Mariano Magrassi: un’eredità alla prova del tempo
1. Introduzione
Apprestandomi a parlare della figura e dell’opera di mons. Mariano Magrassi, inevitabilmente vengo a interrompere il fluido snodarsi delle riflessioni sul tema della famiglia che si sono avvicendate in questa sala durante questi giorni. Tanto più che Magrassi, nella sua estesa bibliografia, non ha che pochi e sparsi cenni sulla famiglia. Dunque il mio primo dovere nei vostri confronti è di darvi la “cattiva notizia” che Magrassi non ha da offrire elementi particolari per una teologia o una pastorale della famiglia, sia pur in chiave eucaristica!
Perciò, quello che cercherò di fare, in primo luogo, sarà di giustificare brevemente questa piccola deviazione nel percorso di questi giorni e successivamente mostrare che la persona cui vogliamo rendere l’omaggio di questo ricordo, ha comunque qualcosa da dire sulle sfide attuali della Chiesa e, anche se soltanto di riflesso, anche su alcune questioni relative alla sfera della famiglia cristiana.
P. Magrassi è intervenuto come oratore a ben diciotto settimane liturgiche nazionali, dal 1962 al 1996, e ha svolto un ruolo importante, nel panorama della Chiesa italiana, per la promozione e il rinnovamento della liturgia nei vivacissimi decenni nei quali si è dato inizio all’attuazione della riforma liturgica post-conciliare nel nostro paese. E’ stato un appassionato studioso di liturgia e suo brillante divulgatore, come monaco ne ha fatto il centro della propria vita, come pastore ha visto e valorizzato, con una lungiranza e coerenza teologica non frequenti, il ruolo centrale della celebrazione nella vita e nella missione della chiesa locale. Tutto questo giustifica ampiamente che, nella diocesi che lo ha avuto come pastore per oltre un ventennio, e nella cornice di questa settimana liturgica, venga dedicata una parola di affetto e di apprezzamento al suo lavoro di una vita. P. Sorge ha scritto nel 2010 un libro intitolato La traversata. La Chiesa dal Concilio Vaticano II a oggi. Vi passa in rassegna alcuni personaggi particolarmente importanti, che hanno accompagnato il passaggio epocale della Chiesa dal modello post-tridentino a quello post-Vaticano II. Egli li chiama “i traghettatori”. Ritengo che p. Mariano Magrassi sia da ascrivere a questa schiera di traghettatori nella storia della Chiesa italiana, in particolare a cavallo degli anni ’70 e ’80.
Questa breve premessa può essere sufficiente a comprendere il perché in questa settimana liturgica lo si voglia ricordare. Ricordare p. Mariano è ricordare un pezzo non secondario della storia ecclesiale e della riforma liturgica in Italia. E, mi si consenta, una presenza significativa anche nella vita del monachesimo italiano, per quanto non sempre compreso.
Detto questo, vengo al merito della mia esposizione dicendo in primo luogo quello che non sarà. Non sarà una ricostruzione del pensiero di p. Mariano e neppure un bilancio su quello che lui ha reso possibile nella promozione della causa liturgica in Italia. Non sarà neanche un presentazione biografica. Su questi aspetti già qualcosa è stato detto e scritto[1]. Cercherò piuttosto un approccio in punta di dita, nel tentativo di percepire rilievi, possibilità e dischiusure della sua eredità complessiva. Proverò a tastare alcune delle venature profonde che hanno attraversato la sua vita e la sua riflessione, mettendole come in controluce rispetto al clima ecclesiale attuale, molto mutato rispetto ai tempi del suo episcopato (1978-1999) e della sua morte (2004), avvenuta appena un anno prima di quella di Giovanni Paolo II. In questo modo spero di produrre qualche piccola scintilla, facendo risaltare inviti, stimoli, anche moniti, che ancora si sprigionano dall’eredità che lui ci ha lasciato. Penso che il risultato possa dar da pensare: l’eredità di mons. Magrassi, lo dico in anticipo, mi sembra che regga bene alla prova dei tempi, anzi ritengo che abbia qualcosa di importante da dire proprio in questa congiuntura ecclesiale.
Aggiungo ancora, in anteprima, che dagli scritti di mons. Mariano Magrassi non c’è da aspettarsi una novitas, nel senso che egli abbia presentato una nuova ermeneutica del mistero cristiano, al modo di altri teologi. Non aveva una preparazione filosofica o nelle scienze umane che gli permettesse un’operazione del genere. La sua peculiarità e a tratti anche originalità, risiede, a mio parere, in un semplice elemento: aver posseduto un grande senso della proporzione e dell’insieme degli aspetti del mistero, il senso del nexus mysteriorum, per dirla col Vaticano II, e insieme la capacità di porre gli accenti giusti in questa lingua del mistero. Questa padronanza della grammatica e della sintassi teologiche a largo spettro gli derivano essenzialmente dall’universo liturgico.
Il tentativo è dunque quello di vedere come un uomo che possiede la lingua teologica imparata dalla liturgia e dalla Scrittura, sappia mettere accenti giusti e aiutarci a correggere eventuali imprecisioni.
