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«Ravviva il dono che è in te» - Manicardi

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Normalmente arriviamo alla seconda fase della vita impreparati, ignoranti, inesperti. Non sappiamo che fare, non abbiamo punti di riferimento...
Approfondimenti
Paolo, rivolgendosi a Timoteo dice: "Ravviva il dono che è  in te". Questa espressione si trova all'interno della 2° lettera a Timoteo, lettere così dette "particolari"; si tratta di testi abbastanza tardivi, risalenti alla fine del 1° secolo dopo Cristo e si riferiscono ad una fase della vita ecclesiale che non è più esattamente quella delle origini. Questo dato emerge chiaramente se si leggono le lettere pastorali.
Il clima è pesante e queste lettere si muovono in un conteso ecclesiale molto faticoso.
La 2a lettera a Timoteo parla di momenti difficili e ci viene suggerito che anche le comunità hanno delle fasi di vita, hanno delle età.
1° La fase ecclesiale in cui è scritta questa lettera, non è più quella delle origini, in cui la fresca sorgività del Vangelo e l'entusiasmo, la forza della novità erano dominanti. Anche nelle origini di una comunità - e voi potete pensare probabilmente alle origini dei vostri Istituti - al momento di slancio profetico, al momento in cui la carità sopperiva alle difficoltà e aiutava a superare dei momenti anche critici, succede una seconda fase.
Non siamo più in questa fase iniziale e neanche in quella immediatamente successiva che è stata quella della Chiesa, dello slancio missionario, degli anni 60. Con Paolo era in atto l'evangelizzazione del Mediterraneo, c'è creatività e la corsa della parola a cui ci si dedica con impegno era attiva.
È seguita anche una fase in cui si è provveduto ad una ristrutturazione, un'organizzazione, un consolidamento e una ricerca di stabilità comunitaria in vista di una durata.
Dal contesto storico si percepisce che la fede deve essere vissuta nel tempo e questo richiede una strutturazione. Ormai emerge che siamo in una fase in cui si evidenzia una certa stanchezza e decadenza; emergono anche delusioni e frustrazioni. Vengono emanate costantemente dottrine erronee, decadimento morale, deviazioni e abbandoni.
C'è una fase in cui proprio il tempo passato, la distanza stessa, i decenni trascorsi dal momento sorgivo, fa si che la stanchezza e la disillusione possono arrivare a primeggiare sullo sforzo innovativo e creativo del Vangelo. Questo è il problema e quindi si rischia di ingenerare anche il ripiegamento, l'individualismo, la ricerca del protagonismo.
Le fasi: nascita, sviluppo, crescita, decadenza, eventualmente anche morte, esercitano, per una comunità e non solo per una persona e per l'individuo, un particolare influsso.
È importante per noi il saper leggere la fase che si sta vivendo all'interno della nostra comunità.
2° Elemento: chi è colui che sta scrivendo questa Parola? Perché in questa esortazione: "ravviva il dono di Dio che è in te" c'è chi fa l'esortazione e chi la riceve.
Colui che fa l'esortazione è Paolo giunto quasi alla conclusione della sua vita ed è molto importante sapere che colui che sta scrivendo è colui che nella 2a a Timoteo 4,6-7 dice: "Io sto per essere versato in offerta. È giunto il momento in cui io lascio questa vita; è giunto il tempo di sciogliere le vele. Ho combattuto la buona battaglia, ho terminato la corsa, ho conservato la fede".
È interessante cogliere la bella oggettività di chi può fare una anamnesi, leggere a ritroso la propria vita e dire: "Ho conservato la fede" che non è affatto scontato, anzi, spesso, avendo a che fare in prima persona con le cose di Dio, rischiamo di trattarle come delle cose, non più come un mistero in cui entrare sempre nuovamente; inoltre la familiarità con le cose di Dio ci può portare addirittura a mettere a rischio la fede. Paolo è molto chiaro: "Ho combattuto, la vita è stata una battaglia; ho terminato la corsa che è stata una grande fatica: ho conservato la fede: ecco l'essenziale. Paolo si sta ponendo dal punto di vista ormai della fine che egli vede come traguardo davanti a sé, senza alcuna disperazione e da quel punto di vista, rilegge la sua vita passata. Questo è molto interessante e, a questo punto, è importante leggere i versetti precedenti di 2a Tim 1,3-5. Qui Paolo fa memoria dei vissuti personali trascorsi con Timoteo. Verso la fine della vita guarda indietro e fa emergere il lato più affettivo senza alcuna vergogna e imbarazzo, fa emergere i rapporti buoni avuti con Timoteo e con altre persone e scrive: "Mi tornano alla mente le tue lacrime, ho nostalgia di rivederti".. È molto bello questo!
Alla fine della vita o all'inoltrarsi di essa osa guardarsi indietro alle storie vissute insieme, al vissuto di amore che c'è stato.
L'amore è sempre relazione intra-umana, è relazione con dei fratelli, dei collaboratori per Paolo. Per noi è relazione con consorelle, con persone vicine all'Istituto, alla famiglia religiosa, alla comunità.
Chi io amo? Chi mi ama? Si tratta di due domande così semplici eppure così decisive che si fanno sempre più strada in noi, man mano che si avanza nell'età. E più si progredisce nell'età si fa anche più vivo il bisogno di un affetto più saldo, più fisso...
