Cristina Simonelli "Ambiguità di un detto evangelico: abitare la crisi"
“Rendete a Cesare quello che è di Cesare e a Dio quello che è di Dio" (Mt 22,20-21).
La risposta di Gesù - sottolinea Cristina Simonelli, teologa - nasce in un momento
molto difficile in Israele, in cui la domanda rischiosa dei farisei sul tributo da pagare
o meno al governo invasore viene attribuita a ipocrisia, malvagità e astuzia.
Alcune espressioni evangeliche hanno avuto e continuano ad avere una
vita propria. Questo è indice del loro rilievo, perché toccano gangli vitali e
parlano dunque in diversi contesti. Tuttavia, la risorsa che rappresentano
non è indenne da rischi, primo fra tutti quello di farne massime universali
staccandole da un contesto preciso. Il primo passo sarà dunque quello di
ricostruire il contesto di origine del detto presente nelle tre narrazioni sinottiche
(Mc 12//Mt 21//Lc 20) per poterlo poi seguire in qualche utilizzo, antico e
non solo.
L'Evangelo della crisi
Forse il titoletto di questo paragrafo non è del tutto adeguato, perché in
fondo la Buona notizia apre sempre una crisi, nei molti significati che il
termine può avere. Ma la sezione in cui si trova il nostro detto è nei tre
Vangeli sinottici di crisi nel senso più comune della parola: fa infatti parte dei
momenti finali a Gerusalemme, quando il conflitto è moltiplicato, lasciando
prevedere l’esito cruento, che non mancherà. Infatti dopo l’ingresso in città
si registra un’escalation di contrasti, che va dalla cacciata dei venditori dal
tempio a diverse controversie: da chi trae autorità, e Gesù che risponde
facendo, a propria volta, una domanda insidiosa sul battesimo di Giovanni;
una parabola molto chiara sui vignaioli malvagi “cercavano di catturarlo, ma
ebbero paura della folla; avevano capito infatti che aveva detto quella
parabola contro di loro” (Mc 12,12 e paralleli). Così ecco comparire una
processione di gruppi religiosi, ognuno con un quesito per metterlo in
difficoltà: farisei ed erodiani; sadducei; scribi, che snocciolano quesiti impegnativi e
sostanzialmente imbarazzanti, come quello che ci interessa, quello sulla
resurrezione dei morti con la legge del levirato e la storia horror della donna
costretta a sposare sette fratelli uno dopo l’altro, e quello sul primo dei
comandamenti. In Matteo la sequenza, di poco diversa, si attesta poi su uno
dei discorsi più duri di Gesù, che parlando con la folla indica gli scribi e i
farisei come razza di vipere, li raggiunge con sette maledizioni e apostrofa
Gerusalemme in termini altrettanto duri (Mt 23,1-38).
La ripresa del contesto, che peraltro ognuno può tornare a leggere,
serve per dire che quanto è diventato una specie di massima sapienziale
nonché una buona regola politica, nasce secondo le narrazioni evangeliche in
un momento estremamente difficile, in cui la domanda rischiosa sul tributo da pagare o meno al governo invasore viene attribuita, sommando i tre
racconti, a ipocrisia, malvagità e astuzia. L’uscita è senza dubbio brillante:
«Questa immagine e l’iscrizione, di chi sono? Gi risposero: “di Cesare”.
Allora disse loro: rendete a Cesare quello che è di Cesare e a Dio quello che
è di Dio» (Mt 22,20-21).
È bene ricordare la forma critica in cui nasce l’espressione non tanto per
erudizione, ma per non perdere di vista il fatto che non si tratta di qualcosa
di semplice, di cui è facile stabilire i confini, bensì di un discernimento da
mettere in atto non solo in situazioni diverse, ma anche alla ricerca di una
mediazione possibile, da negoziare, certamente non una volta per tutte.
Di fronte al potere: cesare è solo un piccolo comandante
Percorrere in maniera compiuta gli usi del detto non è neppure pensabile.
