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Pasqua del Signore (omelia di Enzo Bianchi)

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Bose, 24 aprile 2011
Matteo, 28,1-10        
Carissimi,
con questa veglia siamo giunti alla pienezza del triduo pasquale, al terzo giorno, al «tutto è compiuto» (cf. Gv 19,30), un «tutto è compiuto» cantato dal Cristo vivente e glorioso, risorto per sempre, un «tutto è compiuto» cantato dalla chiesa, da coloro che hanno seguito Cristo e che lo acclamano Kýrios, Signore.

La lunga veglia, in cui abbiamo ascoltato le sante Scritture dell’Antico e del Nuovo Testamento, ci ha permesso di contemplare la storia della salvezza, l’azione di Dio, dall’in-principio fino al compimento delle sue promesse in Cristo. Questa veglia ha soprattutto uno scopo: farci comprendere la Pasqua, la resurrezione, e renderci partecipi di questo mistero, il mistero della vittoria di Dio sulla morte, del «Dio» che «è amore» (1Gv 4,8.16) sulla morte. Perché solo di questo noi terrestri abbiamo bisogno: di poter credere che l’amore che abbiamo vissuto, l’amore condiviso con quelli che abbiamo amato e che amiamo, l’amore di cui siamo stati capaci – combattendo il nostro egoismo, la nostra philautía, la nostra voglia di sopravvivere senza gli altri, magari contro gli altri, ma appunto di vivere sopra, di sopra-vivere –, ebbene questo amore sia un amore che rimane, che contiene qualcosa dell’eternità, un amore che ci possa permettere di dire nel presente e nel futuro: «Io amo, anche quando l’altro che io amo non è più». Proprio per questa speranza, proprio perché noi uomini abbiamo bisogno di comprendere, di capire soprattutto la nostra morte, vogliamo ascoltare ciò che il vangelo, la buona notizia ci dice di questa vittoria dell’amore sulla morte.