È importante porsi queste domande perché non si può dire che ci sono stati solo rapporti positivi; anzi, questi vengono ricordati come una grande preziosità, ma Paolo può ricordare ben altro; 2a Tim 4,10: "Demo mi ha abbandonato, ha preferito le cose di questo mondo, se ne è andato". Anche noi possiamo ricordare consorelle che hanno abbandonato, che non sono più insieme a noi, persone alle quali ci si è legate per una certa storia e poi è tutto finito.
La vita religiosa che abbiamo scelto arriva a dare della gioie e tante ferite, tante amarezze, tante delusioni ed è reale tutto questo. È assolutamente reale, sarebbe mistificatorio voler tutto addolcire. È importante questa memoria degli affetti buoni vissuti che portano ad assumere anche le perdite che ci sono state, le perdite sul piano affettivo delle relazioni che non hanno ad un certo punto avuto un senso e poi tutto comunque all'interno di una coscienza molto chiara: "il Dio che io servo" ecco la centralità della missione.
C'è un sì che ciascuno di noi ha detto ed è proprio in queste lettere che Paolo arriva a dire: "lo so a chi ho affidato la mia vita". Paolo ringrazia Dio, per il quale si è fatto servo e servitore, e questo gli consente di assumere la storia passata portandola nel Signore stesso. Paolo può vantare, soprattutto una profonda libertà di coscienza.
Altre volte Egli dice: "lo so di aver servito il Signore, di aver cercato di farmi servo di voi, nelle comunità in cui sono stato.
È bello, quando la vita ci chiede di fare dei bilanci, di poter dire: "avrò sbagliato, avrò fatto errori, avrò peccato, sarò caduto, ma la mia volontà è stata sempre quella e posso dire in coscienza davanti a Dio e davanti a voi che è stata sempre quella di servire il Signore e di servire voi, servire l'unità della comunità, servire la fraternità nello spazio comunitario.
Paolo, andando avanti nella vita, diventa sempre più intercessore. Forse si fa meno pratico, non si è più impegnato in ruoli di responsabilità e tuttavia si può entrare nella vita e consacrare spazio e tempo nell'intercedere che, forse, apre a un'azione che è di Dio stesso e non meno efficace della nostra.
Paolo infatti dice: "rendo grazie a Dio che io servo ricordandomi di te nelle mie preghiere sempre notte e giorno". Ecco l'intercessione con cui anche se io non sono più accanto agli altri a servirli fattivamente, li porto in me, li assumo. Se con loro abbiamo vissuto non solo un ruolo, ma una relazione, questo è essenziale. Così gli altri abitano in me ed io posso continuare una relazione con loro, relazione che porto davanti a Dio. Paolo dice: "mi ricordo della schietta fede, senza ipocrisia; una fede semplice, trasparente, schietta...".
È molto importante in un certo momento della vita coltivare la trasparenza, il valore della semplicità, della non ipocrisia.
Si fa strada un anelito di verità estremamente forte che riguarda la fede, la carità. Ma poi Paolo dice: "Ravviva il dono di Dio che è in te", il fuoco, la passione per il Signore.
Le nostre vite non si reggono semplicemente su cose da fare, su ruoli da reinterpretare. La passione per il Signore: questa è decisiva. Questo sì che può essere vissuto con toni diversi; un conto è a 20 anni, un conto a 50, un altro conto a 80, ma la passione per il Signore, il fuoco che arde nel cuore, quello sì che è decisivo.
Questo è il dono dello Spirito, è il dono che abita in noi, dice Paolo: "il dono che abita ogni battezzato". Paolo dice a Timoteo di ravvivare il dono di Dio che è in lui mediante l'imposizione delle mani.
Ricordo che dobbiamo riattivare la memoria perché il passare del tempo rischia di indurre smemoratezza, di farci dimenticare il movente che ci ha spinti alla vita religiosa. Il quotidiano stesso, gli impegni della vita religiosa ci possono allontanare dal fondamento della vita, dal motivo profondo che è uno solo: seguire Cristo, amare Lui, stare con Lui, vivere con Lui. Questo è il motivo di tutti voi e questo lo si fa in modo differenziato nelle diverse fasi della vita. Quando ci saranno meno forze fisiche, meno forze psichiche, quando la memoria farà i suoi scherzi e ci saranno altre modalità di vita... se ho custodito questo tesoro prezioso che porto in vasi di creta, anche allora la mia vita potrà essere una vita che risplende, che irradia la luce di Cristo e qui ci sono tre indicazioni molto precise: Paolo dice che Dio non ci ha dato uno spirito di timidezza, ma di forza, di carità e prudenza cioè ci ha dato lo Spirito Santo che ingenera in noi uno spirito di fortezza innanzitutto.
Si tratta di crescere anche nella forza, è una forza che si può manifestare maggiormente con l'esperienza e con gli anni passati quando le forze fisiche arrivano a diminuire, ma se c'è stata vita interiore può pian piano emergere un altro tipo di forza, è quella virtù della fortezza che non solo non esclude, ma integra la debolezza.
La virtù cristiana della fortezza nasce dalla coscienza della propria vulnerabilità tanto che questa forza si oppone alla timidezza che non è un dato di carattere, ma è essere dominati dalla paura, dalla codardia.
Può avvenire che noi ci lasciamo vincere dalle nostre debolezze e diamo talmente forza ad esse che queste si manifestano più forti di noi; allora non abbiamo più voglia di lottare e arriviamo a credere che non sia più possibile ricominciare, perché quando si dice: ... ormai...
