Manicardi 10 novembre 2013 XXXII Tempo O.
Fonte: monasterodibose
domenica 10 novembre 2013
Anno C
2Mac 7,1-2.9-14; Sal 16; 2Ts 2,16-3,5; Lc 20,27-38
2Mac 7,1-2.9-14; Sal 16; 2Ts 2,16-3,5; Lc 20,27-38
La morte per martirio di sette fratelli in epoca maccabaica attesta la fede nel Dio capace di far risorgere i morti (I lettura); il caso (una finzione costruita ad arte) dei sette fratelli che sono morti senza lasciare figli dopo avere sposato in successione la stessa donna, viene giocato dai Sadducei per mettere in ridicolo la credenza nella resurrezione dei morti (vangelo). Al centro delle letture odierne vi è dunque la fede nella resurrezione dei morti.
Se il caso presentato dai Sadducei a Gesù appare evidentemente grottesco e incredibile, tuttavia la posizione espressa da tale episodio fittizio raggiunge l’uomo d’oggi e anche i credenti. I Sadducei “negano che vi sia resurrezione” (Lc 20,27) e la storiella dei sette fratelli ha il fine di volgere in ridicolo tale credenza, di dimostrarne l’assurdità. Oggi alla posizione “colta” che critica il cristianesimo che con la resurrezione dimostrerebbe di non saper abitare il tragico come gli antichi greci, e a quella che vede nella resurrezione un’evasione nell’al di là, un inverificabile happy end consolatorio apposto alla drammaticità della storia, si affiancano la reticenza e l’imbarazzo che a volte abitano gli stessi credenti di fronte alla fede nella resurrezione. A volte non siamo poi così distanti dalle posizioni dei Sadducei! Forse ci scandalizza di più la resurrezione che la morte di croce. Dunque, il primo messaggio che emerge dal testo è la fede nella resurrezione come scandalo.
Ma è uno scandalo che si oppone all’ovvietà della morte. La resurrezione è tutto fuorché ovvia. È l’incredibile per eccellenza, e dunque il vero contenuto della fede. La fede cristiana è fede nella resurrezione e la fede nella resurrezione è, tout court, la fede cristiana. Fede che Cristo è risorto dai morti e fede che i morti risorgeranno in Cristo. “Se Cristo non è risorto, vana è la vostra fede” (1Cor 15,17); “Se non esiste resurrezione dai morti, neanche Cristo è risorto!” (1Cor 15,13). La risposta che Gesù dà ai Sadducei indica certamente che la resurrezione è già attestata nella Torah perché Abramo, Isacco e Giacobbe sono viventi in Dio. I patriarchi che hanno vissuto per Dio ora vivono in lui e grazie a lui (“tutti vivono per lui”: Lc 20,38).
Il discorso sulla resurrezione viene così riportato all’oggi e alle motivazioni del vivere oggi. E dal testo emerge una domanda: per chi vivo? Perché vivo? Grazie a cosa vivo? Che cosa mi fa vivere? Se la domanda-trabocchetto dei Sadducei nasconde anche una serietà, questa riguarda certamente il futuro delle nostre relazioni, del nostro amore, dell’amore che abbiamo speso oggi. E la risposta di Gesù, oltre a contestare una visione della vita futura come prosecuzione di questa, come proiezione e prolungamento del presente, la strappa anche a speculazioni astratte e riporta all’oggi storico il credente interpellandolo sulle motivazioni del suo vivere. Chi ha una ragione per morire, ha anche una ragione per vivere. Chi ha una ragione per cui dare la vita, ha anche una motivazione per vivere.
L’argomentazione studiata dei Sadducei induce anche un’altra riflessione. Il caso dei sette fratelli che, uno dopo l’altro, lasciano vedova la stessa donna che alla fine muore lei pure, è sì un caso artefatto, ma la vita è piena di casi tragici che spesso sono molto più dolorosi di quanto la fantasia possa immaginare. La riduzione del dolore umano, di un caso tragico, a argomentazione dialettica, dice anche il cinismo e la possibile violenza della parola e, in particolare, della parola teologica, almeno quando e se riduce la realtà a casistica, quando e se è scissa dalla compassione umana. Criterio di verità della parola, e anche della parola teologica, è il suo sentire il dolore umano, il suo lasciarsi abitare dalla sofferenza umana, e dunque il suo rifiutarsi di manipolare il dolore altrui e, per quanto possibile, di aggiungere dolore a dolore, di creare sofferenza inutile. Il discorso teologico e pastorale riesce a raggiungere e toccare il credente nel tragico della sua esistenza? O lo usa per difendere o sostenere una posizione dottrinale?