2. Un uomo all’altezza dei tempi
Solo un uomo che sa cogliere per tempo le domande e le sfide che l’ambiente pone, e anche anticiparle se possibile, dicendo una parola pertinente, che non giunga fuori tempo, ha delle possibilità di parlare, in qualche misura, anche oltre il suo tempo. Chi, al contrario, cammina a rimorchio dei tempi, viene ben presto liquidato e lasciato sulla proda della storia dal tempo che cambia. Per questo, prima di svolgere il breve programma esposto, cioè vedere cosa ne è dell’eredità di Magrassi “alla prova dei tempi”, così mutati, vorrei mostrare in estrema sintesi, e in primo luogo, che la sua riflessione, fin da giovane studente di teologia, è sempre stata “all’altezza dei tempi”. Se non fosse stata tale, sarebbe già in partenza inutile interrogarsi se regga ancora, in qualche misura, al confronto con l’oggi.
Già l’argomento della tesi di dottorato in teologia, preparata fra il 1958 e il 1959 presso l’Università Urbaniana e pubblicata nel 1960, lascia capire che il giovane monaco-teologo aveva antenne capaci di intercettare i fermenti più vivi del dibattito teologico di quegli anni, quelli più promettenti. Teologia e storia in Ruperto di Deutz[2] fu uno studio che non solo disseppelliva dall’oblio un grande autore medievale, fino ad allora sostanzialmente sconosciuto o mal compreso, ma soprattutto si accordava con due correnti di studio che stavano ponendo, in modo diverso, i presupposti per l’imminente rinnovamento conciliare: l’attenzione per la categoria di storia nel suo valore teologico, da una parte, e l’apertura verso uno stile teologico, come quello emerso dalla riscoperta della “teologia monastica” da parte di J. Leclercq, che non coincideva col modello scolastico e neoscolastico, ma promuoveva una concezione sapienziale del sapere della fede. Aver intuito, sul finire degli anni ‘50, l’importanza della dimensione teologica della storia e della dimensione storica della teologia e l’aver sviluppato questo binomio nella cornice di un’indagine sulla teologia monastica medievale, della quale Ruperto era stato un eminente rappresentante, collocava Magrassi in una posizione avanzata per il suo tempo e in anticipo sul Concilio.
Un altro indizio della sua capacità di intercettare con tempistica gli snodi più promettenti per uno sviluppo teologico ecclesialmente fecondo, è rilevabile nella sua sensibilità per il tema del ruolo dello Spirito Santo nell’economia salvifica e sacramentale. Già nel 1967, dunque in anni in cui la teologia cattolica, specialmente in Italia, ancora stentava a mettere a fuoco l’importanza del tema pneumatologico, esce un suo lungo articolo dal titolo L’azione dello Spirito Santo nella storia della salvezza e nella iniziazione cristiana[3]. Negli anni successivi si moltiplicheranno le sue riflessioni di carattere pneumatologico, a partire prevalentemente dalla liturgia, nei quali si coglie la costante ricerca dell’equilibrio fra sacramento e cristologia da una parte e azione dello Spirito dall’altra, sempre in un quadro di respiro ecclesiale. Questo consentirà a p. Magrassi di essere in grado di dare il suo pertinente contributo al dibattito sfociato nel Documento di Monaco (1981), che toccherà le questioni trinitarie relative al Filioque e al rapporto fra epiclesis e anamnesis nel dialogo ufficiale cattolico-ortodosso. Nell’insieme dei suoi scritti troviamo un pensiero che potremmo chiamare “cristocentrismo epicletico” [4].
Un ultimo motivo sul quale richiamo l’attenzione, a titolo esemplificativo, è la sensibilità biblica, che in Magrassi si è formata in un primo tempo alla scuola di Marmion, nella fase dei suoi anni di seminario prima dell’ingresso in monastero, e poi nelle aule dell’Istituto Biblico, di cui fu alunno. Ma ciò che lo condusse ad essere uno dei primi propositori su larga scala e in modo qualificato nel nostro paese della lectio divina fu soprattutto la lettura assidua dei padri e degli autori monastici medievali. Il classico più volte riedito Bibbia e preghiera. Introduzione alla lectio divina, apparso come volume nel 1973, era già stato pubblicato in un’opera a più mani nel 1970, col titolo Bibbia pregata[5], ed era il risultato di un approfondimento diretto sulle fonti del quale si erano potuti cogliere i primi frutti già in due densi contributi, rispettivamente del 1964 (anno di approvazione della Dei Verbum) e del 1967, intitolati: La preghiera a Cluny e a Citeux e La Bibbia nei chiostri: Cluny e Citeaux. I due testi non sfigurerebbero come capitoli di Esegesi medievale di H. De Lubac, della cui impostazione in qualche modo risentono.
Si può accennare anche alla sua sensibilità per la questione del rito. Il suo primo, importante articolo, apparso su Rivista Liturgica del 1962, preprato dunque prima della redazione diSacrosanctum Concilium, presentava delle originali riflessioni per recuperare il valore teologico della totalità delle celebrazioni rituali, oltre l’ilemorfismo che cercava l’essenza del sacramento in una forma-materia puntuale, rispetto alla quale i vari riti restavano estrinseci e disorganizzati. I vari momenti della celebrazione rituale vi venivano considerati come riflessi prismatici, in un insieme coordinato, del centro del mistero, che ha bisogno di una distensione temporale per dire la propria ricchezza.