Dove nasce questo "ormai", che senso ha? Paolo dice che il cristiano deve crescere nella forza, ma una forza interiore, una forza che qui può trasudare in una sapienza, in una parola, in una capacità di sostenere l'altro, di aver fatto tesoro dei propri errori, della propria vita, delle proprie acquisizioni per poter trasmettere una sapienza, un'arte di vivere. È importante crescere nella forza, ma poi lo Spirito Santo genera uno spirito di prudenza, di sapienza, di discernimento, di equilibrio che è una grande dote della maturità, cioè la capacità di non farsi sballottare qui e là da situazioni, eventi, parole, idee, discorsi, ecc. La forza è anche la dote di chi impara a non accordare troppo potere a cose esterne, a sé fino a restarne in balia o rimanere vincolati da atteggiamenti, persone esterne a noi.
La capacità di sapienza è anche quella di saper abitare se stessi, avere ormai un'identità assodata, un equilibrio e una certa consistenza interiore, non essere più sballottati a destra e a sinistra. Si tratta di crescere in equilibrio, cioè nella capacità di essere una personalità integrata.
In fine e soprattutto il centro di tutto è la carità e la prudenza. Al centro di tutto, al cuore di tutto, alla fine di ogni vita cristiana e religiosa c'è l'agape, la carità. Questo è il centro, questo è l'essenziale; dunque si tratta di crescere nell'amore e ricollocare il criterio della vera riuscita di una vita religiosa personale e comunitaria .
Il problema della crisi della vita religiosa non è tanto numerico; la crisi c'è quando non c'è carità. Quando in una comunità non ci si vuole bene, quando ci sono odi e gelosie, ripicche, vendette, volontà di non perdono e tante altre meschinità di cui siamo capaci, allora c'è la crisi. Ma quando c'è carità, benevolenza riconoscimento dell'altro e anche se si è in piccolissime comunità con persone con pochissime forze, lì risplende il Vangelo. Siamo chiamate a questo: a vivere la carità, l'agape e quando questo c'è, non si può dire che c'è crisi. Una vita religiosa è vita spesa per il Signore, chiamata ad assimilarsi a quella agape che il Signore ha vissuto.
Questo è il centro essenziale. Mentre siamo chiamate alla fine della nostra vita, ad andare verso l'essenziale; mettere cioè noi stessi dal punto di vista della nostra fine ci conduce a ciò che è essenziale. Conoscere se stessi significa pensare alla morte... Noi siamo condotti a riflettere su ciò che è essenziale.
Cos'è essenziale nella nostra vita? Cosa ci fa vivere? Che cosa è al di là di mille desideri? Credo che queste siano domande importanti da porsi e che ci raggiungano anche nei momenti più faticosi, più dolorosi, come qualcosa che ci può dare serenità anche quando le situazioni sono oggettivamente pesanti, faticose, difficili e a volte quasi ingestibili e ci fanno ricordare: "perché sono qui?".
Un ultimo elemento che emerge da questo testo e che forse è importante far rilevare si trova al versetto 8 quando Paolo dice: "non vergognarti di dare testimonianza al Signore né di me che sono in carcere a causa sua. Con la forza di Dio soffri con me per il Vangelo".
Anche questo è importante perché Paolo, sta dicendo: non solo accogli la sofferenza che ti può venire durante il ministero, ma il ministero è anche in sé costitutivamente sofferenza, non si può pensarlo diversamente; non si può pensare che la vita religiosa comunitaria non sia anche attraversata costitutivamente da sofferenza che fa parte del cammino di sequela di Cristo.
In questo cammino Paolo offre a Timoteo due guide: una è l'evangelo, l'esempio vivente di Gesù Cristo, "soffri con me per il Vangelo". E poi l'altra è l'insegnamento che Paolo ha dato: l'esempio ricevuto da Paolo. C'è stato chi ci ha introdotti, c'è stata una maternità spirituale, ci sono state persone, testimoni che hanno segnato il nostro cammino, sono stati importanti nel generarci alla fede, nel condurci nella nostra formazione. Lì avviene una generazione, un essere partoriti di nuovo e lì forse, grazie a questo possiamo anche arrivare, in questa seconda metà della vita, a passare da figli a madri, da discepoli a maestri, comunque persone che sanno dare una parola ad altri.
Un'ultima cosa, Nella seconda lettera si dice: "ravviva, dà un nuovo slancio al dono di Dio che è in te" ma nella prima lettera aveva già detto "non trascurarlo"; noi possiamo trascurare il dono di Dio che è in noi. Di certo si può arrivare a trascurare il dono per negligenza nell'esercizio spirituale. Se io smetto di pregare, se io tralascio l'assiduità con la Scrittura, se io non faccio più la lectio divina è evidente che posso continuare benissimo una vita religiosa in cui declino in modo attivistico come un fare il bene per gli altri, che faccio veramente, però rischio di non coltivare la mia vita interiore e di trovarmi a un certo punto svuotato e frustrato. La vocazione necessita di essere scelta e riscelta ogni giorno. Una delle chiavi spirituali importanti per non trascurare il dono di Dio che è in noi e per poterlo ravvivare, è quotidianamente ringraziare per i doni che avete ricevuti: il dono della fede, il dono della vocazione; ringraziare per le sorelle che avete in comunità. Direte: ringraziamo per queste e per quelle, per tutte no.
Noi non scegliamo di amare la tale o il tale, ma dobbiamo amare quelle persone che il Signore ci manda e il principio è quello di amare quelli che sono lì. Nel matrimonio uno sceglie di amare il giovane o la giovane. Nella vita religiosa scelgo di amare le persone che trovo in comunità: belle o brutte, vecchie e giovani sane o malate ed è proprio qui l'ascesi che diventa importante perché siamo costretti ad allenarci e, diciamoci la verità, alle volte sono pesanti e antipatiche oggettivamente, ma è molto importante questo esercizio di ringraziamento.
