Paolo Crepet «Mi sento un po’ matto e non ho mai rispettato le convenzioni»
intervista a Paolo Crepet
a cura di Roberta Scorranese
17 novembre 2024
Paolo Crepet, il 19 esce la sua autobiografia. Si intitola «Cosa porti con te». Posso aggiungere un punto interrogativo? «Che cosa porto con me oggi, che ho da poco compiuto 73 anni? Forse le persone che ho incontrato in una vita dedicata alla psichiatria, all’arte, alla bellezza».
E suo nonno? «Aveva conosciuto una donna troppo bella, Maria. Le fece un ritratto, poi lei morì. Era giovane, mio nonno ne uscì devastato».
Da dove viene il suo cognome? «Origini francesi, il mio bisnonno è stato tra gli editori di Baudelaire».
Lei è cresciuto in mezzo a libri, pennelli, tele. «E la mia vita si è divisa in due: la psichiatria da una parte, l’arte dall’altra. A un certo punto della mia vita, ad Arezzo, ho aperto una galleria: in realtà era poco più di un fondaco, ero giovane, pochi soldi. Veniva tanta gente ma nessuno comprava niente».
Non tutti sanno che lei, ancora oggi, possiede una raffinata collezione d’arte. «In passato ho avuto un dipinto di Hermann Nitsch e uno di Francis Bacon».
Tutti e due, nelle opere, parlano di sangue, dolore. «E non a caso: oggi siamo diventati indifferenti, il dolore non ci fa più niente, ammazziamo qualcuno per un paio di cuffie. L’arte, invece, dà splendore al dolore».
Caravaggio, Rembrandt. «Vede, oggi il problema non è la droga, perché i Rolling Stones hanno realizzato capolavori sotto stupefacenti. Oggi il problema è che abbiamo un sacco di drogati e nessuna opera d’arte».
La droga «più droga» che lei abbia mai provato? «A New York, una serata in casa con un amico. Arrivarono due ragazze bellissime, forse due ballerine, non ricordo. Una tirò fuori una canna. Potevamo tirarci indietro? Il mio amico dopo due tiri finì sul divano, a me non fece nulla».
E negli anni in cui lavorava nei manicomi di Rio? «Provai alcune bacche vegetali che danno euforia, ma figuriamoci: bevevamo tazzone di caffè nerissimo per stare svegli, che cosa ci avrebbero potuto fare le bacche?».
Non tutti sanno che lei ha girato il mondo. «Tutto cominciò con una bistecca ad Arezzo. Lavoravo lì e una sera mi presentarono un tipo. Mangiammo assieme e alla fine scoprii che si trattava del capo della sezione Salute Mentale dell’Organizzazione Mondiale della Sanità. Cioè il numero uno».
Concorso? «Lo vinsi e cominciai a girare il mondo per studiare la salute mentale della gente. Da Londra a Ginevra, da Praga a New Delhi fino a Parigi».
Un ricordo dell'India? «L’uomo che mi accompagnava mi disse che nelle famiglie era normale che qualche bambino prima o poi morisse. E quando un piccolo arrivava a un anno per loro era festa».
Lei ha lavorato anche nell’ex Unione Sovietica. «Credo di essere stato uno dei pochissimi psichiatri “occidentali” a poter sperimentare di persona che cosa significava lavorare in un ospedale psichiatrico dall’altro versante del Muro di Berlino».
Un ricordo? «Praga, per me un mito perché amo Kafka. Ma vidi con i miei occhi gli psichiatri che “rieducavano” dei soldati a loro dire affetti da deviazioni sessuali: mostravano a quei ragazzi diapositive con donne nude e se la loro reazione non era quella che si aspettavano, scattava la punizione».
Che cosa è per lei la follia? «Una forma di intelligenza straordinaria, immaginifica, visionaria. Non sto parlando delle comuni nevrosi, ma della persona che pensa di avere un’otturazione a un dente attraverso cui però parla con la Nasa, come mi raccontava un indimenticabile mio paziente di qualche anno fa».
Lei è un po’ matto? «Ma certo!».
In che modo? «Perché ho sempre fatto cose inconsuete, perché me ne sono sempre fregato delle convenzioni e ho fatto quello che mi piace fare. Certo, come tutte le persone libere mi è toccato un Golgota: l’accademia mi ha snobbato, ma sa che gioia incontrare la gente, parlare a tutti, andare in tv e entrare nei fatti, spiegarli. Solo oggi mi rendo conto di quanto valga la mia libertà».
Anche quella di indossare sempre solo maglioncini? «La spiegazione è semplice e ovviamente ha radici nell’infanzia. Avevo una nonna di poche parole. Al posto di dirmi “ti voglio bene” mi diceva “ti faccio un maglione”».
Se le dico Oliviero Toscani, cosa le viene in mente? «Una grande amicizia. Insieme abbiamo anche lavorato con Vittorio Sgarbi quando era diventato sindaco di Salemi. Io ero stato nominato “assessore ai sogni”».
E che cosa faceva? «Prendemmo un confessionale, lo portammo in piazza e invitammo la gente a raccontare lì i propri sogni».
E funzionò? «No, perché venivano solo donne, i mariti cominciarono ad agitarsi e la finimmo lì».
Come vi siete conosciuti con Toscani? «A un evento della Fgci, la Federazione Giovani Comunisti, a Cecina. Non ci offrirono nemmeno una Coca Cola».
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