Questo piccolo assaggio può essere sufficiente per mostrare quanto mons. Magrassi sia stato non a rimorchio dei tempi, che stavano rapidamente cambiando nel corso degli anni ‘60, ma un protagonista del cambiamento stesso. Insomma, un uomo all’altezza dei tempi.
Veniamo dunque a verificare se tuttora egli resiste alla prova del tempi attuali.
3. “Vivere”: biografia e teologia
C’è un verbo che ricorre in parecchi titoli dei libri di Magrassi: “vivere”. Non mi riferisco solo a quella specie di trilogia ben nota costituita dai volumi Vivere la Liturgia, Vivere la Parola, Vivere la Chiesa. Il verbo è presente anche in altri testi con una frequenza che non può passare inosservata e non può essere frutto di un caso. La lista è lunga: Vivere è cambiare, Per me vivere è Cristo, Vivere l’Eucaristia, Il prete: una identità da riscoprire e vivere, Vivere è incontrarsi con Dio, Vivere è camminare con Cristo risorto. Fino a quel capitolo di Afferrati da Cristo intitolato significativamente, con un’intonazione che potremmo chiamare mistica, “Vissuti”da Cristo! Questa predilezione per la categoria di “vita” è probabile che affondi le sue radici, anche se non in linea diretta, nelle correnti della Lebensphilosophie e della Lebenstheologie che hanno avuto una larga diffusione soprattutto nella prima parte del Novecento. Autori come R. Guardini e C. Vagaggini possono aver comunicato a Magrassi questa sensibilità al “vissuto”.
Vivere è l’atto sintetico, poliedrico e insieme semplice, che ci costituisce e ci conserva. Che questa categoria sia stata cara al nostro autore, penso sia segno innanzitutto della sua grande humanitase della serenità e positività della sua visione. La vita indica l’uomo nella sua collocazione nel mondo e nella sua tensione ad espandersi verso Dio, come pienezza e sorgente della vita. Il vivere designa la semplice creaturalità dell’uomo ed è il punto di innesto naturale per un’apertura ai temi della creazione e dell’ecologia, della posizione dell’uomo nell’ambiente, contiene i germi di un umanesimo positivo, che si percepisce profondamente presente nella teologia e nella pastorale di Magrassi, che ha definito la Chiesa “avvocata dell’uomo”[6]. Ma è anche parola che designa la novità della vita nuova in Cristo, la novitas vitae portata dal battesimo e dalla fede, dalla Pasqua di Gesù, dal suo Spirito di vita. Oserei quasi dire che la vita è il trascendentale che attraversa tutto il pensiero e la sensibilità di Magrassi.
Ascoltiamo in proposito una sua citazione:
Bisogna raccogliere la vita, con tutte le cose vive di cui è popolata, intorno a un centro, e il centro può essere uno solo: Gesù Cristo. Ma un Cristo vivo, che diventa il mio tutto e per il quale gioco la vita. Qualcuno che dà senso alla mia vita, tutto il suo senso, e al cui servizio metto tutte le mie energie. [...] “Per me vivere è Cristo” (Fil 1,21)[7].
Appare evidente la ridondanza del lessico “vitale”. Aggiungerei anche che come appassionato della vita, Magrassi ha una visione serena della realtà. Chi si immerge nella lettura delle sue pagine, avverte un clima che definirei vicino a quello di S. Ireneo di Lione, col suo apprezzamento della bontà delle creature di Dio.
Ma la dominante del tema della vita nel linguaggio di Magrassi va qui menzionato anche per un’altra ragione. Diversi teologi (come J. B. Metz o J. Moltmann) negli ultimi decenni hanno riservato particolare attenzione al rapporto fra teologia e vita, teologia e biografia. Si tratta di un aspetto di quella operazione più ampia, difficile e complessa, di ricucitura fra esperienza e teologia o fra fede vissuta e fede saputa che oggi è spesso tematizzata e messa a programma, ma abbastanza di rado eseguita e realizzata adeguatamente. E’ una questione che in fondo tocca lo stesso statuto della teologia come sapere critico della fede, come intellectus fidei, nel senso soggettivo e oggettivo di questo genitivo.
Magrassi non si è mai interessato di simili questioni di teologia fondamentale, ma di fatto, col suo stile teologico ha offerto una lectio simplex ac magistralis di cosa voglia dire non solo “fare il teologo”, ma anche “esserlo”, nel senso in cui i padri usavano il termine theologos: colui che patisce le cose divine (theia pathein) e per questo è in grado anche di parlarne opportunamente (theia leghein). Indice chiaro di quanto sto dicendo è il fatto che la produzione teologica di mons. Magrassi non si è sviluppata in ambito accademico, non è mai stato docente di teologia in un seminario o in una facoltà. Riprendendo due famose ambientazioni della teologia medievale, di cui egli era buon conoscitore, possiamo dire che Magrassi ha svolto la sua meditatio theologica nel silenzio del chiostro e all’ombra della cattedrale.