Credo che questo sia importante per tener vivo il dono che è Lui.
Timoteo sembra che sia un uomo di solitudine. Nella solitudine si può smarrirsi, si può perdere la direzione, l'oggettività; nella solitudine crescono i fantasmi interiori, Se non se ne parla, se non si dice e condivide il pensiero che ci abita, si rischia di essere preda di qualche cosa che è semplicemente esternato. Messo in comunione con qualcuno, può essere elaborato e anzi diventare fattore di relazione di conoscenza. Al contrario, invece se ci si isola arriva a dominarci.
Si sente il peso del celibato, forse si arriva a sentire il peso di una mancanza di maternità, di una fecondità, si sente il bisogno e il desiderio di qualcuno con cui stare insieme la sera, si arriva a sentire la mancanza a causa di ciò che abbiamo scelto.
C'è una solitudine che può diventare indubbiamente pesante; il celibato porta con sé anche tutto questo.
Anche in queste situazioni si tratta di arrivare a riconoscere e nominare tutto questo, ma anche a saper reagire con una reale vita di carità, di affetto di comunione di relazione e ripeto, citando ancora Paolo che tratta degli affetti vissuti; egli parla di persone a cui ha voluto bene, a cui vuole bene. Perché in fondo, l'esperienza dell'amore di Dio noi la facciamo attraverso l'amore con delle persone e anche nello spazio celibatario dove pure non c'è esercizio di genialità; c'è tuttavia quell'affetto, quell'amore che sa discernere anche i linguaggi possibili con l'uno o con l'altro per vivere un amore largo, libero che ci fa entrare nella bellezza della vita.
È importante vivere tutto questo nella vita religiosa e nella vita comunitaria, altrimenti ci si rinsecchisce, ci si chiude e appunto una vita comunitaria che arriva a dimenticare il primato dell'amore, è come quel sale che ha perso il proprio sapore che è meglio che venga calpestato dagli uomini e che se anche si perde non ne troverà nostalgia nessuno.
Da ultimo per Timoteo: può darsi che il trascurare il dono di Dio sia dovuto anche ad un senso di inadeguatezza. Paolo, ad un certo punto dice: "Nessuno ti disprezzi per la tua giovane età".
Paolo intende dire: adesso hai questo incarico, adesso ti senti giovane, hai a che fare con persone che sono anche più grandi di te. Nessuno disprezzi la tua giovane età (1Tim. 4,2)
Le difficoltà di chi ha delle responsabilità, sono anche insite nel senso di inadeguatezza, ma è bene che ci sia, così uno non si sente super uomo. Ne faremmo volentieri a meno di responsabilità.
Al tempo stesso si può cogliere un senso di sgomento di fronte alla responsabilità nell'affrontare situazioni, nel condurre e nell'aiu-tare altre perone che sono di fronte ad una crisi, che non sanno come arginare....
Possiamo indubbiamente sentire il senso di inadeguatezza, il senso di paura. Ma anche queste sono situazioni e occasioni che possiamo volgere al positivo. Sono luoghi in cui possiamo trovare il sì che abbiamo detto una volta. Quando diciamo il nostro senso di adeguatezza, diciamo qualcosa che è sensato, e proprio in questa situazione mi misuro.
È certo che non ce la faccio nella misura in cui continuo a guardare a me stesso. Se rimetto la mia fiducia al Signore e nella comunità forse posso farcela; non guardando più a me stesso, ma guardando al Signore e aprendomi a Lui.
Fidandomi di Lui, anche tutte le difficoltà che possiamo sentire dell'inadeguatezza, della solitudine ecc.. possono diventare dei luoghi in cui rinnovare il sì iniziale che abbiamo detto.
Credo che in tutto questo ci sia da tenere presente questo: la vita religiosa che sto vivendo perché l'ho scelta? Per chi l'ho scelta? Rinnovare questo motivo fondante può essere ciò che ci aiuta a ravvivare il dono di Dio.
Tre figure bibliche, ci presentano un itinerario di vita, in cui ad un certo punto e dopo diverso tempo dall'inizio delle vocazione, attraverso una crisi, arrivano ad un rinnovamento della loro vita.
Le tre figure sono: Geremia, Elia e Pietro.
Ad un certo punto del loro ministero hanno dovuto rinnovare radicalmente la loro vita ed anche la loro fede. Anche la fede deve rinnovarsi, anche il modo di rapportarsi al Signore deve assumere un volto nuovo.
Dai tre personaggi possiamo ricavare un insegnamento unitario: il rinnovamento della vocazione passa attraverso la crisi della vocazione. La crisi è occasione di rinnovamento; la crisi può arrivare anche a portare all'abbandono di una vocazione, ma in questi casi vediamo che la crisi è stata ciò che ha consentito il rinnovamento e quindi l'adattamento delle motivazioni iniziali ad una nuova fase della vita, quando, probabilmente, le motivazioni iniziali, quelle che hanno condotto a 20, 25 anni a dire sì mostrano il limite, non sono più sufficienti.
Geremia
Geremia ci presenta il caso di una crisi che diviene rinnovamento riaffermando l'essenziale, la passione per il Signore.
In Geremia 15,16 si dice: "Quando le tue parole mi vennero incontro le divorai con avidità, la tua parola fu la gioia e la letizia del mio cuore". Geremia si riferisce alla sua vocazione presumibilmente quando aveva 24-25 anni. "Le tue parole mi vennero incontro e le divorai con avidità" e questa fu per lui un'esperienza di gioia, di dolcezza.