Se ne possono però raccogliere alcune tipologie. Inizierei da un antico documento,
che ne contiene una probabile reminiscenza, senza essere una vera e propria
citazione. Ancora una volta il contesto è di crisi: si tratta infatti degli Atti del
martirio avvenuto a Scilli, località non distante da Cartagine, nel 180 e.v.: fra
il resto, questo è, al momento, il più antico documento cristiano in lingua
latina. Compaiono di fronte al proconsole Saturnino alcuni uomini e alcune
donne, sei nell’elenco iniziale che apre il processo, dodici nella sentenza finale
che commina loro la pena capitale.
Le due risposte che qui interessano sono rispettivamente di Sperato e di
Donata. Entrando subito in tema, visto che il verbale non riporta le formalità
iniziali, Sperato si professa innocente da reati, ma nel contempo afferma di
obbedire a quello che riconoscono come Imperatore. Il proconsole coglie
l’elemento sovversivo presente nella frase e invita tutti a seguire piuttosto il
rito pubblico - semplice, lo definisce, si trattava di recitare una formula di
giuramento per il genio dell’Imperatore e supplicare gli dei per la sua salute.
Sperato prosegue: «Io non conosco autorità supreme in questo mondo: servo
piuttosto quel dio che nessun uomo ha visto né può vedere coi suoi occhi. Io
non ho rubato nulla, pago una tassa (teloneum, il dazio) ogni volta che
acquisto qualcosa, poiché io conosco il mio Signore, re dei re e imperatore di
tutte le nazioni». E a seguire anche Donata si esprime in merito, con una frase
ancora più vicina al detto evangelico:
«Onore a cesare in quanto cesare, ma timore solo verso Dio».
Per rendere meglio il concetto, l’editore italiano del testo che sto citando
ha scelto mettere cesare con la lettera minuscola. Da notare che il gruppo
rivendica la propria buona condotta, anche dal punto di vista dei tributi, ma
oppone un’obiezione di coscienza che è un giudizio tanto semplice quanto
devastante per un potere assoluto: cesare, sì, per carità, ma in fin dai conti è
solo l’imperatore, un uomo al governo ma non di più.
C’è un filo sottile ma tenacissimo fra queste antiche cronache e l’atteggiamento dei resistenti di tutti i tempi. Penso alla foto di Naval’nyj che è
circolata in rete (oggi anche il titolo di un libro pubblicato per Morcelliana)
con la scritta: «Io non ho paura. Non abbiatene neanche voi!»
Giocare con il fuoco: alleanze rischiose
È certo che l’argomento del martirio è decisamente rischioso, uno di
quelli, come ebbe a dire Christian De Chergé nel suo Testamento spirituale
nell’Algeria della fine del secolo scorso, sempre a rischio di retorica fuori
luogo, mentre va in scena un dramma umano, ancora prima che politico,
culturale e spesso religioso. Non solo, ma pur con un'ammirazione sconfinata
per quella “semplicità” che resiste in termini radicali ed estremi, è evidente
che il desiderio comune, ancora una volta umano politico e religioso insieme,
cerca tempi nei quali la famosa frase di Christa Wolf in Cassandra possa
essere pratica condivisa: «Tra uccidere e morire c’è una terza via: vivere».
Sono convinta, infatti, che, sia pure espresso in altro modo, quello può essere
stato il desiderio che ha mosso cristiani e in particolare vescovi all’inizio del
IV secolo ad avvicinarsi all’Impero, una volta intravista la possibilità di
un’alleanza inedita fra Cesare e le chiese (non osiamo dire che siano uguali
a Dio, ma se ne considerano inviate: a breve torniamo su questo aspetto).