Egli è stato magister theologiae come monaco e come vescovo, non come professore. E se lo è stato in quanto vescovo, era a motivo del suo rimanere comunque monaco. Rivive in lui soprattutto lo stile e lo spirito della “teologia monastica”, in quella schola dominici servitii che è il cenobio benedettino, e qualcosa anche dell’intenzionalità, anche se non del metodo, delle medievali “scuole cattedrali”, orientate ad un fine più schiettamente pastorale, come un ampliamento dotto della funzione della cattedra episcopale. Il monastero e la cattedrale sono gli ambienti in cui si è svolta la vita di Magrassi e nei quali ha preso forma la sua riflessione teologico-liturgica. Le sollecitazioni della ricerca di Dio, della dossologia, per un verso, e della complessa vita di una chiesa locale, per l’altro, sono gli stipiti che sorreggono l’architrave della sua opera e del suo magistero. Dunque, una teologia dalla vita e per la vita, in un contesto orante ed ecclesiale. Anche il suo essere liturgista nasceva in primo luogo dal suo essere liturgo. Non bisogna neanche dimenticare che molti dei suoi libri nascono da predicazioni di esercizi spirituali, cioè ancora dal vivo servizio verso altri credenti.
4. Il “centro”: una parola periferica?
Ma chiostro e cattedrale sono due “centri”. Prevalentemente di attrazione il primo, essenzialmente di irradiamento il secondo, pur senza ripartizioni troppo rigide. Fare teologia in monastero come monaci e dalla cattedrale come vescovi, cioè in due spazi vitali (ambedue a sfondo liturgico), significa fare teologia a partire da un centro individuato e individuabile. Magrassi, è stato teologo a partire dal centro, non dalla periferia.
Che la cattedrale sia un centro va da sé: è grembo della chiesa locale, la “chiesa madre”, dove si nasce a vita nuova (si pensi alle cattedrali spesso affiancate dal battistero) e si confluisce attorno al vescovo per la sinassi eucaristica. Ma anche il monastero, paradossalmente proprio a motivo della sua marginalità – oggi non solo teologica (per la precisione escatologica), ma anche sociologica ed ecclesiale – è un centro: la sua è la centralità invisibile del “cuore”, per riprendere l’intuizione folgorante di Teresa di Lisieux cara a p. Mariano e da lui citata più volte.
Tutto questo può sembrare sorprendente in un tempo in cui si parla molto di “periferie”, e anche di un “ripartire” dalle periferie, perfino di una teologia che parta dalle periferie. Qui il senso per gli accenti di Magrassi aiuta a far chiarezza. Bisogna infatti ricordare il fatto lapalissiano che la periferia si definisce a partire da un centro. E se prima di parlare di periferie, di qualunque genere esse siano, non si chiarisce a sufficienza quale sia il centro presupposto, spesso non esplicitato, è facile cadere nell’equivoco, soprattutto in un mondo che si sta strutturando in forma reticolare – la “rete”, appunto – dove il centro è dovunque e in nessun luogo, dove vengono smarriti gli stessi concetti di centrale e periferico e si sventola lo slogan del “tutti uguali” ovvero la mentalità dell’equivalenza di tutte di differenze, cioè a dire: la moltiplicazione delle differenze lascia indifferenti.
Mi sembra che ciò che manca, nell’attuale gran parlare di periferie, sia un chiarimento in sede teologica di cosa sia centrale e di cosa sia periferico. Oltre ad accezioni molto diverse del termine “periferia”, in chiave sociale, economica, politica, culturale, ne esiste infatti anche una teologica, che alla fine dovrebbe dare il quadro generale, capace di integrare anche l’apporto delle prospettive antropologiche e sociologiche.
Ora, l’andamento della riflessione di Magrassi e il suo radicamento in ciò che rende il monastero o la cattedrale dei “centri”, gli permette di evitare equivoci e di ricordare che tutto – anche i cosiddetti centri di potere che rendono periferiche tante realtà – è periferia, se manca di Cristo. Insomma, la vera periferia è lì dove Cristo non c’è e dove va portato. Il periferico di definisce a partire da Gesù. Questo non ha impedito, anzi ha reso possibile l’attenzione di Magrassi alle “periferie umane” (si pensi al suo magistero sociale, tra cui spicca la sua battaglia all’usura), proprio partendo dal centro misterico in virtù del quale egli va loro incontro[8].
Fare teologia ed evangelizzazione a partire dal centro cristologico, detto in altre parole, non significa escludere le periferie sociologiche, ma è un invito a ristabilire il giusto accento: non si può fare teologia “immediatamente” a partire dalle periferie, né più né meno di quanto non si può essere teologi immediatamente “a partire dalla prassi” o dal povero quale primo luogo teologico, come Clodovis Boff ha puntualizzato in un suo intervento di alcuni anni fa, correggendo radicalmente l’impostazione epistemologica della teologia della liberazione[9]. Dunque, attenti all’immediatezza nel rapporto con le periferie, un rapporto che non passi attraverso la mediazione del mistero celebrato e creduto, sarebbe ingannevole. Il fatto di essere periferia, infatti, non “canonizza” per ciò stesso, coloro che disgraziatamente ne fanno parte.