In Geremia 20,8-9 "Diversi anni dopo, quando già per molto tempo aveva esercitato il suo ministero profetico dice: "Quando parlo devo gridare, proclamare violenza, oppressione, così la parola del Signore è diventata per rne motivo di obbrobrio e di scherno ogni giorno". Era così dolce, così bello e adesso ... motivo di obbrobrio e di scherno. "Mi dicevo, non penserò più a Lui, non parlerò più in suo nome." Basta, subentra la tentazione dell'abbandono.
Se un profeta non parla più in nome di Dio, ha finito il suo ministero. "Ma nel mio cuore c'era un fuoco ardente, chiuso nelle mie ossa, mi sforzavo di contenerlo, ma non potevo". Se la vocazione risponde al desiderio profondo della persona, questo è davvero il fuoco che non si può spegnere. Potrà anche essere coperto da tanta cenere, essere ridotto ad un lumicino, tuttavia c'è ancora quel fuoco ardente nelle ossa, per cui quando Geremia dice: "lo non ce la faccio, non ne posso più, ma chi me lo fa fare..."; pur tuttavia quel fuoco che abita in Lui lo conduce ad assumere e integrare anche la sofferenza, l'ostilità, le amarezze, le diffidenze che sono tanto più pesanti quanto più vengono dai suoi stessi fratelli o confratelli.
Sappiamo bene che nella vita religiosa andando avanti e inoltrandosi negli anni si arriva anche a conoscere queste esperienze di sofferenza che sono tanto più penose perché sono legate a incomprensioni, diffidenze o aperte ostilità nello spazio stesso della comunità, così come il profeta è osteggiato dalla Chiesa stessa, dal popolo di Dio. Anche in queste situazioni Geremia non si perde nella cultura del lamento, ma entra nell'integrare questi elementi all'interno del proprio cammino di credente. Si tratta di fare anche di questi elementi che fanno soffrire, delle realtà che sono parte del cammino del credente.
Anche noi possiamo conoscere questa tentazione e tuttavia è proprio allora che va ribadito quello che Paolo dice in Timoteo 1,12 "lo so in chi ho posto la mia fede". Questo sapere non è un sapere intellettuale, è un sapere che coinvolge tutta la persona, è un sapere del cuore, un sapere in cui il sì della persona la coinvolge totalmente, è quel fuoco interiore che non può essere rinnegato, quindi non si può rinnegare se stessi.
Sono io che ho scelto e deciso di vivere questa vita, e ho deciso abbandonandomi al Signore. Sicuramente c'è il momento della tentazione, dell'azzeramento del proprio passato: "e se mi fossi sbagliato, se fosse stata tutta una illusione?". Indubbiamente viene questa domanda. Proprio in quel momento la crisi si fa presente.
La crisi può anche essere un momento di verità, un momento in cui siamo chiamati ad avvertire un sintomo che ci dice che i nostri assetti interiori devono riadattarsi alla situazione che stiamo vivendo; c'è un riassettamento da fare.
In particolare Geremia è chiamato ad integrare, nella sua vocazione, anche le sofferenze, le contraddizioni, le ostilità che gli vengono dai suoi stessi confratelli, all'interno stesso del popolo di Dio. Ma ciò che è essenziale è quel fuoco chiuso nelle sue ossa che egli non può contenere. È questo il ravvivamento della vocazione.
Elia
Elia ci offre un altro passaggio che è molto importante da fare nella seconda parte della vita.
Elia deve rinnovare la sua esperienza di Dio. Egli arriva a vivere un momento di grandissima crisi dopo lungo tempo di esercizio del suo ministero
Nel primo libro dei Re 18, ad un certo punto, si evidenzia che il ministero stesso conduce Elia in uno stato di depressione.
Possiamo benissimo parlare di depressione dopo che Elia ha sgozzato 450 profeti di Baal. Si ritrova troppo pieno di violenza, probabilmente soffre di una depressione generata da troppo zelo di cattiveria che lo abita. Elia si inoltra nel deserto con tendenze suicidane: "Prendi la mia vita Signore, è meglio per me morire che vivere".
Viene il momento in cui nell'inoltrarsi nella vocazione sembra procedere in un deserto dove c'è fame, sete, dove non si vede nessun appagamento e dove, ad un certo punto, viene da dire, "meglio morire". È proprio a questo punto che diventa vitale vivere la relazione, l'amore, sapere chi mi ama, chi io amo, che rete di relazioni ho intessuto perchè è proprio questo che ci fa vivere.
Elia si trova all'interno di questa situazione. Si dice che si addormenta sotto una ginestra. Il sonno è sempre il simbolo della morte Elia è pieno di paure perché Gezabele, la regina lo sta cercando per eliminarlo, poi è nutrito con il cibo che gli viene dal Signore, dal corvo che gli porta da mangiare, si alza e fa il viaggio all'Oreb.
Per 40 giorni e 40 notti cammina e va fino al monte di Dio, al monte Sinai, il monte dove c'è stata la rivelazione quando Dio si è rivelato a Mosè.
Come gli si rivela il Signore? Nel terremoto, nei lampi, nel fuoco, nel vento impetuoso. Ebbene, dice il testo: Elia entrò in una caverna e Dio gli disse: "esci e fermati sul monte alla presenza del Signore". Ed ecco che il Signore passò nella voce di un silenzio sottile. Non è una brezza leggera, non è un fenomeno atmosferico tenue, di minore intensità, è un'altra cosa, è un fenomeno interiore, è la voce di un silenzio sottile. Come Elia lo udì si coprì il volto e con il mantello uscì e si fermò all'ingresso della caverna ed ecco venne a lui una voce che diceva: "Cosa fai qui Elia!"