Sappiamo tutti, dettagli storici più o meno abbondanti o precisi, che la
cosiddetta “svolta costantiniana” ha portato anche lo stop alle persecuzioni
classiche, ma ha comportato anche molto altro, fra cui l’arbitrato imperiale
nei dibattiti sulla fede e altri tipi di violenze. Mi riferisco a tutto questo molto
velocemente (l’anniversario di Nicea 325/2025 consente di trovare molto su
tutto questo) perché tale Ossio, spagnolo e vescovo titolare di Cordoba ma
uno dei più fidati consiglieri di Costantino spesso a corte, dopo avere a più
riprese sostenuto la sua politica, avere presieduto sinodi di vario genere in
quella direzione, ecco che si trova, secondo Atanasio che ne è fonte, a citare
proprio il nostro detto evangelico per porre un argine proprio alla politica di
intervento (di Costanzo, nel 365, in questo caso) di cui è stato lui stesso
sostenitore, si direbbe complice:
«Smettila, ti prego, e ricordati che sei un uomo mortale, temi il giorno del
giudizio, conservati puro per allora. Non immischiarti nelle questioni della
chiesa e non darci ordini in questo campo, ma trai tu stesso insegnamenti da
noi. A te Dio ha posto nelle mani l’impero, a noi ha affidato le cose della
chiesa. Come chi cerca di sottrarti il potere si oppone al volere di Dio, così
abbi timore d’incorrere anche tu in una grave accusa, prendendo su di te gli
affari della chiesa. Sta scritto: “Date a Cesare quel che è di Cesare, a Dio quel che
è di Dio”. Né dunque è lecito a noi governare la terra, né tu, o sovrano, hai la
potestà di offrire incenso. Scrivo queste parole, pertanto, preoccupandomi della
tua salvezza» (Atanasio C. Ariani. 44).
A Costanzo si rivolgeva del resto anche Ilario, con un pamphlet le cui affermazioni centrali sono diventate così famose, da attraversare i tempi e
così da capitare spesso nel web:
«O, se solamente Dio onnipotente creatore dell’Universo e padre del
nostro unico signore Gesù Cristo avesse concesso a me e a questo nostro
tempo di confessare la fede sotto Nerone e Decio... non avrei temuto di
dare la mia testimonianza [...]. Perché, di fronte ai tuoi nemici dichiarati,
la mia lotta sarebbe stata scoperta, sicura, fiduciosa... ma il combattimento
che si profila oggi ci pone di fronte a un persecutore subdolo, a un nemico
che ci blandisce, che non ci frusta la schiena ma ci accarezza il ventre, [...]
non ci fa perdere la libertà in carcere ma ci rende suoi schiavi dentro il
suo palazzo, non ci colpisce i fianchi ma ci occupa il cuore, non ci taglia
la testa con la spada, ma ci uccide l’anima con il denaro, non ci minaccia
pubblicamente con il fuoco, ma condanna la nostra anima alla gehenna
privatamente. Non ci vince contrastandoci, ma ci domina adulandoci,
confessa Cristo, perché sia in realtà negato, favorisce una forma di unità
perché non ci sia vera pace [...] onora i sacerdoti perché non svolgano in
realtà il ruolo di vescovi, costruisce le chiese per distruggere la fede»
(Ilario di Poitiers, Contro Costanzo 5).
Si potrebbe dire, in maniera un po’ semplificante, perché gli attori in
campo e i momenti sono diversi, e non vorrei dare l’impressione di un
sistema compatto, che le chiese hanno scherzato col fuoco, pensando di poter
piegare a proprio favore un potere assoluto, uscendone indenni. Un po’
secondario qui quale sia la “parte” sostenuta: quelli che parlano nei due
passi appena citati resistono alla politica “ariana”, ma certo vi saranno
vittime della politica “nicena” dopo Teodosio e il suo editto del 380, così
come in tutto il secolo si leverà la voce di una larga parte della chiesa
d’Africa (detta impropriamente “donatista”): «che ha a che fare la chiesa dei
martiri con la conventicola dei traditori?».
Anche in questo caso, quella via diversa dal morire - subendo senza ferire
ma anche senza rinunciare a cambiare le cose - e uccidere, cioè stare in
alleanza stretta col potere assoluto di turno, non può risiedere in una ricetta,
ma in un processo di discernimento.
