Come san Pietro salì in Cattedra - Sangalli
La vicenda di Simone figlio di Jonas, diventato Pietro e designato da Gesù guida della Chiesa, merita una panoramica storica nell’occasione fornita dalla memoria liturgica della Cattedra di San Pietro, il 22 febbraio.
Il pescatore del lago di Tiberiade, domiciliato a Cafarnao, sulla costa settentrionale di tale specchio d’acqua, era sposato: il vangelo di Marco (Mc 1,30-31) cita un episodio che ne coinvolge la suocera. L’episodio data posteriormente all’arresto di Giovanni il Battista: siamo già nella seconda metà del 31 d.C., come desumibile da una serie di circostanze cronologiche comuni a tutti e quattro i vangeli.
Tra i primi a seguire Gesù, Simone, poi detto in aramaico Kefa (pietra, da cui Petros in greco), si distinse per intraprendenza, generosità e saltuaria avventatezza.
La lettura dei Vangeli e degli Atti permette di seguire anche cronologicamente le tappe principali della sua vicenda.
L’autorevolezza di Papa Benedetto XVI nel suo Gesù di Nazaret (cap. 9, par. 1 e 2) avvalora la sottolineatura che la data della Trasfigurazione (un episodio certamente indelebile nella memoria di chi lo visse) vada strettamente correlata con la confessione di Pietro a Cesarea di Filippo, con lo yom kippur e con la festa delle Capanne. Siamo dunque all’inizio dell’autunno e l’anno è il 32 d.C., a ridosso degli eventi decisivi della nostra redenzione.
La Pasqua ebraica del 33 vede Pietro segnato dalla drammatica situazione del rinnegamento di Gesù, che culmina nella terribile morte di croce del Salvatore; ma è anche il momento dell’esperienza della sconvolgente gioia della resurrezione, che Pietro dapprima indaga (Gv 20,6) e poi vive (Lc 24,34), sfociando in un mandato entusiasmante e pesantissimo, se non fosse che è “alleggerito” dalla presenza di Dio, allora come oggi: disporre delle chiavi del regno dei cieli (Mt 16,19), dover confermare la fede (Lc 22,32), aver la responsabilità di condurre il gregge (Gv 21,15-17).
Dagli Atti, dopo la Pentecoste del 33, rileviamo l’attività coraggiosa di Pietro coerente con un mandato tanto esigente. Non mancano minacce, interrogatori ed arresti. C’è il martirio di Stefano, prima della conversione di Paolo, quindi ancora nel 33. Una prima tappa decisiva è segnata dalla vicenda che vede Pietro resuscitare una morta (At 9,36-41) e battezzare Cornelio (At 10), aprendo l’evangelizzazione ai Gentili. Siamo nel bel mezzo degli anni Trenta del primo secolo della storia cristiana.
Durante il periodo di Erode Agrippa (41-44) la persecuzione causa il martirio di Giacomo il maggiore e Pietro è protagonista una liberazione clamorosa (At 12,7) e la fuga precipitosa, probabilmente a Roma (At 12,17): la presenza di Pietro a Roma, con Marco, è alla base della tradizione che riconosce al vangelo secondo Marco una genesi romana: il testo redatto in greco (e con un substrato culturale semitico, rilevabile anche da retroversioni in aramaico del testo greco), costituisce in realtà il vangelo del memorie di Pietro, di cui Marco fu prezioso collaboratore. Si era sotto il regno di Claudio (41-54 d.C.) e a Roma Pietro si adoperò alla sconfessione di un tale Simon Mago (lo troviamo anche in Atti 8,9-24) e citato espressamente sia da Eusebio di Cesarea (Storia Ecclesiastica, II, 14) sia da Girolamo (Gli uomini illustri, I).
Girolamo scrive che Pietro resse la cattedra episcopale di Roma fino all’ultimo anno di Nerone (il 67-68), e che lo fece per 25 anni, quindi facendo risalire l’inizio al 42, coerentemente con la ricostruzione della persecuzione di Erode Agrippa, il martirio di Giacomo il Maggiore, l’arresto, la liberazione e la fuga di Pietro. Non necessariamente per questi 25 anni Pietro ha avuto residenza stabile a Roma. E anzi, proprio il suo viaggiare avrà suggerito che rimanesse qualcosa di scritto, da lui garantito: la cultura romana non era “orale” come quella orientale. Infatti Clemente Alessandrino (150-215) è citato da Eusebio in un ricordo attestante che quando Pietro predicò il vangelo a Roma, la gente chiese a Marco di mettere per iscritto le sue parole (Eusebio, Storia Ecclesiastica, VI, 14).