Perché è così importante quello che vado sottolineando?
Qui ci sono tre modi di presenza di Dio.
Quando nell'A.T. Dio si presenta per dire l'irruzione dell'Eterno nella storia dice terremoto, fuoco, vento impetuoso che spacca le rocce... Qui si dice che Dio non era in queste realtà, ma era nella voce di un silenzio sottile.
Qui si rivela un'altra conoscenza di Dio che sperimenta Elia: una conoscenza interiore, il passaggio nell'interiorità, il passaggio del Dio in noi. Il vento impetuoso, forte, potente, già dagli autori ebrei medioevali è interpretato come forza di volontà, dunque come invio alla dimensione volitiva della persona.
Elia è eroe della volontà. Ci sono dei testi del Siracide che ricordano Elia come l'uomo dalla fortissima volontà.
Come dice, la forza di volontà si può rivelare anche eccessiva, anche troppo aggressiva.
L'esperienza di Dio, lo Spirito di Dio investe anche la dimensione volitiva della persona, ma non si potrà mai ridurre a pura volontà.
Seconda dimensione: il terremoto, in realtà, in ebraico significa tremore, tremito che si può designare come dimensione emotiva, un tremore psicologico emotivo tanto che possiamo vedere simbolicamente la dimensione emotiva della persona.
L'esperienza di Dio passa anche attraverso la nostra dimensione emotiva, proprio perchè attraversa tutto l'uomo. Ma non potrà mai essere ridotta ad una dimensione puramente emotiva; "ho sentito la presenza di Dio...". Non è questo. Anche la dimensione emotiva è riguardata dallo Spirito di Dio.
Infine, il fuoco da sempre nella Bibbia è simbolo dell'eros, della dimensione erotica, della dimensione affettiva e passionale. L'amore è fiamma di "Adonai", dice il Cantico dei Cantici.
L'esperienza di Dio prende l'uomo totalmente e attraversa anche la sua dimensione affettiva ed erotica, anche se non potrà mai essere esaurita solo in una dimensione puramente affettiva.
L'ultimo elemento quello decisivo: la voce di un silenzio sottile. Mettere insieme voce e silenzio: il luogo culminante dell'esperienza spirituale a cui arrivò Elia.
Dove si esce dall'ambiguità non è puro volontarismo, non è funzionalità affettiva, non è emotività spinta all'eccesso.
Dio non c'è nel fuoco, nel vento, nel terremoto, come c'è nella voce di un silenzio sottile. L'esperienza spirituale è esperienza inte-rore ed Elia è chiamato a sperimentare Dio in sé. È il passaggio all'interiorità, al Dio che abita in noi.
La maturità della vita spirituale, maturità anagrafica significa avanzare nell'esperienza spirituale.
Noi abbiamo tre Vangeli sinottici che ci dicono di "seguire il Signore" e abbiamo il 4° Vangelo che ci dice: "il Signore inabita in te". Cosa ne facciamo di questa "inabitazione" dell'esperienza del Dio in noi? La fase della maturità della vita, anche da un punto di vista spirituale, diventa quella della interiorità coltivata dove io col mio corpo sono il luogo della presenza del Signore.
Il mio corpo è tempio di Dio. Ecco che Elia è chiamato, nella sua maturità, a rinnovare, anche la sua esperienza di Dio, è invitato ad uscire da uno zelo molto efficace, ma anche molto aggressivo e andare verso una capacità di misericordia.
Spesso anche noi dobbiamo entrare in una rinnovata esperienza di Dio. Ecco dunque un passaggio importante, il passaggio ad una esperienza più che mai importante della nostra interiorità: Dio è in noi, in me.
Pietro
Da ultimo Pietro che incontriamo in Luca 5,1-11.
I discepoli hanno pescato tutta notte e non hanno preso niente e stanno lavando le reti. Gesù dice loro: "prendete il largo e gettate le reti". In greco, prendere il largo vuol dire andare in profondità.
Forse è necessario andare in profondità all'interno della vita cristiana e della vita religiosa che si dilunga, che entra in una fase di maturità. Andare in profondità significa anche andare a fondo.
Pietro dice a Gesù: "Vado Signore. Tu stai dicendo quello che un pescatore non farebbe mai: lo sono pescatore, conosco il mio mestiere quindi io non dovrei fare quello che tu mi dici, perché sarei un vero stupido se andassi di giorno a pescare, però sulla tua parola getto le reti". Si tratta di un atto di fiducia totale.
I pescatori vanno, gettano le reti e pescano una quantità infinita tanto che fanno cenno a quelli dell'altra barca che vengano ad aiutarli.
Nella comunità cristiana ci si aiuta e ci si viene incontro gli uni gli atri. Oso chiedere aiuto perché da solo non ce la faccio, ho bisogno di te e l'altro viene ad aiutarmi. È bellissima questa immagine comunitaria. 1 Cor 12 ss. "siamo bisognosi gli uni degli altri, il corpo è dato dall'insieme, siamo debitori gli uni degli altri".
Quando Pietro vede che la pesca è straordinariamente grande, cosa fa? Si getta in ginocchio davanti a Gesù dicendo: "Signore allontanati da me, sono peccatore". E Gesù gli dice: "Non temere, d'ora in poi sarai pescatore di uomini e lasciate le barche e le reti, lo seguirono".