Magrassi semplicemente preserva la differenza qualitativa assoluta dell’evento pasquale che si vive e si celebra nel chiostro e nella cattedrale, in modi diversi e complementari, ma entrambi emblematici di due dimensioni costitutive della Chiesa. Stabilito che ciò che è centrale per eccellenza e in modo indiscutibile (e che dunque rende centrale o periferica ogni altra realtà) è il mistero celebrato, l’eucaristia in primis, ne deriva che la cattedrale, ovvero l’espressione visibile della Chiesa locale radunata col suo vescovo, è centro in senso sacramentale, sulla linea cristologica, mentre la vita monastica e religiosa, da parte sua, mette in luce piuttosto la dimensione pneumatica del mistero, ovvero il suo divenire vita, santità vissuta nello Spirito. Il primo momento richiama l’attenzione sull’oggettività del sacramento, il secondo sulla sua appropriazione soggettiva nello Spirito.
In altri termini, per Magrassi i due centri hanno bisogno l’uno dell’altro, in coerenza al grande principio bipolare – il “cristocentrismo epicletico” – che Magrassi non si stanca mai di richiamare. Sia la sua lettura dei sacramenti, sia la sua visione della Chiesa e dell’anno liturgico, è sempre al tempo stesso cristocentrica e pneumatoforica. La vita religiosa-monastica e la chiesa gerarchicamente ordinata, ovvero il chiostro e la cattedrale, sono inseparabili come lo Spirito e il Cristo. Solo insieme possono dare il senso di ciò che è centrale e dunque anche di quanto è definibile come periferia.
Così, quanto si è detto mostra a sufficienza che il centro da cui Magrassi pensa e agisce non è “univoco” o semplicemente puntuale, fisso. E’ proprio la corrispondenza e la relazione reciproca dei “due poli” richiamati (Logos-Pneuma), che mostra una germinale ma geniale intuizione: il centro non è solo un punto fisso, ma si attua in una mobile relazione. Infatti, riprendendo una diffusa lezione patristica, per il nostro autore non esiste la chiesa sacramentalmente strutturata (espressa dalla cifra della cattedrale), senza la chiesa pneumatica della santità (che si esprime in modo paradigmatico nelle comunità religiose, in specie nei monasteri, e nei martiri). Questo è anche il condensato della dottrina della Lumen Gentium, a proposito del rapporto fra struttura gerarchica della Chiesa (pastori e laici) e respiro pneumatico della santità, emblematicamente figurato dalla vita religiosa e dal suo nucleo monastico (cf Lumen Gentium, capp. IV e V). Magrassi cita in proposito una frase del filosofo russo N. Berdjaev: “La Chiesa non può esistere senza vescovo e senza popolo, ma vive e respira per mezzo degli asceti e dei martiri”. E commenta: “E’ cosa nota che la vita religiosa, a partire da quella monastica, è sempre stata presentata come il succedaneo immediato del martirio”. La metafora del “respiro” ci riporta alla “vita”: la Chiesa “non può realizzare pienamente la sua vita, non può respirare a pieni polmoni senza la vita religiosa”[10].
5. Iniziazione: da regina a cenerentola?
Scorrendo la bibliografia di Magrassi, salta facilmente all’occhio l’attenzione costante che ha dedicato ai sacramenti dell’iniziazione cristiana, soprattutto nel decennio fra il 1963 e il 1973. E’ un motivo conduttore che richiama un atto fondamentale del cristiano: quello dell’ingresso nella vita nuova in Cristo, della rinascita, dell’incorporazione alla Chiesa. Iniziare, introdurre, entrare! C’è una soglia da varcare, una differenza che è data niente di meno che da un’esperienza di morte e rinascita: gli iniziati sono chiamati, in alcune culture tradizionali, “i nati due volte”. Ma cosa ne è di queste esperienze, oggi? Mircea Eliade nel 1959, cominciava il suo saggio dal titolo La nascita mistica. Riti e simboli d’iniziazione, con queste parole: “E’ stato spesso affermato che una delle caratteristiche del mondo moderno è la scomparsa dell’iniziazione. Di importanza capitale nelle società tradizionali, l’iniziazione è praticamente inesistente nella società occidentale odierna”[11].
