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Pedofili: l'umiliazione evangelica (E.Bianchi)

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La Stampa, 14 marzo 2010
In questi giorni in cui il dolore e le angosce di tante vittime – dirette ma anche indirette, come i familiari – del male compiuto da ministri della chiesa si estende all’intero corpo ecclesiale, a sua volta ferito da queste gravi infedeltà, e alla società intera che non può ritenersi estranea ai misfatti compiuti dentro e fuori le istituzioni religiose, si vorrebbero pronunciare e ascoltare alcune parole umane e, per chi è credente, cristiane. In questi giorni che per i cristiani sono il tempo penitenziale quaresimale, essi sono invitati a ricordare che il loro metodo di approccio non mondano alla verità è costituito dal pentimento. E sarebbe prezioso ricordare, proprio in questi stessi giorni, il decimo anniversario di un gesto evangelico di rara profezia compiuto da Giovanni Paolo II al cuore delle celebrazioni del giubileo: la confessione delle colpe commesse dai cristiani nel corso della storia e la richiesta di perdono a Dio e alle vittime. Fu un gesto poco capito, ma che ancora oggi rivela la sua dimensione profondamente evangelica e le sue potenzialità di lenimento di ferite laceranti. Confessare in una liturgia solenne al cuore della cattolicità le colpe commesse verso gli oppressi della storia, i popoli colonizzati, i perseguitati in nome della verità, gli ebrei, le altre chiese fu azione coraggiosa e responsabile, più volte ripresa anche in seguito. “Noi perdoniamo e chiediamo perdono!” è l’esclamazione risuonata a più riprese non come scontato esercizio verbale, ma come grido indissolubilmente legato alla realizzazione della giustizia autentica e alla ricerca della pace nell’esercizio della riconciliazione. È un’invocazione di cui si avverte la necessità e la qualità risanante anche oggi, un gesto di pentimento e un impegno di conversione che la giustizia cristiana, in questo caso non in contraddizione con quella umana, esige come preliminare per ulteriori passi concreti di solidarietà e aiuto alle vittime.
Va riconosciuto con profonda tristezza che l’orribile piaga degli abusi sui minori è una tragica realtà presente a ogni latitudine e, giova ribadirlo, purtroppo non esclusiva né predominante nelle sole istituzioni cattoliche: è soprattutto la diversa cultura e sensibilità sociale delle varie nazioni che permette l’emergenza o meno dello scandalo e i tempi e i modi del suo essere di dominio pubblico. Né va a beneficio di una lettura sapiente di questi eventi l’accostare qualche schiaffone – chi della mia generazione non ne ha ricevuti in famiglia, a catechismo, a scuola ... – a comportamenti di inaudita gravità, innescando improprie accuse e diffidenze verso metodi educativi ora superati ma un tempo considerati normali.
Bisogna riconoscere con rammarico che l’emergenza di queste colpe è enfatizzata e a volte anche strumentalizzata soprattutto contro la chiesa cattolica. Non si riesce più a vedere che la pedofilia, oltre a essere un delitto, è innanzitutto una patologia di cui sono vittime anche i pedofili stessi (spesso chi commette abusi su minori li ha subiti lui stesso quando era minore, sicché i carnefici di oggi sono le vittime di ieri): non si tratta di accampare scusanti, ma di comprendere i meccanismi del male e delle sue manifestazioni. Una patologia che investe non una chiesa particolare e nemmeno in modo specifico chi nella chiesa vive il celibato, ma piuttosto uomini e donne della società nel suo complesso, forse oggi meno capaci di un tempo, anche in nome di una distorta logica libertaria, di contenere e dominare pulsioni e passioni.
Quante accuse gratuite e sciocchezze contro il celibato in sé, mentre non ci si chiede se e in che misura non sia a volte la condizione di celibato ad apparire una facile scappatoia per chi ha problemi relazionali e sessuali. D’altro canto, questa consapevolezza dovrebbe richiedere una maggiore vigilanza nel discernimento delle vocazioni che investono di qualità rappresentativa nella chiesa uomini e donne di questa nostra fragile cultura: non tutti sono atti a diventare presbiteri o ad abbracciare la vita religiosa. Si dovrebbe anche richiedere che gli educatori non vivano in universi chiusi, in collegi monosessuati dove non è presente la varietà delle componenti della società: uomini e donne, giovani e anziani... L’immaginazione a volte può subire derive fantasmatiche proprio dalla mancanza di diversità, dalla fissazione ossessiva su un’unica tipologia di alterità.
Non si dovrebbe neppure dimenticare che, nonostante l’ampiezza dello scandalo, le responsabilità morali e penali restano personali e sono di diversa gravità: non si può equiparare chi ha commesso i crimini con chi li ha coperti – magari ignorandone la reale portata – o ancora con chi ha mancato alla propria responsabilità di vigilanza. Anche l’ossessivo riferimento alla “tolleranza zero”, espressione totalmente sconosciuta al linguaggio evangelico e alla tradizione della chiesa, dovrebbe interrogare innanzitutto i cristiani, ma non solo loro: anche nel caso di una persona pedofila, il suo comportamento delittuoso non giustifica un accanimento nei suoi confronti che escluda la misericordia, la cura, la possibilità di redenzione.
Andrebbe inoltre riscoperta una dimensione propria del messaggio biblico riguardo alle confessioni dei peccati fatte pubblicamente dai responsabili del popolo dei credenti, confessioni in cui appare la coscienza che tutti sono responsabili gli uni degli altri. “Responsabili” non significa “colpevoli”: i figli non sono colpevoli del peccato dei padri, nessuna pena può essere loro comminata per quanto non hanno commesso, e tuttavia ne devono “rispondere”, devono assumerne le conseguenze, per potersi dire ancora figli e per essere credibili come padri. È probabile che molti non capiscano questi atti dei credenti o li ritengano assolutamente insufficienti, così come è probabile che persino tra i cristiani vi sia chi non coglie pienamente la portata di una pubblica domanda di perdono compiuta dai pastori delle chiese coinvolte in colpe commesse da suoi membri in un passato prossimo che tragicamente si prolunga nel presente.
Non nascondo infine che desidererei una maggiore prudenza, anche da parte dei cattolici, nell’emettere giudizi generalizzati: non per coprire il male, ma per evitare di colpevolizzare intere chiese nazionali come se nel loro insieme fossero peggiori di altre. Una maggiore discrezione da parte di tutti favorirebbe l’assunzione della responsabilità da parte delle singole chiese locali nel governare e gestire – con il rispetto delle procedure giudiziarie e la preoccupazione primaria per le vittime – queste drammatiche situazioni nella verità, nella giustizia e nella misericordia che non deve mai venir meno, neppure in casi estremi.
Sì, sono vicende che addolorano profondamente la chiesa e i cristiani e sconcertano la società, sono giorni di sofferenza quelli che stiamo vivendo, ma vorrei ribadire che i credenti non devono temere l’umiliazione che a volte deriva dal confessare colpe reali, altre volte dal patire ingiuste accuse: dall’umiliazione, ci assicura il messaggio evangelico, nasce l’autentica umiltà e si impara a essere annoverati tra i malfattori, come è accaduto a Gesù di Nazareth.
Enzo Bianchi
Fonte: MonasterodiBose
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