La vocazione è una crisi, anzi, qui la vocazione non è una chiamata, ma un incontro. Passa attraverso un incontro con Gesù, incontro che porta Pietro e gli altri a sconvolgere completamente l'ordine e gli affetti della loro vita. Ecco la promessa del Signore: "da pescatori di pesci a pescatori di uomini". Letteralmente "pescatori di uomini" vuol dire "chiamare gli uomini alla vita". Questo è il momento iniziale della vicenda di Pietro.
Nella vicenda comunitaria e cristiana siamo debitori anche agli altri, impariamo anche da ciò che gli altri hanno da dire su dì noi, è quindi importante riceverci gli uni gli altri. Ma ciò che è interessante è che ben più avanti nel tempo Pietro sta cercando di seguire Gesù, ma viene il momento del rinnegamento, viene il momento in cui Pietro rinnega Gesù (Lc 22, 60-62).
Pietro per la terza volta rinnega e dice: "non so quello che dici" rispondendo a chi gli aveva detto: "anche tu sei un Galileo, anche tu sei uno di loro". In quell'istante un gallo cantò.
Attenzione, il Signore si voltò e fissò lo sguardo sui Pietro. Pietro si ricordò delle parole che il Signore gli aveva detto e uscito fuori pianse amaramente.
Qui siamo di fronte alla crisi della vocazione di Pietro. All'inizio c'era stato l'incontro di Pietro con Gesù, qui è Gesù che guarda Pietro. Là c'era Pietro che dice: "sulla tua parola getterò le reti e ancora Pietro aveva detto: "Signore..." Qui è il Signore, non è il Maestro, non è Gesù, ma il Signore. Là Pietro aveva detto: "Allontanati da me..." è il momento della massima vicinanza. Mentre Pietro l'ha percepito come la grande distanza.
Qui Pietro esce fuori, mette una distanza tra sé e il Signore. Là aveva detto: "io sono un peccatore" Qui Pietro pianse amaramente, piange il suo peccato. Tutto questo è molto bello....
Nell'avanzare della vita, nel magistero, nella sequela di Cristo avviene la crisi, ma la crisi può essere un rinnovamento della vocazione.
Che cosa c'è di costante nel Pietro chiamato e nel Pietro che rinnega?
Sono sempre gli stessi elementi: innanzitutto c'è la parola del Signore, questo è decisivo nella nostra perseveranza, nel nostro cammino dietro al Signore, nel ravvivare il dono di Dio che è in noi, nel rimando alla parola del Signore come elemento vitale, centrale, che ci accompagna quotidianamente. Poi c'è la coscienza di essere un peccatore. Non è che Pietro non sia più un peccatore dopo che ha seguito il Signore; probabilmente la sequela del Signore lo ha condotto ad essere più lucido e più vigilante sul suo peccato, a conoscere meglio la sua debolezza e a metterla davanti al Signore.
Noi non diventiamo persone che non peccano più, ma persone che conoscono la fragilità umana, il peccato; conoscendolo possiamo essere capaci di aiutare chi è più giovane, più fragile e abbracciarlo di misericordia nelle sue fragilità e nei suoi peccati.
Da ultimo c'è sempre la promessa del Signore: la sua parola, l'esperienza del peccato, la promessa: "sarai pescatore di uomini".
A Pietro che si è pentito dice: "rinsalda nella fede i tuoi fratelli".
Se la vocazione è un momento critico nella nostra vita, la crisi è la possibilità di un nuovo inizio.
Dieci punti importanti per entrare nella 2a fase della vita dai 40-45 anni fino ai 60-65
Normalmente arriviamo alla seconda fase della vita impreparati, ignoranti, inesperti. Non sappiamo che fare, non abbiamo punti di riferimento. Allora le frasi: "questo non me l'aspettavo, questo non lo pensavo, non me lo immaginavo...". Rischiamo di restare sospesi, di non saper accogliere la sfida di questa fase presente; non conosciamo la grammatica per interpretarla, non conosciamo i termini per leggerla.
È una fase in cui comunque i nodi vengono al pettine. Problemi di tipo affettivo, sessuale, di innamoramento; parlarne con chi può illuminare tutto questo. Non sono peccati, sono sintomi che dicono qualcosa di noi. Si tratta di avere il coraggio di parlarne e questo significa creare un clima di fiducia per cui uno possa parlarne senza sentirsi nella vergogna o sentirsi giudicato. Quanto è grave il non dire qualche cosa. È grave perché poi si arriva ad ingigantire delle realtà che probabilmente sono semplicemente situazioni che potevano essere sgonfiate facilmente. Ma ecco che doppiezza, sublimazione, maschere ecc..arrivano al momento della verità; è la vita stessa che spesso produce uno smascheramento. Il nascondimento ad un certo punto non riusciamo più a tenere, i nodi vengono al pettine.
In questa fase è importante anche l'arte del lutto. Ci sono delle perdite da accettare. Si tratta di fare il lutto di certe perdite. Ci possono essere persone che muoiono, persone che abbandonano la fraternità, relazioni che sono ormai interrotte o che continuano ad essere, ma segnate da una ferita.
Non tutto è andato come avremmo desiderato o voluto: lì si tratta anche di arrivare a fare un lutto e assumere realisticamente le perdite e arrivare a dover accettare che ci siano certe relazioni senza un perché, una spiegazione e sono costrette a rimanere.
Siamo chiamati, in questa fase, ad un rapporto rinnovato con il tempo: credo che punto centrale sia l'oggi, quale frammento di tempo in cui posso vivere il tutto a cui mi sono dedicato.