Delirio di onnipotenza: tenere il posto di Cesare e magari anche di Dio
C’è tuttavia, all’interno già delle espressioni attribuite a Ossio, uno
slittamento molto grave e purtroppo non infrequente. Nella frase di Gesù
certamente era allusa la “causa di Dio”, quella che altrove viene detta
“Regno” e che è anche legata alla sua persona, specialmente nelle battute
finali della vicenda. Ma nelle frasi riportate sopra, si è già accennato, non
c’è neppure varco: Cesare lì è chiaro chi sia, ma l’alternativa legata a Dio
viene identificata con la chiesa. Non sempre, non comunque, non da tutti:
mancherebbe altro! Tuttavia, il piano è fortemente inclinato ed è facile cadere rovinosamente: le intenzioni sono aspetti che riguardano Tribunali
ben più alti e alla fine molto disponibili a considerare che siamo “piccoli
esseri limitati”. A noi però spetta un giudizio sui fatti e soprattutto sui
metodi. I fatti sono del passato, i metodi tendono a replicarsi.
Ci sono state perciò situazioni varie: sia nella forma di un’alleanza stretta
(detta dagli storici bizantini “sinfonia”) sia nella forma più occidentale di
due poteri che si fronteggiano e cercano di assommare ognuno le prerogative
dell’altro (esemplificata nella teoria delle due spade o anche nella lotta per
le investiture, che ne è cifra), le forme teocratiche sembrano essere state una
tentazione frequente. Del resto, quella tentazione di tenere il posto di Dio si
svolge anche in molte altre forme: si può ricordare, sempre per andare per
massimi sistemi, la Leggenda del Grande Inquisitore, nel quale l’ecclesiastico è
consapevole di correggere il lassismo portato da Cristo (è appunto... una
leggenda..., diremo...), ma anche la discussione contemporanea su alcune
modalità della chiesa cattolica che afferma che alcune sue scelte sono di
diritto divino. Mi riferisco, per uscire di metafora e fare un esempio concreto,
alla riserva maschile dell’ordine (1) .
Abitare il mondo come ospiti implicati
Tornando all’assunto iniziale e al suo contesto, l’espressione in questione
nasce nella crisi e si presenta nel tempo in forma critica. Forse gli esempi che
sono riuscita a fare sono tutti altamente drammatici e, in alcuni casi, anche
negativi. Sono convinta però che il detto evangelico possa prestarsi anche a
modalità meno sanguinose, e sostenere il buon reciproco collocarsi dei
credenti nell’ambito pubblico, in un orizzonte di rispettosa laicità.
E tuttavia il loghion non perde la sua forma di invito al discernimento, di
prospettiva inquieta, in quanto volta a scrutare le questioni in campo e a valutare le posizioni da assumere. Che per essere “nostre” e non “di Dio” chiedono
anche consapevolezza del limite, della provvisorietà delle scelte, abitate dalla
giustizia, ma penultime. Citazioni antiche ne ho fatte troppe e non vado oltre,
ma immagino sia riconoscibile nel titoletto del paragrafo, in quella forma di
ospiti implicati, l’orizzonte di A Diogneto - testo del resto non solo antico, vista
la sua presenza in Lazzati e nel Vaticano II - che auspica di poter trovare uno
spazio sottratto alla violenza e al sangue, ma suggerisce di gestirlo non in una
fuga al deserto in specie di non credibili Shangri-La, ma nel discernimento di una
cittadinanza critica, ma solidale, partecipe e insieme vigile.
Note
1) Si veda la discussione biblica storica canonica e teologica, in Senza impedimenti, a cura di A. Grillo, Queriniana, Brescia 2024.
Esodo n° 3 luglio-settembre 2024
Religione, fede, politica
contributi di
Beraldo, Bolpin, Borraccetti, De Carlini, De Sandre, Ferrario, Foglia, Galli, Levi Della Torre, Macchi, Naso, Palini, Rubini, Salvarani, Sandri, Simeoni, Simonelli.
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