Bisogna ammettere molto semplicemente che di questo fenomeno – la scomparsa dell’iniziazione e dell’iniziazione cristiana in specie e di conseguenza – oggi non c’è sufficiente consapevolezza nelle nostre chiese europee. O meglio, non c’è consapevolezza adeguata della gravità del fenomeno. E non c’è neppure la scossa, il dolore, il senso di urgenza che questo fatto dovrebbe provocare. All’interno della Chiesa si discute e si litiga su questo e su quello, ma il fallimento dell’iniziazione cristiana trova l’assuefazione generale. Quella che noi continuiamo a chiamare “iniziazione cristiana”, di fatto è, nella stragrande maggioranza dei casi, l’accompagnamento all’abbandono della Chiesa. Oso affermare che questo fenomeno è enormemente più grave e molto più ampio del fatto che oggi molti matrimoni cosiddetti “cristiani” abortiscano. Anzi, direi che è il fallimento, la scomparsa del senso dell’iniziazione, in senso antropologico e cristiano, che spiega in gran parte i problemi che nascono all’interno di famiglie e di coppie che non sono mai state cristiane, nonostante ogni apparenza in contrario. Non c’è difficoltà, generalmente, a riconoscere che l’epoca costantiniana è finita e che siamo ormai fuori del cosiddetto regime di cristianità. Ma la nostra pastorale dei sacramenti continua, imperterrita, come se tutto fosse come prima, e la fede cristiana dei nubendi fosse da dare per scontata, come ancora poteva forse esserlo mezzo secolo fa. Quanti parroci avranno il coraggio di verificare l’effettiva e avvenuta “iniziazione cristiana” di chi chiede di sposarsi in Cristo? O sarà più facile aggrapparsi ad una qualche “misericordia postuma”?
Magrassi ha colto con molta perspicacia il carattere fondamentale dell’elemento iniziatico dell’essere cristiani per una pastorale generale. Diventa quello che sei. Dal Battesimo a una maturità di fede e coerenza di vita, recitava il titolo di una sua lettera pastorale programmatica del 1982, che faceva seguito e completava un’altra lettera pastorale di due anni prima: Evangelizzare gli adulti, nella quale era già indicato il punto di avvio: ripartire dal battesimo, creare una “coscienza e una pastorale catecumenali”, affinché si potessero avvertire gli effetti benefici di questa scelta su tutti gli altri ambiti della vita ecclesiale, compresa l’evangelizzazione[12]. Come a dire: se abbiamo a che fare con dei “cristiani” la comunità ecclesiale funzionerà meglio a tutti i livelli.
Tutto questo, per p. Mariano, ha significato prendere sul serio l’atto fondamentale da cui dipendono tutti gli altri atti cristiani: l’ingresso nella fede in Cristo Figlio di Dio e nella comunità cristiana sua Sposa. Tutta la tensione della pastorale per Magrassi penso si possa raccogliere sostanzialmente in questo aspetto iniziatico: accompagnare gli uomini di oggi in questo “grande ingresso” nel mistero di Cristo e della Chiesa. E’ dunque, la sua, una pastorale mistagogica, cioè una pastorale ispirata al “Centro”. Lo dice in diversi passi dei suoi scritti, ha cercato di attuarlo nel suo stile episcopale. Lo scrive in modo chiaro in un suo bel saggio che meriterebbe di essere ripreso e meditato per intero, intitolato, significativamente Per una pastorale ancorata all’altare. Alla domanda “cos’è la pastorale?”, egli risponde: “è l’attività mediatrice con cui la Chiesa conduce il popolo a Cristo e lo mantiene in contatto vitale con Lui”[13]. Questa pedagogia dell’incontro è per Magrassi tutto il senso della pastorale come iniziazione. E poiché questo incontro si compie in modo eminente e pregnante nello spazio della celebrazione, egli ne conclude che la pastorale vuol dire condurre il popolo di Dio a celebrare e vivere la liturgia. “La liturgia non è fare qualcosa, ma incontrare qualcuno”, ha detto e scritto più volte.
Certo, egli distingue due movimenti complementari e inconfondibili: “portare la liturgia al popolo” e “portare il popolo alla liturgia”; ma il punto di partenza e di arrivo è chiaro: si tratta della celebrazione come fons e come culmen. Dunque, il senso ultimo dell’evangelizzazione, un tema sensibile dell’episcopato di Magrassi che egli definì “l’urgenza dell’ora[14], è introdurre, iniziarea Cristo. E il pastore è non solo l’apostolo della parola, ma anche e inseparabilmente un mistagogo.
Magrassi, insomma, ci sollecita ancora oggi a chiarire il rapporto fra missione e mistagogia. Va bene la “chiesa in uscita”, ma se prima non si entra nella Chiesa, chi dovrebbe uscire per andare verso le periferie? Se la cresima, di fatto, si è trasformata in una “estrema unzione”, nel “viatico” che si dà a dei cristiani moribondi (e moribondi in quanto cristiani!), come possiamo sperare in una chiesa missionaria e nella nuova evangelizzazione? Ora Magrassi in proposito ha le idee semplici e chiare: la chiesa missionaria è in vista della chiesa mistagogica e quest’ultima rende possibile quella missionaria; la soteriologia ha come scopo la dossologia, il viceversa non vale in modo del tutto simmetrico! Questo è un altro esempio del senso dell’equilibrio negli accenti di cui p. Mariano dà prova. L’uscire per lui è in vista dell’entrare e se prima non si entra nel mistero di Cristo neanche si può sperare di introdurvi altri. Questa coordinazione fra missione e la mistagogia, è una cornice di pensiero che non solo aiuta a disambiguare la formula “chiesa in uscita”, ma le dà anche un sicuro senso teologico. “Uscire”, nella Bibbia, ha diversi significati che non possono essere ridotti ad un generico “uscire da se stessi”, in senso psicologico o esistenziale. Questo lo può e lo deve fare chiunque. Ciò che serve è una teologia dell’uscita, per sapere cosa significa per un cristiano questa parola: uscire da dove per andare dove? Ma di questa accezione teologica dell’uscire non mi sembra che ci sia traccia in giro. E’ rischioso adottare parole del linguaggio ordinario e trasferirle nell’ecclesiologia e nella pastorale senza una sufficiente traduzione teologica.