Si tratta di rompere con le nostalgie che ci renderebbero nostalgici del passato; si tratta di rompere con le illusioni che ci farebbero fuggire in avanti senza mai aderire al reale e di percepire di fronte al tempo limitato che abbiamo, che c'è un oggi, adesso, ora, qui in questo momento. Ora abbiamo il frammento per vivere quel tutto al quale ci siamo consegnati, il tutto dell'amore, dell'agape; lo vediamo nei diversi momenti della liturgia, del pasto, del sonno, del servizio di carità, nel momento dello scambio della testimonianza di bene in modo diversificato, ma l'oggi, il momento presente è l'occasione propizia per vivere il tutto del Vangelo.
Questo ci conduce ad aderire al reale, trovando una via di sapienza.
Il salmo 90 è tutto dedicato al tema del tempo. V.12: "Insegnaci a contare i nostri giorni, Signore e noi giungeremo alla sapienza del cuore". Entrare nella sapienza significa accettare la lezione della limitatezza, della finitezza, della mortalità e accettarla serenamente.
Questo è il tempo in cui si fa più forte la lotta della perseveranza, del rimanere, della fedeltà, non si è più sorretti dall'entusiasmo del primo amore degli inizi dei primi tempi, non ci sono più degli obiettivi da perseguire... Adesso devo essere... Non si tratta più di riuscire nella vita, ma di "realizzare la vita". Come è difficile perseverare! È l'arte difficile del rimanere, del perseverare, della fedeltà, del prezzo della scelta fatta, sapendo che la scelta fatta è bella in tutta l'estensione della vita. Non siamo chiamati a vivere dei frammenti, o una stagione; la sequela di Cristo cerchiamo di viverla per tutta la vita e sarà una novità anche per noi viverla non solo fino a 40-45 anni, ma anche fino a 70-80-90 e più anni.

Dopo l'esperienza di tanti anni di vita religiosa, di cose belle, gioiose, ma anche con tante delusioni, ci è chiesto di entrare in un rapporto con l'altro in cui non mi attendo nulla, non pretendo nulla dall'altro, esco da un rapporto di potere e di dipendenza. Sto bene se l'altro mi dà e mi dice, oppure pretendo?. Entro nell'attitudine che ciò che viene dall'altro è dono, è gratuità e mi stupisce e ne sono grato. Non pretendere nulla, non avere potere nelle relazioni con l'altro.
Questa è una regola importante: accettare che quello che viene mi può stupire come un dono inatteso.
La vita comune ci porta anche ad una certa stanchezza, ad un senso di sterilità, di infecondità, anche al timore del futuro, alla paura di invecchiare, alla paura della solitudine in cui si fa strada il desiderio di un affetto stabile, forte, che si può vivere in uno spazio comunitario con una amicizia larga, bella, libera sotto gli occhi del sole, con una sorella della comunità e con altre persone. Questa esperienza è molto rara.
Entrare in assunzione di responsabilità. Non è più possibile continuare a lamentarsi, a piangere per i torti subiti in passato, in comunità. "A me non è stata data questa opportunità, a me è stato fatto questo, all'altra è stato fatto tutto...".
Si tratta di assumere il passato per poter vivere oggi un tempo fecondo: certamente se si sa leggere in modo libero il passato, si sa anche che si è stati accolti, si è ricevuto amore.
È giunto il tempo di imparare a donare, a non restare sempre figlie che dipendono da..., ma di arrivare ad amare in modo adulto, di essere capaci di donare, di rinunciare a qualcosa di sé per dare vita ad altre, per servire altri.
Importante è la frase di Gesù: "gratuitamente avete ricevuto, gratuitamente date". Diventare responsabili della propria vita, delle proprie relazioni, della propria fede; uno diventa responsabile di ciò che fa e di ciò che ha subito.
Si tratta di scegliere di amare le persone che il Signore ci ha messo accanto, fondandoci sempre sul Vangelo, sul Signore che mi ama sempre più interiormente e le persone che mi hanno amato, l'esperienza di amore che ho conosciuto che mi hanno generato e sto continuando e che cerco di vivere ancora e comunque che mi chiedono ormai di diventare o mi danno fiducia nel poter essere io ad amare altro. Ecco una maturità di amore e oserei dire anche di castità.
Infine rinnovare la confessione di fede che il mio giudice è il Signore come dice Paolo.
Si tratta di mettersi davanti a Dio, davanti alla propria coscienza, per vedersi in verità. Quante volte si fanno delle cose per compiacere qualcuno, per dovere ...
Il mio giudice è il Signore, non è una visione da tribunale, è un appello di libertà, non agisco in base ad un dovere, ad un far piacere a qualcuno, ma in verità.
Forse questi elementi ci possono aiutare ad assumere il limite della nostra creaturalità; la lezione del tempo che passa, dei nostri giorni che vanno scemando, ci possono aiutare ad entrare in una interiorità rafforzata e soprattutto ci possono portare a quello che è l'essenziale per la nostra vita: siamo chiamati a vivere e a morire con il Signore. Questo è l'essenziale della nostra vita è il tempo della seconda fase della vita e poi il tempo della vecchiaia è quello che ci può ricordare e riportare alla vera essenzialità.

Luciano Manicardi

Monaco e formatore della Comunità di Bose
Relazione tenuta all'Assemblea Superiore Maggiori l’11 marzo 2010

(da Vita consacrata in Lombardia, anno XXIV, n. 82, giugno 2010, pp. 14-33)
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