Riflessioni sulle letture 29 gennaio 2012 (Manicardi)
domenica 29 gennaio 2012
Anno B
Dt 18,15-20; Sal 94; 1Cor 7,32-35; Mc 1,21-28
Dt 18,15-20; Sal 94; 1Cor 7,32-35; Mc 1,21-28
L’autorità della parola di Mosè e del profeta “pari a Mosè” che il Signore susciterà; l’autorità della parola di Gesù, profeta escatologico: questo un tema saliente che traversa la prima e la terza lettura. Se la parola del profeta, di colui che media la parola di Dio stesso, è finalizzata alla vita del destinatario (Dt 18,15-16), la parola di Gesù è terapeutica. L’autorità dell’insegnamento di Gesù consiste nel fatto che non è frutto di sapere libresco (“non come gli scribi”), non è l’esito di un cursus di studi, ma è afferente alla persona stessa di Gesù. Non è solo autorità della parola, ma di colui che la pronuncia. E si tratta di un insegnamento trasmesso non solo con parole, ma anche con gesti, con azioni (cf. Mc 1,27): la novità che lo contraddistingue è la novità messianica, la novità di Gesù, che “portò ogni novità portando se stesso” (Ireneo di Lione, Contro le eresie IV,34,1)). Ed è un’autorità percepita dal sensus fidei delle persone. Infine l’autorità della parola di Gesù è nel suo essere totalmente finalizzata alla vita e al bene delle persone: non è autorità che accresce chi la pronuncia, ma volta a far crescere l’altro; è autorità di servizio, non di potere. La logica dell’autorità che discende dal Dio biblico è bene espressa dal Sal 18(17),36: “Abbassandoti tu mi fai grande”. Questa la logica che presiede anche il cammino di Dio verso l’umanità nel Figlio Gesù Cristo.
Di tale cammino il testo evangelico ci fornisce un esempio. A un processo di progressivo restringimento da Cafarnao alla sinagoga, al gruppo di uomini là riuniti, a un uomo preciso di tale gruppo, fino allo spirito impuro che lo abita (vv. 21-24) e che Gesù raggiunge con la sua parola potente (v. 25), segue un movimento di dilatazione dallo spirito immondo all’uomo da cui esce, al gruppo di tutti i presenti nella sinagoga, fino a tutta la Galilea e ovunque (vv. 26-28). La venuta del Figlio di Dio diviene subito una discesa, una catabasi nelle profondità irredente dell’uomo.
Al cuore del testo evangelico vi è infatti l’incontro di Gesù con un uomo “posseduto da spirito immondo”. Ovvero, un uomo sofferente di disturbi psichici o afflitto da mali che si manifestavano in modo bizzarro, violento, anomalo, e per questo attribuiti a spiriti maligni. In realtà, il male che affligge quell’uomo (che frequentava regolarmente la sinagoga, il luogo santo), ha anche una valenza spirituale. Che si manifesta nel suo conoscere perfettamente Gesù, nel confessarlo in modo corretto e ortodosso (“Tu sei il santo di Dio”: Gv 6,69), ma nel non voler aver praticamente nulla a che fare con lui (“Che c’entri con noi?”: Mc 1,24). La diabolicità dell’atteggiamento è lì: si confessa rettamente la fede, ma non ci si coinvolge nella sequela di Cristo fino alla fine. Il vangelo secondo Marco insegna che la confessione autentica di fede deve avvenire sotto la croce (cf. Mc 15,39), è cioè inscindibile da un concreto cammino di sequela fino alla fine, fino allo scandalo della croce.
L’episodio mostra anche la sofferenza che la guarigione costa a quell’uomo: “straziandolo e gridando forte, lo spirito uscì da lui” (Mc 1,26). La parola di Gesù guarisce, ma facendo emergere il male, svelandolo, e consentendone così l’espulsione dal profondo: quel male a lungo soffocato per non soffrire, ora viene portato alla luce e questi spasmi dolorosi si situano a metà tra la morte e la nascita. La parola di Gesù non è edulcorata: essa fa anche male, essa non seppellisce il male, ma osa farlo emergere e affrontarlo apertamente. La parola di Gesù è dunque autorevole perché liberatrice: restituisce l’uomo a se stesso liberandolo dalla divisione che lo lacera e dai fantasmi che lo tormentano; è parola autorevole perché sacramentale: in essa si manifesta la potenza di Dio (v. 27; nell’Antico Testamento è Dio stesso che rimprovera, zittisce e vince Satana: cf. Zc 3,2); è parola autorevole perché testimoniale (essa rivela l’unità profonda della persona di Gesù, del suo parlare e del suo agire).
Di tale cammino il testo evangelico ci fornisce un esempio. A un processo di progressivo restringimento da Cafarnao alla sinagoga, al gruppo di uomini là riuniti, a un uomo preciso di tale gruppo, fino allo spirito impuro che lo abita (vv. 21-24) e che Gesù raggiunge con la sua parola potente (v. 25), segue un movimento di dilatazione dallo spirito immondo all’uomo da cui esce, al gruppo di tutti i presenti nella sinagoga, fino a tutta la Galilea e ovunque (vv. 26-28). La venuta del Figlio di Dio diviene subito una discesa, una catabasi nelle profondità irredente dell’uomo.
Al cuore del testo evangelico vi è infatti l’incontro di Gesù con un uomo “posseduto da spirito immondo”. Ovvero, un uomo sofferente di disturbi psichici o afflitto da mali che si manifestavano in modo bizzarro, violento, anomalo, e per questo attribuiti a spiriti maligni. In realtà, il male che affligge quell’uomo (che frequentava regolarmente la sinagoga, il luogo santo), ha anche una valenza spirituale. Che si manifesta nel suo conoscere perfettamente Gesù, nel confessarlo in modo corretto e ortodosso (“Tu sei il santo di Dio”: Gv 6,69), ma nel non voler aver praticamente nulla a che fare con lui (“Che c’entri con noi?”: Mc 1,24). La diabolicità dell’atteggiamento è lì: si confessa rettamente la fede, ma non ci si coinvolge nella sequela di Cristo fino alla fine. Il vangelo secondo Marco insegna che la confessione autentica di fede deve avvenire sotto la croce (cf. Mc 15,39), è cioè inscindibile da un concreto cammino di sequela fino alla fine, fino allo scandalo della croce.
L’episodio mostra anche la sofferenza che la guarigione costa a quell’uomo: “straziandolo e gridando forte, lo spirito uscì da lui” (Mc 1,26). La parola di Gesù guarisce, ma facendo emergere il male, svelandolo, e consentendone così l’espulsione dal profondo: quel male a lungo soffocato per non soffrire, ora viene portato alla luce e questi spasmi dolorosi si situano a metà tra la morte e la nascita. La parola di Gesù non è edulcorata: essa fa anche male, essa non seppellisce il male, ma osa farlo emergere e affrontarlo apertamente. La parola di Gesù è dunque autorevole perché liberatrice: restituisce l’uomo a se stesso liberandolo dalla divisione che lo lacera e dai fantasmi che lo tormentano; è parola autorevole perché sacramentale: in essa si manifesta la potenza di Dio (v. 27; nell’Antico Testamento è Dio stesso che rimprovera, zittisce e vince Satana: cf. Zc 3,2); è parola autorevole perché testimoniale (essa rivela l’unità profonda della persona di Gesù, del suo parlare e del suo agire).
LUCIANO MANICARDI
Comunità di Bose
Eucaristia e Parola
Testi per le celebrazioni eucaristiche - Anno B
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Fonte: monasterodibose