Dall’introito all’Ite missa (missio) est, è descritto il senso teologico della categoria di uscita e del suo rapporto con quello correlativo e inseparabile di entrata. Il richiamo forte alla pastorale come arte del condurre iniziaticamente all’incontro con Cristo, penso che consenta a Magrassi di presentarsi oggi con una parola pertinente e illuminante. C’è un centro da cui partire e a cui ritornare, c’è uno luogo teologico nel quale l’iniziazione ci immette, dal quale partire verso il mondo e in cui, alla fine, rientrare. La liturgia come culmen e fons è in grado di mediare al suo interno questi estremi.
“Appena sapremo infondere nel rito un palpito di vita, ci accorgeremo quale gioia, quale forza, quale slancio missionario si sprigiona dal Mistero cristiano. Nella sua celebrazione la parola annunzia il Mistero nell’atto in cui esso si compie: è una catechesi attiva, più ancora una catechesi-azione [...] ogni fedele che ha fatto quell’esperienza, si sente inviato in missione verso i fratelli e li accosta con il dinamismo ad un tempo attrattivo ed espansivo della comunità apostolica”[15].
6. Un accordo da ritrovare: liturgia, teologia, spiritualità
Qualche considerazione vorrei dedicarla, per finire, al rapporto fra liturgia, teologia, spiritualità. Si tratta di tre campi che per loro natura sconfinano reciprocamente, ma che negli ultimi secoli, com’è noto, si sono progressivamente estraniati, diventando tendenzialmente se non autonomi almeno estrinseci. A partire dal movimento liturgico e dal Vaticano II si è certamente lavorato molto per riconciliare liturgia e teologia, fino a dar vita non solo a una teologia della liturgia, ma anche a una teologia liturgica fondata su una liturgia intesa come locus theologicus. Tuttavia va anche detto, su questo versante, che tutta la sistematica fa ancora fatica a considerare la celebrazione come uno dei suoi fondamenti. Alla salutare riscoperta della Sacra Scrittura come “anima di tutta la teologia” (cf Dei Verbum 24), non ha fatto riscontro una riproposizione altrettanto forte della liturgia come grembo della teologia. La teologia fondamentale, nonostante alcuni importanti passi in avanti, generalmente continua a non toccare la questione liturgica come pertinente ai fondamenti del sapere teologico.
Per altro verso sappiamo che nonostante il movimento liturgico fosse animato, fin dalle sue origini, dal desiderio di rendere la celebrazione luogo di esperienza del mistero, cioè di vita spirituale, si creò ben presto una incomprensione e polemica fra spiritualità “soggettiva” e “oggettiva”, la prima promossa dagli studiosi di teologia spirituale, l’altra dai liturgisti. Nonostante i toni polemici si siano da tempo placati, continua a permanere una sorta di non communicatio idiomatum fra i due ambiti menzionati, fra gli spirituali e i liturgisti. Anche se si parla di spiritualità “e” liturgia e si scrivono libri di “spiritualità liturgica”, l’accostamento fra le due dimensioni è ancora abbastanza estrinseco. Tanto che anche in recentissimi manuali di teologia spirituale, gli aspetti del rito e della celebrazione vengono pressoché ignorati o non rivestono che ruoli del tutto marginali.
Un altro lato del problema – la relazione fra spiritualità e teologia – ha fatto diversi passi in avanti, ma stenta a raggiungere risultati soddisfacenti, forse proprio perché sia la spiritualità sia la teologia non hanno ancora davvero compreso che solo partendo dalla preghiera e dall’azione liturgiche possono trovare il loro unico radicamento e la loro origine comune, che le metta in reciproca comunicazione.
Ha da dire qualcosa Magrassi a questo ancora incompiuto accordo a tre voci fra teologia, liturgia, spiritualità, da cui dipende in sostanza l’equilibrio generale del sapere teologico e della vita ecclesiale? Personalmente ritengo di sì. E vorrei non tanto di-mostrarlo a suon di citazioni, ma quanto, più modestamente, suggerirlo, attraverso alcuni indicatori che emergono dalla sua opera.
Se è nota e scontata la competenza di Magrassi in campo liturgico, non deve sfuggire che nei suoi scritti la riflessione si allarga, a partire dalla liturgia, verso i vari temi teologici, in particolare il già ricordato rapporto fra cristologia e pneumatologia o ancora una ecclesiologia eucaristico-comunionale. Insomma, si percepisce chiaramente che attorno al centro liturgico, nella mente e nel cuore di Magrassi prende vita una visione d’insieme dell’intero mistero cristiano, in tutte le sue sfaccettature. Non dobbiamo dimenticare che egli si addottora in teologia con una tesi dall’impronta sistematica. L’indice del suo libro su Ruperto rivela un “teologo” a tutto tondo, capace di ricostruire un universo teologico unitario, una visione organica. Questa apertura alla totalità della forma cristiana resta un imprinting di tutti i suoi scritti e della sua predicazione.
