle loro abitudini di pensiero e alla loro purità ritualistica” (omelia del 15 febbraio 2015, VI domenica del tempo ordinario, su Mc 1,40-45). Ma a prescindere dall’uso della terminologia della misericordia, la tenerezza di Gesù è visibile nel suo comportamento abituale: quando, incontrando i bambini, rimprovera i discepoli che vorrebbero tenerli distanti (cf. Mc 10,13-16 e par.); quando si lascia accarezzare dalla donna peccatrice (cf. Lc 7,37-38) o da quella che gli unge di profumo la testa (cf. Mc 14,3; Mt 26,7) o i piedi (cf. Gv 12,3); quando si commuove alla vista della folla sbandata, simile a un gregge senza pastore (cf. Mc 6,34; Mt 9,36); quando, dopo la resurrezione, chiama per nome “Maria”, la Maddalena che lo cerca piangente (cf. Gv 20,16)… Gesù “mite e umile di cuore” (Mt 11,29), cioè dolce e umile di cuore, pieno di tenerezza e umile di cuore: questo dovremmo comprendere di lui, e se a volte i vangeli ce lo presentano in collera, non dobbiamo dimenticare che questa è l’altra faccia della sua com-passione. Solo chi conosce la com-passione, infatti, può ricorrere alla collera e così dichiarare la sua non indifferenza di fronte alla sofferenza. Nei vangeli non sta scritto che Gesù abbia accarezzato qualcuno, se non i bambini (cf. Mc 10,16; Mt 19,15); eppure io sono convinto che avesse l’arte della carezza, che abbia accarezzato qualche volto dei discepoli, qualche volto in lacrime, qualche volto in preda alla sofferenza per la malattia.

La tenerezza è un aspetto della misericordia, è la misericordia che si fa vicinissima fino a essere una carezza, un prendere la mano dell’altro nella propria mano, un asciugare le lacrime sugli occhi dell’altro: la tenerezza è misericordia fatta tatto e la misericordia, a sua volta, è una carezza. Dicono che questo papa non si fa vedere, ma piuttosto si fa toccare. C’è una verità in questo giudizio, perché Francesco sa mostrare la sua tenerezza: e chi sente la mancanza di tenerezza va da lui, non tanto per vederlo, ma sperando di essere da lui abbracciato con tenerezza.
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