Nei giorni precedenti ci siamo soffermati sul racconto dell’ultima cena, il racconto in cui Gesù ha dato il segno del suo amore, l’eucaristia, e ci siamo anche soffermati sulla passione vissuta da Gesù, mettendo a fuoco come Gesù abbia risposto prima con l’eucaristia, nient’altro che passione prefigurata, e poi con la vita, un unico amen: un amen dossologico a Dio suo Padre, ma anche un amen a quelli che erano stati suoi fratelli, coinvolti nella sua vita, fratelli che erano giunti a mostrarsi avversari e persecutori. E concludevo la meditazione del venerdì santo con il seppellimento di Gesù nella tomba quale attesa della risposta del Padre. Gesù ha risposto – potremmo riassumere – a tutti ha risposto, «amando fino alla fine» (cf. Gv 13,1) e senza mai contraddire l’amore. Ma quando ha rimesso tutto nelle mani del Padre, quando ha deposto anche il suo respiro (cf. Lc 23,46; Sal 31,6), Gesù è entrato nell’attesa di una risposta. Per gli uomini, per Pietro, per Giuda, per gli altri dieci, per i sommi sacerdoti, per il potere politico romano, con la morte di Gesù era finita una vicenda, era veramente finita: una tomba con una pietra rotolata sulla porta dice anche visivamente che tutto è davvero finito. Secondo Matteo ci sono addirittura delle guardie che vigilano sulla tomba, perché resti chiusa, perché nessuno la apra, perché nessuno venga a rubare il cadavere di Gesù e poi intoni la favola, la leggenda che lui è risorto (cf. Mt 27,62-66). 
Ma all’alba del primo giorno dopo il sabato, Maria di Magdala e l’altra Maria vanno a visitare il sepolcro. Ed ecco, proprio mentre guardano il sepolcro, sono colte da un evento di rivelazione. Un angelo del Signore, l’angelo interprete della parola di Dio, l’angelo interprete degli eventi operati da Dio nella storia, ebbene quest’angelo dice alle donne: «Non abbiate paura voi. So che siete alla ricerca di Gesù il crocifisso. Non è qui, è risorto, secondo le sue parole. Andate a dire ai suoi discepoli: “È risorto dai morti e vi precede in Galilea: là lo vedrete”». Queste parole dell’angelo interprete le abbiamo ascoltate tante volte, perché sono l’annuncio pasquale per eccellenza, sono anche l’essenziale della buona notizia per gli uomini. Gesù il crocifisso, dunque colui che era morto sulla croce, è risorto, e la tomba infatti è vuota. Sono parole che paiono insensate, contro la ragione, soprattutto contro l’evidenza della morte quale realtà da cui nessun uomo è mai tornato. Eppure queste parole di interpretazione vogliono dire una verità che è ben più grande di un miracolo, ben più profonda dello straordinario contenuto nell’annuncio: «Eghérte», «È risorto, si è destato». Questo è il grido della Chiesa, il grido liturgico, ma, come dice Pietro nella sua prima omelia dopo la Pentecoste, questo grido continua a significare: «Dio lo ha risuscitato, questo Gesù Dio lo ha risuscitato» (cf. At 2,24.32). Dio, il Padre di Gesù, colui che Gesù invocava nella fede e chiamava: «Abba, Padre» (Mc 14,36), gli ha risposto al di là della sua morte.
Gesù è morto, è realmente morto, morto come muore un uomo, morto come muore una vita animale. Ma Dio lo ha rialzato dalla morte e gli ha dato la sua vita divina, la vita eterna. Non ha rianimato un cadavere, non ha fatto tornare in vita un morto – facciamo attenzione – ma gli ha dato la sua stessa vita, la vita divina, la vita eterna. Proprio uno dei testi più antichi che possediamo, più antico degli scritti dei vangeli, il prologo della Lettera di Paolo ai Romani, dice: «Cristo Gesù … nato dalla stirpe di David come uomo, [è stato] costituito Figlio di Dio con la potenza dello Spirito santificatore nella resurrezione dai morti» (Rm 1,1.3-4). Ecco la risposta del Padre a Gesù, che rivela pienamente la paternità di Dio nei confronti di Gesù: è la risposta del Padre alla morte filiale di Gesù. Se c’è una rivelazione di Dio Padre, per noi cristiani, non ci viene neanche dall’invocazione fatta da Gesù: «Padre nostro» (Mt 6,9), ma ci viene soprattutto dall’azione con cui Dio ha fatto risorgere Gesù e lo ha fatto suo Figlio. Non solo, ma significativamente Paolo nella sua predicazione di fronte ai giudei di Antiochia di Pisidia afferma: «Dio ha risuscitato Gesù, come sta scritto nel Salmo secondo: “Mio Figlio sei tu, io oggi ti ho generato” (Sal 2,7)» (At 13,33). Questa esegesi dell’Apostolo sul Salmo 2 è un’esegesi canonica, dunque definitiva: la morte in croce di Gesù è in realtà una nascita alla pienezza di vita, è proprio perché Gesù ha saputo morire da Figlio, il Padre ha dovuto – potremmo dire – mostrarsi davvero Padre e dunque rialzare suo Figlio da morte.