Per altro verso, quello che della liturgia e della lectio divina attira Magrassi non è l’erudizione né l’opera teoretica, bensì il loro essere luoghi di incontro col Cristo vivente. Egli, oltre che appassionato della liturgia, è una “uomo spirituale”, in quanto monaco, e sensibile all’esperienza personale del mistero. Perciò risulta del tutto estraneo all’opposizione prima menzionata fra spiritualità oggettiva e soggettiva e nei suoi esercizi spirituali o nelle sue omelie, sa essere parenetico e mistico, pur mantenendo un profilo molto teologico. Egli espone il mistero in tutte le sue implicazioni: teologiche, celebrative, spirituali. E da liturgista non si vergogna di citare i santi e i mistici antichi e moderni: Agostino, ma anche le due Terese, Gregorio Magno e Ch. De Foucauld, Bernardo come Gemma Galgani o il p. Faber.
In conclusione, mi sembra di poter dire che nelle pagine di p. Mariano, anche se non si trova una riflessione formale sui rapporti fra liturgia, teologia, spiritualità e ovviamente pastorale, si può però assaporare una miscela ben dosata tra questi ingredienti, impastati fra loro. Non ha formalizzato il problema, ma ne ha dato, almeno in qualche misura, una certa soluzione. Anche per questo egli è un invito sempre attuale a camminare ancora lungo questa direttrice così importante.
7. Conclusione
Ci sarebbero altri aspetti da ricordare, tra i quali il contributo e l’attenzione di mons. Magrassi per l’ecumenismo. Ma vorrei concludere queste considerazioni con alcune parole sintetiche, parole non mie, ma mutuate dalla laudatio tenuta dal benedettino p. Daniele Gelsi nell’Ateneo S. Anselmo di Roma nel 1985 per il conferimento della laurea honoris causa in liturgia a p. Magrassi. Diceva in quell’occasione il monaco di Chevetogne di p. Mariano: “Le sue pagine sulla liturgia [...] sono un immenso discorso di pedagogia liturgica del quale i semplici non si spaventano e i colti non si annoiano”. “I Padri della Chiesa sono l’esempio eloquente che un vescovo non ha l’obbligo di limitarsi all’investigazione scientifica: Ambrogio, Basilio, Cirillo di Gerusalemme, Gregorio Nazianzeno, Crisostomo, Agostino sono il modello di una tale catechesi. Osiamo dire che Mons. Magrassi appartiene alla loro famiglia, quella dei pastori che spiegano al popolo cose veramente essenziali”[16].
Simili parole di apprezzamento non si regalano facilmente e a chiunque.
Giulio Meiattini
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[1] Cf i contributi contenuti in S. Palese – M. Bellino (a cura di), Mariano Andrea Magrassi Arcivescovo di Bari-Bitonto (1977-1999). Monaco, maestro, pastore, Bari 2014. Il volume contiene ulteriore bibliografia secondaria, oltre la bibliografia completa di mons. Magrassi.
[2] M. Magrassi, Teologia e storia nel pensiero di Ruperto di Deutz, Roma 1960.
[3] Ora in Vivere la Liturgia, Noci 1977, 29-64.
[4] Cf specialmente i due libretti Il fuoco dello Spirito nel calice, Noci 1984 e Dal costato trafitto la sorgente dello Spirito, Noci 1986.
[5] Bibbia pregata, in M. Magrassi (et al.), L’ ‘oggi’ della Parola di Dio nella liturgia, (=Quaderni di Rivista Liturgica, 10), LDC, Torino-Leumann 1970, pp. 179-292; ripubblicato come Bibbia e preghiera. La lectio divina, Roma-Milano 1973.
[6] Cf Vivere la Chiesa, vol. II: La Chiesa nel vissuto quotidiano, Noci 1987, 268s.
[7] Vivere la Chiesa, vol. II, cit., p. 19s.
[8] Cf Per una società equa e solidale. Messaggi sociali, Noci 1997.
[9] Cf C. Boff, Ritorno al fondamento, in “Il Regno Documenti”, 53 (2008) 557-567.
[10] Vivere la Chiesa, vol. II, cit., 24 e 25.
[11] Brescia 20024, 9.
[12] Cf Evangelizzare gli adulti. Scelta pastorale per una Chiesa in cammino, Noci 1980;Diventa quello che sei. Dal Battesimo a una maturità di fede e coerenza di vita, Milano 1983.
[13] Il saggio è reperibile in Vivere la liturgia, cit., 261.
[14] Cf L’urgenza dell’ora: evangelizzare tutti. Progetto pastorale per gli anni ‘80, Noci 1984.
[15] Per una pastorale ancorata all’altare, cit., 267.
[16] D. Gelsi, Laudatio per il conferimento del dottorato “honoris causa” in S. Liturgia a S. Ecc. Mons. Mariano Magrassi, arcivescovo di Bari, in “Ecclesia Orans” 2 (1985) 213.