Ritroviamo Pietro a Gerusalemme per il Concilio del 49 d.C., ancora coraggioso decisore, capace di assecondare le tesi di Paolo, di confermare Giacomo e di correggere se stesso (At 5,7-11) dopo qualche screzio con Paolo a proposito dei Gentili. Questo accadde ad Antiochia, città nella quale la tradizione ecclesiale ricorda una lunga presenza di Pietro.
L’uomo stabilito da Gesù quale roccia su cui fondare la Chiesa ci ha lasciato due lettere apostoliche dalle quali si desume che all’epoca c’erano in circolazione le lettere di Paolo, e che esse erano reputate degnissime di ascolto. Non manca un cenno all’indimenticabile episodio della Trasfigurazione, (2 Pt 1,16-18), che vide in Pietro uno dei tre testimoni oculari (e uditivi…). Il tema centrale di tutte le lettere apostoliche, databili tra il 60 e la distruzione di Gerusalemme (mai menzionata, nemmeno con vaghe allusioni) del 70, è la presenza crescente di “falsi maestri”. Nella seconda lettera di Pietro e in quella di Paolo a Timoteo c’è il sentore di un prossimo appuntamento con la morte.
Siamo probabilmente sul finire del 66. La data è desumibile da una serie di circostanze e da un accenno nella lettera di Giuda, coeva, ma leggermente posteriore alla seconda di Pietro. Attorno a quei mesi convergono infatti una serie di rivoli della storia che poi ingrossano fino a farne tracimare il fiume in immani tragedie. Giacomo il minore è morto martire, attorno al 61-62. La tradizione orientale pone in quegli anni anche il martirio di Andrea, fratello di Pietro. L’incendio di Roma nel luglio del 64 dà la stura alle persecuzioni anticristiane di Nerone.
La prima lettera di Pietro fotografa bene il clima della seconda parte del 64. Vi troviamo un’allusione a Babilonia (1 Pt 5,13) e può trattarsi solo di due città: Roma o Gerusalemme. Il dibattito è aperto, anche a proposito di “Babilonia la grande” di cui parla (ancora profeticamente) Apocalisse 18,2. Molti commentatori propendono per un’identificazione di questa città con Gerusalemme; in questo caso Pietro nel 64 era andato a Gerusalemme e di là scrisse la sua prima lettera.
Nel 66, stante la ricostruzione possibile tramite Giuseppe Flavio, accade un fatto inquietante proprio a Gerusalemme, mentre il procuratore romano Gessio Floro innesca una serie di provvedimenti contro gli ebrei a seguito di una rivolta iniziata nella pasqua di quell’anno: nel giorno di pentecoste (metà maggio) una voce scuote il tempio (“Noi ce ne andiamo di qui”) e subito dopo, avvenute le prime ribellioni e rappresaglie, ancora in maggio Gessio Floro attacca la città. Un tentativo di conciliazione di Berenice ed Erode Agrippa II non va a buon fine. Ribellioni esplodono ovunque, contrapponendo giudei e gentili, mescolando rabbia per le tassazioni, credo religioso, voglia di indipendenza e rancori personali. Un’intera legione romana, la XII Fulminata, viene sbaragliata a Beth Horon. Devono essere ritornate in mente le parole di Gesù: in moltissimi lasciano la città.
Pietro tornò a Roma e vi morì martire, sul colle Vaticano, sul finire della primavera del 67, negli stessi giorni del martirio di Paolo, prima del suicidio dell’imperatore romano avvenuto nel 68 e prima che Nerone, dal luglio del 67, si recasse in Grecia per partecipare a quella edizione dei giochi olimpici, usati anche politicamente per far sembrare “tutto sotto controllo”.
Pietro resse la Chiesa per quasi 34 anni, a partire dal 33. Solo il Papa Pio IX, 31 anni e 7 mesi di papato, ha vissuto un periodo paragonabile a guida della Chiesa. Con buona pace di ogni distinguo ed il dovuto rispetto per gli eredi di ogni divisione prodottasi, la Chiesa di Gesù, cristiana, è indissolubilmente legata al primato (umile ed umiliato) di San Pietro ed al mandato ricevuto proprio dal Figlio di Dio (Mt 16,18-19 e Gv 21, 15-19). Chi non guardi a quella cattedra, volente o nolente, fa il gioco di qualcun altro.