Se il caso presentato dai Sadducei a Gesù appare evidentemente grottesco e incredibile, tuttavia la posizione espressa da tale episodio fittizio raggiunge l’uomo d’oggi e anche i credenti. I Sadducei “negano che vi sia resurrezione” (Lc 20,27) e la storiella dei sette fratelli ha il fine di volgere in ridicolo tale credenza, di dimostrarne l’assurdità. Oggi alla posizione “colta” che critica il cristianesimo che con la resurrezione dimostrerebbe di non saper abitare il tragico come gli antichi greci, e a quella che vede nella resurrezione un’evasione nell’al di là, un inverificabile happy end consolatorio apposto alla drammaticità della storia, si affiancano la reticenza e l’imbarazzo che a volte abitano gli stessi credenti di fronte alla fede nella resurrezione. A volte non siamo poi così distanti dalle posizioni dei Sadducei! Forse ci scandalizza di più la resurrezione che la morte di croce. Dunque, il primo messaggio che emerge dal testo è la fede nella resurrezione come scandalo.
Ma è uno scandalo che si oppone all’ovvietà della morte. La resurrezione è tutto fuorché ovvia. È l’incredibile per eccellenza, e dunque il vero contenuto della fede. La fede cristiana è fede nella resurrezione e la fede nella resurrezione è, tout court, la fede cristiana. Fede che Cristo è risorto dai morti e fede che i morti risorgeranno in Cristo. “Se Cristo non è risorto, vana è la vostra fede” (1Cor 15,17); “Se non esiste resurrezione dai morti, neanche Cristo è risorto!” (1Cor 15,13). La risposta che Gesù dà ai Sadducei indica certamente che la resurrezione è già attestata nella Torah perché Abramo, Isacco e Giacobbe sono viventi in Dio. I patriarchi che hanno vissuto per Dio ora vivono in lui e grazie a lui (“tutti vivono per lui”: Lc 20,38).
Il discorso sulla resurrezione viene così riportato all’oggi e alle motivazioni del vivere oggi. E dal testo emerge una domanda: per chi vivo? Perché vivo? Grazie a cosa vivo? Che cosa mi fa vivere? Se la domanda-trabocchetto dei Sadducei nasconde anche una serietà, questa riguarda certamente il futuro delle nostre relazioni, del nostro amore, dell’amore che abbiamo speso oggi. E la risposta di Gesù, oltre a contestare una visione della vita futura come prosecuzione di questa, come proiezione e prolungamento del presente, la strappa anche a speculazioni astratte e riporta all’oggi storico il credente interpellandolo sulle motivazioni del suo vivere. Chi ha una ragione per morire, ha anche una ragione per vivere. Chi ha una ragione per cui dare la vita, ha anche una motivazione per vivere.
L’argomentazione studiata dei Sadducei induce anche un’altra riflessione. Il caso dei sette fratelli che, uno dopo l’altro, lasciano vedova la stessa donna che alla fine muore lei pure, è sì un caso artefatto, ma la vita è piena di casi tragici che spesso sono molto più dolorosi di quanto la fantasia possa immaginare. La riduzione del dolore umano, di un caso tragico, a argomentazione dialettica, dice anche il cinismo e la possibile violenza della parola e, in particolare, della parola teologica, almeno quando e se riduce la realtà a casistica, quando e se è scissa dalla compassione umana. Criterio di verità della parola, e anche della parola teologica, è il suo sentire il dolore umano, il suo lasciarsi abitare dalla sofferenza umana, e dunque il suo rifiutarsi di manipolare il dolore altrui e, per quanto possibile, di aggiungere dolore a dolore, di creare sofferenza inutile. Il discorso teologico e pastorale riesce a raggiungere e toccare il credente nel tragico della sua esistenza? O lo usa per difendere o sostenere una posizione dottrinale?
LUCIANO MANICARDI