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Enzo Bianchi Omelia Venerdì Santo 2015

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Venerdì santo, 3 aprile 2015
Gv 18,1-19,37
Commento al Vangelo di Enzo Bianchi
dal sito del Monastero di Bose

Cari amici,

abbiamo ascoltato il racconto della passione di Gesù nel quarto vangelo, abbiamo potuto contemplare quello “spettacolo” che Luca chiama theoría (Lc 23,48), spettacolo di gloria, epifania della gloria di Dio.
Ora non possiamo certo commentare e neppure glossare questo lungo racconto, ma possiamo sostare almeno su una parola di Gesù: l’ultima, secondo Giovanni, da lui detta prima di morire. È una parola unica e breve: “Tetélestai, è compiuto!” (Gv 19,30), parola che permette a Gesù di reclinare finalmente il capo e di consegnare lo Spirito.

Nel quarto vangelo ci sono due verbi che hanno quasi lo stesso significato: teléo/teleióo e pleróo, entrambi tradotti in italiano con “compiere”, entrambi applicati nei vangeli alle sante Scritture, alla Parola, alla promessa del Signore. Compiere, cioè realizzare e portare a termine. Potremmo dire che sono i verbi che riassumono la vocazione-missione di Gesù dall’inizio della sua vita fino alla morte, verbi che dicono come Gesù è stato Servo del Signore, Figlio obbediente del Padre, uomo conforme alla volontà di Dio.

Fermandoci solo al quarto vangelo, notiamo che il compimento è innanzitutto un compiere azioni e gesti da parte di Gesù. In Gesù – è lui a dirlo – c’è una fame, dunque “suo cibo è fare la volontà di colui che l’ha inviato e compiere la sua opera” (cf. Gv 4,34), nella piena consapevolezza che “il Padre gli ha dato opere da compiere” (cf. Gv 5,36). È un compimento che gli viene come urgenza a partire dal proprio intimo, dalla propria coscienza, dove Gesù ascolta e discerne la parola del Padre. Non dovremmo mai dimenticare che in Gesù, ma in ogni uomo e ancor più in ogni cristiano che crede in questa voce di Dio che lo abita, c’è l’esercizio continuo e quotidiano di accogliere l’ispirazione della Parola di Dio Padre. Perché Dio è Altro da noi, è Santo, ma non può parlare né farsi sentire se non nel nostro intimo, in quel santo dei santi che sta nel nostro profondo e dal quale procedono il pensiero, il discernimento, la scelta, l’azione. Ecco perché la parola di Dio, accolta, va custodita, interpretata e realizzata fino al pieno compimento. Fino a poter dire, con Gesù: “Ho compiuto, ho portato a termine l’opera che tu, Padre, mi hai dato da fare” (cf. Gv 17,4).

Ma accanto a questo compiere la volontà del Padre, c’è anche il compiere le sante Scritture (e qui predomina il verbo pleróo). È necessario, di una necessità divina, che si realizzino le Scritture, e Gesù può solo predisporre tutto con semplicità affinché Dio operi, faccia lui, realizzi lui la Parola che aveva consegnato nella Legge, nei Profeti e nei Salmi (cf. Lc 24,44: verbo pleróo!). Soprattutto durante la passione è frequente l’espressione “affinché si compisse (hína plerothê) la Scrittura” o “la parola di Gesù”, seguita da ciò che è avvenuto. Dopo il fallimento dei segni operati da Gesù lungo tutto il suo ministero, Giovanni annota: “Nonostante avesse compiuto segni tanto grandi davanti a loro, non credevano in lui, affinché si compisse la parola detta dal profeta Isaia: ‘Signore, chi ha creduto alle cose udite da noi?’ (Is 53,1)” (Gv 12,37-38). Da quel momento tutto accade alla luce del compimento delle Scritture:

Affinché si compisse la Scrittura: “Colui che mangia il mio pane ha alzato contro di me il suo calcagno” (Gv 13,18; Sal 41,10).
Affinché si compisse la Scrittura, nessuno di loro è andato perduto, tranne il figlio della perdizione (Gv 17,12).
Affinché si compisse la parola che [Gesù] aveva detto: “Non ho perduto nessuno di quelli che mi hai dato” (Gv 18,9; cf. 6,39; 10,28; 17,12).
Affinché si compisse la parola che Gesù aveva detto, indicando di quale morte doveva morire (Gv 18,32; cf. 12,33).
Affinché si compisse la Scrittura che dice: “Si sono divisi tra loro le mie vesti e sulla mia tunica hanno gettato la sorte” (Gv 19,24; Sal 22,19).

E ciò continua addirittura dopo la morte di Gesù:

Affinché si compisse la Scrittura: “Non gli sarà spezzato alcun osso” (Es 12,46; Sal 34,21). E un altro passo della Scrittura dice ancora: “Volgeranno lo sguardo a colui che hanno trafitto” (Zc 12,10) (Gv 19,36-37).

La Scrittura che contiene la parola di Dio si compie, come la pioggia che discende dal cielo non può tornare al cielo senza prima aver bagnato la terra (cf. Is 55,10); si compie perché Gesù fa tutto per assecondare questa realizzazione, a volte addirittura ritraendosi, non facendo nulla, e soprattutto rinunciando a ogni forma di volontarismo. Il rapporto tra le sante Scritture e Gesù è l’unico capace di darci la vera postura di Gesù, di farci capire il suo stile che a volte ci disturba o addirittura ci scandalizza.