In questa luce della morte come vera generazione di Gesù a Figlio di Dio, comprendiamo anche alcune parole disseminate nella Lettera agli Ebrei. Gesù che è venuto nel mondo (cf. Eb 10,5), che ha imparato la sottomissione dalla cose che ha sofferto (cf. Eb 5,8), che ha imparato la sottomissione durante tutta la sua vita, fino alla sua passione e morte, nella morte filiale ha potuto davvero dire con pienezza la parola: «Abba, Padre», senza nessuna riserva, offrendo totalmente la sua vita a Dio. Vogliamo mettere accanto le parole di Gesù alle parole del Padre secondo la Scrittura? Gesù dice: «Padre, nelle tue mani affido il mio spirito», l’ultima sua parola prima di morire. E il Padre accoglie Gesù nella morte dicendogli: «Tu sei mio Figlio, io oggi ti ho generato». Ecco dove sta il «tutto è compiuto» di Gesù, l’amen di Gesù al Padre, ma possiamo adesso dire anche l’amen del Padre a Gesù. Gesù è stato fedele, è stato un amen al Padre; e il Padre è fedele, è l’amen a Gesù.
Gesù aveva definito la sua morte un battesimo, aveva parlato ai discepoli di un battesimo che doveva ricevere (cf. Lc 12,50). Ebbene, qui comprendiamo come la morte di Gesù è diventata davvero un immenso battistero: ogni uomo che muore è immerso in questo battistero, e nella propria morte incontra la morte di Gesù. La nostra morte è immersa nella sua morte, e con lui conosciamo dunque il rialzarci, o meglio, l’essere risuscitati da morte da un’azione di Dio che ci rialzerà, ma non solo ci rialzerà, ci darà vita, ci farà anche pienamente e radicalmente figli suoi. Ancora, basta ricordare quelle parole con cui Gesù, proprio parlando della sua morte come battesimo, ha sentito di dover chiedere ai discepoli: «Potete voi essere battezzati col battesimo con cui io sarò battezzato?» (Mc 10,38). Anche per ciascuno di noi la morte è un battesimo. Comprendiamo allora bene le espressioni che abbiamo ascoltato nella Lettera di Paolo ai Romani: siamo immersi nella morte di Cristo (cf. Rm 6,3-4), e la morte di Cristo è il vero battistero in cui tutti gli uomini sono in qualche misura immersi: credenti o non credenti, cristiani o non cristiani, la loro morte trova sempre la morte di Gesù e la morte di Gesù non è mai estranea a quella di noi uomini. D’altronde, alcuni padri della chiesa hanno osato dire che proprio nella morte troveremo la purificazione dai nostri peccati, perché la morte è un battesimo più radicale del battesimo sacramentale che abbiamo ricevuto e che ha dato inizio alla nostra vita cristiana.
«Nelle tue mani, Padre, raccomando il mio spirito» dovremo dire, e ciascuno di noi dovrà dirlo; e ciascuno di noi ascolterà la voce di Dio: «Tu sei mio figlio, io oggi ti ho generato». Perché nella morte saremo generati alla vita eterna, parteciperemo alla vita di Dio. La risposta del Padre a Gesù sarà anche una risposta a ciascuno di noi, perché se non ci fosse questa risposta anche per noi – ed è sempre Paolo a dirlo –, allora non ci sarebbe neanche stata la risposta per Gesù. Attenzione, nella Prima lettera ai Corinti l’Apostolo lo dice chiaramente: «Se noi non risorgiamo, neanche Cristo è risorto» (cf. 1Cor 15,16). Non afferma solo: «Se Cristo non è risorto, neanche noi risorgiamo» (cf. 1Cor 15,14.17), ma anche: «Se noi non risorgiamo, neanche Cristo è risorto». Affermazione scandalosa, ma Paolo la conferma dicendo: «Se noi non risorgeremo, vana è la nostra fede e noi siamo da considerare i più miserabili tra tutti gli uomini» (cf. 1Cor 15,19).

Al termine di questa sequela di Gesù che abbiamo cercato di fare, dall’ultima cena all’ora della resurrezione, possiamo allora dire che Gesù ha fatto al Padre una grande eucaristia, ha innalzato al Padre un grande ringraziamento. Il Padre ha gradito questo ringraziamento, lo ha accolto, e con la sua azione ha risuscitato Gesù, confermando la sua eucaristia. Ma questa conferma di Gesù è soprattutto un sigillo: avendo Gesù vissuto l’amore fino all’estremo, è degno di essere chiamato «mio Figlio», di essere Figlio del Dio che è amore, del Dio che, essendo amore, vince la morte. A me piace pensare che all’interno della vita trinitaria in cui Padre, Figlio e Spirito santo, in una circolarità, in una pericoresi, hanno uno scambio di vita, il Padre accoglie l’eucaristia del Figlio, il ringraziamento del Figlio, nello Spirito santo, ma ringrazia anche il Figlio di essergli stato fedele e di averlo rivelato a noi uomini. Davvero la Trinità è un’eucaristia reciproca nella quale noi siamo invitati a entrare.
ENZO BIANCHI

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