Tutto questo doveva essere messo in rilievo, per poter comprendere l’ultima epifania di Gesù in croce, la sua ultima parola, la sua ultima azione. Siamo al versetto 28 del capitolo 19 del quarto vangelo,
quando Gesù è in croce in mezzo ad altri due (cf. Gv 19,18);
quando un cartello sovrastante il suo capo dice, in ebraico, greco e latino, la sua vera identità: “Gesù il Nazoreo, il Re dei giudei” (cf. Gv 19,19-20);
quando Gesù è nudo, perché spogliato, e le sue vesti vengono divise, la sua tunica tirata a sorte tra i soldati (cf. Gv 19,23-24);
quando Gesù ha affidato il discepolo amato alla madre e la madre al discepolo amato, dando generazione alla chiesa, “non da sangue, né da volere di carne, né da volere di uomo” (Gv 1,13; cf. 19,25-27).

Allora il vangelo prosegue: “Dopo ciò, Gesù sapendo che tutto stava compiendosi, affinché si compisse la Scrittura, disse: ‘Ho sete’” (Gv 19,28). Fino all’ultimo momento il vangelo vuole dirci che Gesù non è stato trascinato alla morte, che questa non era imprevista. Gesù vuole essere fedele alla sua coscienza e alle sante Scritture, sa che c’è ancora una Scrittura che deve compiersi, e allora, puntualmente, predispone se stesso perché si compia, dicendo: “Ho sete”. Stava scritto nel salmo 69: “Nella mia sete mi fanno bere l’aceto” (v. 22), cioè – dice il salmista – nella mia sete di Dio gli uomini mi offrono da bere aceto! Ecco dunque il grido di Gesù, affinché anche quel versetto che narra la passione del giusto possa compiersi puntualmente. Tutto sta per compiersi, tutto sta per realizzarsi, Gesù lo sa e vuole, desidera che così avvenga: la sua sete è sete di vedere realizzata la volontà di Dio contenuta nelle Scritture. “Tutte le cose sono compiute” (pánta tetélestai), e “affinché si compisse la Scrittura” (hína plerothê he graphé), Gesù dice: “’Ho sete’ … E quando ebbe prese l’aceto, disse: ‘È compiuto!’ (Tetélestai). E, reclinato il capo, consegnò lo Spirito” (Gv 19,28.30).

Questa l’ultima parola di Gesù secondo Giovanni, parola significativa: è compiuto, è realizzato tutto!, dove il soggetto che tutto ha compiuto è il Padre, ma strettamente associato a Gesù. Il Padre ha compiuto, Gesù ha compiuto ciò che era desiderio del Padre. Questo è un grido di vittoria, un grido glorioso, un sigillo a tutta la sua vita. Nell’ora della passione Gesù aveva pregato: “Padre, … io ti ho glorificato sulla terra, compiendo (verbo teleióo) l’opera che mi hai dato da fare” (Gv 17,4), ed ecco venuta l’ora del compimento. Gesù può cantare: “È fatta!”. Pensateci, in quel momento al tempio, prospiciente il Golgota, c’è un lamento, un belare senza fine di agnelli sgozzati per la Pasqua, e Gesù grida: “È compiuto!”. Ecco perché, detto questo, non “spirò”, come dicono i sinottici (cf. Mc 15,37; Lc 23,46), non “morì”, come penseremmo di dover leggere, ma parédoken tò pneûma, “effuse, consegnò lo Spirito”, lo Spirito santo, il suo respiro santo, e così dà inizio alla nuova creazione, perché ormai la vecchia creazione è passata, non c’è più (cf. 2Cor 5,17)!

Cari amici, a questo punto dobbiamo dire una cosa importante. Gesù ha detto sulla croce sette parole e noi dobbiamo raccoglierle, ripeterle, e possiamo viverle. Possiamo riviverle tutte tranne una, quest’ultima: “È compiuto!”. Pensateci, quando verrà la morte non potremo mai dire: “È compiuto!”, perché ce ne dovremo andare lasciando tante cose non terminate e, soprattutto, non terminando l’opera che il Signore ci ha dato personalmente da compiere. Nella nostra professione monastica, il priore a un certo punto della liturgia dice al monaco che fa professione definitiva: “Dio porti a termine l’opera che ha iniziato in te”. Sì, Dio nel battesimo ha iniziato in ciascuno di noi un’opera, una vocazione, una missione che dobbiamo realizzare; ma – stiamone certi – non la porteremo mai a termine… Secondo la tradizione rabbinica, Dio disse a Mosè, che alla fine della vita voleva terminare l’opera di liberazione del popolo da lui affidatagli e farlo entrare nella terra promessa: “Non spetta a te compiere l’opera, ma non sei libero di sottrartene” (Pirqè Avot 2,16). Allo stesso modo, questa è anche l’obbedienza che spetta a noi: non portare a termine, non portare a compimento ciò che vorremmo e ciò che ci ha chiesto il Signore, e nello stesso tempo non sottrarcene. Questa è una rinuncia, è un accettare la morte di una parte di noi stessi, ma è ciò che dobbiamo assolutamente fare, nella fiducia che “chi ha iniziato l’opera in noi, la porterà a compimento (verbo epiteléo)” (cf. Fil 1,6), come assicura l’Apostolo Paolo.

Davvero la parola: “Tutto è compiuto!” non possiamo dirla. Lasciamo che Gesù la dica al Padre e all’universo intero per noi. Anche quest’arte del lasciare la presa fa parte del nostro stile, ma è possibile se non c’è paura e se non c’è arroganza, questi due poli tra i quali oscilliamo costantemente, incapaci come siamo di dire “no”, di combattere la paura e l’arroganza.
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